lunedì 15 novembre 2010

LA REPUBBLICA NON PIU’ FONDATA SUL LAVORO



In questi ultimi anni al disinteressamento popolare per il teatrino della politica fa da contraltare una spartizione di potere fra organismi di governo, mediante nuove autonomie individuate e definite, nel 2001, con le modifiche costituzionali al Titolo V. Questi ritocchi, nel consolidare ed ampliare le articolazioni della cosiddetta casta, hanno comportato una profonda riorganizzazione dell’assetto istituzionale, con implicazioni negative sul rapporto tra le fonti del diritto del lavoro, ma soprattutto hanno modificato gli stessi contenuti della carta costituzionale.

Il nuovo art. 117 della costituzione[1] dice La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

Ciò pone una serie di questioni. Innanzitutto, nel subordinare il dettato costituzionale ai vincoli del Trattato UE voluti dai banchieri ed euro burocrati della BCE, è stata stravolta di fatto quella Costituzione che i nostri politici, ancor oggi, nei loro penosi dibattiti, definiscono sacra ed intoccabile. Poi la nuova geografia dei poteri restringe le materie su cui lo Stato legifera in modo esclusivo ed allarga l’elenco di quelle che rientrano nella potestà legislativa regionale concorrente. Ma il trasferimento di competenze alle regioni avviene senza il necessario passaggio delle risorse finanziarie necessarie a realizzare le materie devolute. Quindi anche tutti i servizi pubblici hanno risentito negativamente dei problemi di compatibilità di bilancio.

Questa situazione influenza e regola anche servizi essenziali e di interesse generale quali, ad esempio, la scuola e la sanità. Ciò perché il principale fattore che ispira la gestione della cosa pubblica è la volontà dello stato di autolimitarsi, riservandosi solo il diritto di dettare poche regole di indirizzo generale per l’ordinamento di settori di interesse collettivo e demandarne poi la gestione ad organismi non pubblici, privati o di natura mista, secondo il principio che “privato è bello”, lanciata anni fa dai confindustriali con l’intento di superare la politica del Welfare State. La logica delle privatizzazioni che ne derivò permise a Prodi di svendere agli amici tutte le più redditizie imprese pubbliche, di cui aveva appropriata cognizione per essere stato a capo dell’IRI, quello scellerato intreccio tra economia, affari e partitocrazia, che erano state le Partecipazioni statali.

Parallelamente al ridursi dell’intervento dello Stato, la mobilità incontrollata dei capitali e l’accelerazione dei processi economico sociali connessi alla globalizzazione hanno liberato grandi forze finanziarie che compiono veloci incursioni sui mercati, con predatorie operazioni di speculazione finanziaria.[2]

E se il mercato senza regole ha consentito un intenso sviluppo a certe aree geografiche e un enorme arricchimento per alcuni settori e gruppi sociali, ha indubbiamente recato, in Italia e nei paesi europei, una profonda alterazione di quell’equilibrio fra capitale e lavoro di cui la formula dello Stato sociale era la provvisoria e non certo esaustiva risultante. Ne esce rovesciata anche la tendenza alla convergenza - innescata dal compromesso socialdemocratico - tra crescita e riduzione delle disuguaglianze per cui il ricco diventa sempre più ricco e i ceti medi stanno travalicando il limite della povertà in una prospettiva, per i paesi occidentali, di sviluppo senza lavoro.

E’ l’effetto del cambiamento di natura del capitalismo il cui baricentro si è spostato dall’economia reale a quella finanziaria, svincolando sempre più il denaro dal rapporto col lavoro umano, poiché è il danaro che produce danaro. Non a caso la considerazione sociale del lavoro (art 1 della carta costituzionale) persiste ancora, ma solo formalmente ed in un contesto di estrema debolezza. Infatti la prospettiva di una “regionalizzazione” degli ordinamenti insieme a quella di una “comunitarizzazione” del diritto del lavoro, ha generato un forte impatto negativo anche sul sistema contrattuale, cioè sullo strumento di recupero del potere di acquisto di stipendi e salari, modificato al punto di ritornare a quelle normative che legalizzavano ogni forma di sfruttamento. In questo panorama il ministro, ex socialista, Sacconi è attivamente impegnato a riportare il mondo del lavoro alla legislazione del codice penale sardo in cui lo sciopero veniva punito quale reato o al codice Zanardelli che, solo all’inizio del secolo scorso, derubricò lo sciopero da reato ad inadempimento dei termini contrattuali, ritenendolo però sanzionabile col licenziamento.

Così oggi, il nuovo processo di industrializzazione, accantonato il diritto del lavoro, è governato dalla concorrenza al ribasso fra lavoratori dei paesi industrializzati e lavoratori del terzo mondo. Tutto ciò porta a nuove e neanche tanto moderne forme di sfruttamento, che non hanno prodotto né produrranno alcuna repressione violenta, perché in Italia non c’è stata né ci sarà nessuna ribellione popolare, vista l’attuale incapacità di contrapposizione non solo sindacale, ma anche politica. Tant’è che oggi, per imporre nuove forme di sfruttamento, non serve un novello Bava Beccaris, che, a Milano, prese a cannonate gli operai in sciopero, basta un piccolo ex-socialista nel settore pubblico e un semistraniero italo canadese, residente in Svizzera, per riportare, senza particolari problemi, i lavoratori alle condizioni dell’inizio del secolo scorso.

E proprio nei primi decenni del secolo scorso, il primo grande sciopero generale politico in Italia portò alla ribalta, nella regione Emilia Romagna, Benito Mussolini, 27enne con un passato antimilitarista e anarchico, che a Forlì guidava una delle più affollate manifestazioni contro la guerra italo turca.

Sicuramente erano altri tempi, alimentati da una differente vis politica. Oggi, senza alcun sussulto né politico, né popolare, viene sacrificato all’interesse degli euro banchieri il principio fondante della Repubblica, scritto nell’art. 1 della sua Carta Costituzionale nata dalla resistenza.

Ciò, sotto certi aspetti, conferma che la costituzione repubblicana antifascista e la democrazia di cui è fondamento sono solo utili strumenti di impostura, non a caso l’aver stracciato la costituzione è avvenuto nel più assoluto silenzio di coloro che per sessant’anni abbiamo sentito autodefinirsi paladini antifascisti della democrazia, ma anche di coloro che ad essi si contrapponevano per una differente Weltanschauung, fondata su un ordine generale in cui le radici collettive di appartenenza, non erano legate a vittorie calcistiche ma a legami di specie, di razza (termine oggi confinato quasi esclusivamente all'ambito della zootecnica) e civiltà.

A quei paladini antifascisti la destra (se non fosse stata distrutta e nella quale molti non si sono mai pienamente riconosciuti) avrebbe potuto rinfacciare l’inconsistenza di quella pretesa funzione civilizzatrice del costituzionalismo democratico antifascista e postfascista, visto che la principale attenzione della prima e ancor più della seconda repubblica è stata sempre indirizzata all’esercizio dell’iniziativa economica privata, di cui oggi viene abolito anche l’obiettivo finale dell’utilità sociale.

Ce lo impone la UE, dice la casta. Quella stessa che ha sottoscritto il Trattato UE – Prodi pro tempore – senza che la perdita di sovranità nazionale venisse evidenziata al popolo sovrano, che, in quanto tale, non è stato neanche chiamato – come in altri paesi – ad esprimersi nel merito.

Il risultato è che l’ordinamento costituzionale italiano è stato assoggettato all’applicazione diretta di disposizioni comunitarie, anche se queste si ispirano a principi diversi da quelli sanciti nella Costituzione dello Stato Italiano, specie in materia di diritti sociali.[3]

Quei paladini della democrazia sapevano bene che la nascita della Comunità Europea era contrassegnata proprio da un deficit di democrazia, insito nel fine esclusivo della integrazione dei mercati in senso spiccatamente economico. Sapevano che quei parametri economici garantivano, con la stabilità, le riserve monetarie depositate nei paradisi fiscali ma intaccavano profondamente i sistemi sociali e di Welfare. Eppure ancor più infame (termine entrato nella dialettica politica di questa estate) è l’aver affidato il controllo di tutti i parametri economici, profondamente condizionanti l’esercizio politico, ad una élite di misconosciuti banchieri, allevati nelle stanze del FMI, del Financial Stability Board, dell’OCSE o di qualche banca d’affari, in barba al principio, fondante la loro democrazia, del procedimento elettorale quale espressione della volontà popolare. Siamo quindi di fronte ad una nuova forma di democrazia, in cui gli eletti, ben pagati e tutelati, eseguono quanto loro ordina una piccola cerchia, non eletta, ma designata da chi veramente detiene il potere.

G. Guarino[4], noto costituzionalista, ha constato che, prima della definizione del trattato Ue in Europa si è perseguito lo Stato sociale come obiettivo prioritario: “L’eguaglianza sostanziale, il diritto al lavoro, un livello di vita adeguato ai bisogni personali e familiari, l’istruzione, la salute, l’assistenza e la previdenza sono compiti che la Costituzione italiana assegna allo Stato non assoggettabili ad alcuna limitazione.

Il Trattato (UE) capovolge il rapporto introducendo un limite rigoroso e sostanziale. Gli obiettivi possono essere perseguiti solo…alle condizioni…previste dal trattato. Che contiene ‘regole sistematicamente coordinate’ che realizzano due principi: la stabilità dei prezzi e un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.

Insomma la Costituzione dell’Unione rappresenta una assoluta novità in confronto con ogni costituzione.,. per la prima volta la disciplina economica è affidata per intero a un unico principio, quello del mercato aperto e della concorrenza.”[5]

Il Trattato UE, quindi, introduce una serie di trasformazioni ai dettati costituzionali non solo dell’Italia ma di tutti gli Stati membri. Innanzitutto attribuisce il ruolo di “obiettivo principale” non allo Stato Sociale bensì al mantenimento della stabilità dei prezzi, per concludere che: “Tutti i limiti all’iniziativa economica privata incompatibili con il mercato aperto e con il principio della concorrenza vengono automaticamente a cadere. …e che dall’integrazione del Trattato con gli articoli 41 e 42 della Costituzione consegue che la disciplina dell’iniziativa economica privata e dei beni privati deve perseguire la stabilità dei prezzi e attenersi ai principi della concorrenza e del mercato, in questi sensi dovendo oggi vincolativamente interpretarsi le espressioni ‘utilità sociale’ e ‘funzione sociale’”

Si è quindi di fronte a un rovesciamento totale dei principi, delle norme e delle istituzioni caratterizzanti le costituzioni europee del secondo dopoguerra.

La UE non riconosce il diritto al lavoro come tale, con una regressione anche rispetto alle disposizioni dei trattati come quello di Amsterdam. L’affermazione: “E’ riconosciuta la libertà d’impresa”, implica l’abbandono di quelle limitazioni che le Costituzioni del ‘900 avevano individuato per tentare di indirizzare a fini sociali l’impresa capitalistica - vedi ad esempio l’art.41 della Costituzione italiana su cui Tremonti vorrebbe ulteriormente intervenire -.

Quanto alla proprietà è stato cancellato ogni riferimento, cenno o anche richiamo al principio, affermato dal costituzionalismo contemporaneo, della funzione sociale (art.42 della Cost.). Infine, il Titolo della Carta sulla “solidarietà”, stabilisce che i datori di lavoro ed i lavoratori sono equiparati, quanto ad azioni collettive per la difesa dei loro interessi “conformate al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali.” Diventa quindi irrilevante la disuguaglianza economica e sociale tra le parti del rapporto di lavoro e il diritto di sciopero e quello di serrata vengono equiparati.

L’Unione considera i diritti sociali “situazioni giuridiche soggettive” operanti nell’ambito degli ordinamenti nazionali, come risultano ridisegnati “secondo le modalità stabilite dal diritto europeo e le legislazioni e le prassi nazionali”. Più chiaramente, l’UE definisce questi diritti come prestazioni derivanti da obbligazioni degli stati membri nei confronti dei loro cittadini e le sottopone ai vincoli di bilancio. Sostanzialmente questi diritti possono sopravvivere se contenuti entro i limiti del rapporto non superabile del 3% tra disavanzo e Pil, previo contenimento del debito pubblico al 60% del Pil e, anno per anno, in conformità alla “ raccomandazione” delle istituzioni dell’Unione previste dal trattato CE.

Quindi i contenuti e la portata dei diritti sociali – che interessano la generalità dei cittadini - sono sottoposti ai vincoli congiunturali dell’economia aperta ed in libera concorrenza, precludendo non solo il dispiegamento delle garanzie predisposte per soddisfare i bisogni sottesi a questi diritti, ma anche la possibilità che si sviluppi una dialettica tra queste esigenze e le “leggi” dell’economia capitalistica – che interessa e garantisce gli interessi dei banchieri -, trasfuse nei parametri di Maastricht e recepite dal Trattato che istituisce la Costituzione Europea.[6]

Alla luce di tutto ciò non è possibile alcuna difesa dei diritti sociali riconosciuti dalla Costituzione italiana, perché alle prerogative dell’Unione non si può opporre alcuna norma costituzionale. Tant’è che la Corte Costituzionale, proprio in riferimento ai diritti sociali, ridimensionati per effetto delle restrizioni di bilanci, imposte dal Trattato di Maastricht, ha dovuto inventare la categoria dei diritti finanziariamente condizionati, ridotti cioè ad interessi protetti se e quando consentito dall’andamento della congiuntura economica.

Quindi la norma costituzionale – di conseguenza la sovranità dello stato - non decide più autonomamente fino a che punto debba arrivare la limitazione e il grado di compressione dei diritti sociali, poiché questi sono sottoposti alle esigenze di ampliamento degli utili d’impresa che, in sostituzione del lavoro, costituiscono la base dell’attuale concezione di sviluppo e sono fondamento e fine dell’ordinamento europeo.

Insitor

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