Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]
La depressione, considerata ancora nel XIX secolo alla stregua di un semplice sintomo, è oggi diventata nel contempo un’entità clinica a pieno titolo e, prendendo il posto della nevrosi, la turba mentale più diffusa nel mondo occidentale. È dunque una nuova malattia di civiltà. Si nutre di tutti i malesseri sociali, di tutte le miserie, di tutte le esclusioni, ma altresì dell’assenza di punti di riferimento, della scomparsa del senso. Affiancando l’antica malinconia aristocratica all’eguaglianza democratica, corrisponde a un orizzonte di attesa eternamente deluso. Più ancora di uno stato psichico, è un modo di chiamare dei problemi generati dal mondo contemporaneo. È in questa accezione che è lecito parlare di società depressiva.
Se la depressione ha oggi assunto una tale estensione, è prima di tutto perché siamo diventati degli individui, senza alcuna tradizione né alcun punto di riferimento che ci indichi dal di fuori chi dobbiamo essere e come ci dobbiamo comportare. Come ha ben mostrato Alain Ehrenberg, liberazione dell’individuo e insicurezza identitaria cronica sono due face di una stessa dinamica. La depressione è una malattia della libertà moderna, che accompagna e sanziona la crescita del riferimento all’autonomia individuale nella vita sociale. Posto di fronte alla chiara consapevolezza della sua finitezza, l’uomo può vivere solo creando nel mondo il proprio mondo, un mondo provvisto di punti di riferimento e che costituisce la somma delle possibilità di essere che gli si offrono. Diventato autonomo, l’individuo si accorge troppo spesso di non essere all’altezza di ciò che sperava o di ciò che ha acquisito. Non è nemmeno all’altezza dei suoi desideri. Affrancato dagli antichi sistemi di conformità o di obbedienza, non riesce a dotarsi da solo dei punti di riferimento necessari per rimpiazzarli.
In una società in cui si presume che ciascuno sia sovrano di se stesso, l’individuo si trova posto di fronte, più che al problema della proibizione – che non scompare affatto, ma assume forme più sottili –, a quello della possibilità illimitata. Ebbene: lo scatenarsi della tecnoscienza e il dispiegarsi planetario della Forma-Capitale ci hanno fatto entrare nell’era dell’illimitato. Questo rifiuto dei limiti è anche un rifiuto di ogni punto di riferimento, perché un punto di riferimento orienta soltanto se si stabiliscono dei limiti. Qualunque punto di riferimento permette di capire che non tutto è possibile – o che tutto ciò che è virtualmente possibile non per questo è auspicabile. Da questo punto di vista, il principio di piacere si oppone più che mai al principio di realtà, tanto più che il virtuale svaluta il reale sino al punto di prenderne il posto. Il malessere deriva allora dall’incapacità di far fronte ad impulsi contraddittori in una società che spinge ciascuno a “schiudersi” dopo essersi presa la briga di assicurarsi prima di tutto del suo conformismo, e a godere della propria “libertà” pur mettendo in atto procedure di controllo sempre più elaborate. L’uomo si scopre ogni giorno più vulnerabile e fragile in un mondo che, contemporaneamente, gli ingiunge di essere sempre più “all’altezza”; misura allora il proprio bisogno di essere e si deprime.
La perdita di punti di riferimento si nutre però anche dell’assenza di speranze. Dopo i fallimenti e gli orrori del XX secolo, i nostri contemporanei si sono rassegnati a vivere nell’orizzonte della fatalità. Il grande messaggio del neoliberalismo, continuamente ridiffuso dai media, è che non esistono alternative allo status quo. Questa società è disperante? Non ce n’è un’altra possibile. Allora, più che mai, tutto cambia perché niente cambi. Noi viviamo così nel contempo nell’orizzonte dell’illimitato – l’infinità della merce – e nella esigua prospettiva di una storia conclusa, nella quale l’onnipresente distrazione, nel senso pascaliano del termine, ha l’unico scopo di mascherare il vuoto e la noia, la sensazione di perdita irreparabile che nutre le malinconie. Noi viviamo contemporaneamente nel moto perpetuo e nell’immobilità, nel troppo pieno e nel troppo vuoto. Nell’idea che tutto è possibile e nella constatazione che niente può essere padroneggiato.
Il rapporto con il tempo, simultaneamente, si trasforma. Il passato non è più “storicizzabile” ma istericizzato in maniera narcisistica od ossessiva. Il presente non è più “futurizzabile”: non può più proiettarsi nel futuro se non come pura ripetizione. Il futuro, infine, è percepito innanzitutto come portatore di minacce e non più di promesse. I fervori sacrificali, le mobilitazioni inaudite del XX secolo possono anche alimentare le commemorazioni obbligate di una “memoria” che gira a vuoto, ma retrospettivamente non possono suscitare altro che incomprensione (come immaginare che si possa morire per una causa o fare dono di sé in un mondo nel quale niente è gratuito?) e lasciare il posto alla gestione prudente degli interessi.
Minacce e rischi d’ogni sorta sembrano moltiplicarsi nel momento stesso in cui il rischio collettivo non viene più accettato ma è visto come uno scandalo (a cominciare dal rischio massimo, che è la morte). Ne risultano paure incontrollabili che generano altrettante ossessioni. Nell’era della vittimologia, ogni disgrazia è vissuta come una catastrofe, ma si propongono esclusivamente soluzioni individuali (l’“assistenza psicologica”) alle disgrazie sociali. Allora non si sa più che cosa sia vivere, ci si limita a sopravvivere a qualunque costo. La moda del linguaggio dei “diritti” esprime il desiderio di essere statutariamente garantiti contro tutto, ma si tratta di un desiderio impossibile da soddisfare. L’ossessione della sicurezza si accentuerà ulteriormente con l’invecchiamento della popolazione.
Il lento processo di disincanto del mondo – ad opera prima della teologia e poi della scienza – giunge al suo termine. La trasformazione del mondo in mercato disegna un universo in cui tutto viene valutato in termini contabili e la Forma-Capitale estende a poco a poco i suoi criteri di valutazione a tutti gli ambiti della vita sociale. Non è più l’uomo ad essere la misura di tutte le cose; sono le cose prodotte e scambiate che diventano la misura dell’uomo. Tutto ciò che produceva senso, tutto ciò che comportava una dimensione simbolica atta ad aiutare l’immaginario a sostenersi da solo, è in via di sradicamento in un mondo nel quale l’uomo e la natura sono essi stessi sempre più esclusi. Anche questa egemonia del dominio totale del mondo da parte del capitalismo e dell’ideologia occidentale contribuisce al generalizzarsi della mancanza di senso.
Così come la caduta della natalità, la depressione rivela una mancanza di vitalità – come se tutto ciò che le generazioni precedenti avevano apportato avesse nel contempo esaurito quelle che le hanno seguite. Il fatto che le società ricche sono anche quelle più depressive dimostra che il denaro non dà la felicità e che la gioia di vivere non è una questione di livello di vita materiale o di potere di acquisto. Le società materialmente più ricche sono oggi anche le più povere dal punto di vista spirituale, mentre le più povere materialmente possono ancora appoggiarsi al passato e avere fiducia nel futuro. C’era una volta un legame diretto fra la disperazione (individuale) e l’esplosione (sociale). Oggi ce n’è uno tra la depressione e l’implosione. Questo mondo, un giorno, imploderà.
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