venerdì 19 novembre 2010

Ferdinando II di Borbone


Il Regno di Ferdinando II di Borbone

di Alfonso Grasso

Ferdinando II (Carlo Maria) II di Borbone (Palermo 1810 - Caserta 1859)

Probabilmente fu, nel bene e nel male, tra le più incisive personalità che il Sud abbia mai prodotto in assoluta autonomia. Si dedicò con abnegazione e con assoluta onestà morale ed intellettuale allo sviluppo del Regno Meridionale. Il suo fu un totalitarismo [meglio: “autoritarismo”, ndr] antesignano e per molti versi originale, in quanto non di matrice militaristica come quelli che sarebbero sorti nel Novecento. Il Regno, la capitale, i sudditi, la religione e la stessa monarchia, si fondevano, nella concezione ferdinandea, in un unico totale, teso all'autosufficienza e al miglioramento delle condizioni di vita, pur nel sostanziale mantenimento della vecchio assetto della società civile. La sua opera rappresentò il tentativo, unico nella storia del Sud moderno, di dare un carattere unitario al Regno, della cui autonomia e indipendenza restò fino alla fine un tenace e geloso difensore.

Nacque in Sicilia, dove la famiglia si era trasferita a seguito della seconda invasione francese del 1806. Arrivò a Napoli nel 1815, all'età di 5 anni, dopo la definitiva sconfitta di Napoleone.

Salì al trono appena ventenne l’8 novembre 1830. Iniziò il suo regno con un'austera riforma finanziaria ed amministrativa [cfr. Atto Sovrano 11 gennaio 1831]. Sostituì i ministri, diminuì notevolmente le spese di Corte, concesse una larga amnistia ai detenuti politici e agli esuli, richiamò in servizio gli ufficiali murattiani sospesi dai moti del 1820. La politica adottata dal sovrano diede al commercio la possibilità di espandersi e favorì l'iniziativa artigianale. Anche il numero dei piccoli proprietari terrieri aumentò e tutta l'economia del paese si risollevò.

La corona d'Italia

Correva l'anno 1831, che segnò la fine definitiva dei moti carbonari [1]. L’entusiasmo provocato dall’attivismo del giovane re accese le speranze del movimento liberale italiano, tanto che gli fu offerta la corona d'Italia: «in un congresso del partito liberale riunito a Bologna, si offrì, per mezzo del giovane esule calabrese Nicola del Preite, a Ferdinando di Napoli, la corona d'Italia, ch'egli non accettava, per non sapere che cosa fare del Papa, e tenne sempre fede al segreto al De Preite, volle che nel regno ritornasse, e spesso il rivedeva con speciale benevolenza. Certamente fino al 1833 nessun principe italiano aveva dato ragione ai liberali come Ferdinando II; se egli avesse voluto, la storia d'Italia mutava, ma egli non sentì il palpito dell'italianità, volle rimanere re assoluto, indipendente da tutti, anche dall'Austria» [2].

Ma Ferdinando non era liberale, né tantomeno incline all’espansionismo ed alla turbativa. Era anzi profondamente convinto di essere re per grazia di Dio, e intendeva rispettare i diritti degli altri principi italiani e del Papa: perciò declinò l'invito.

La famiglia

Sposò a Genova il 21 novembre 1832 Maria Cristina di Savoia [3], quarta figlia del Re Vittorio Emanuele I, dalla quale avrà l'erede Francesco. Il matrimonio era stato più volte rinviato perchè, come molti altri della sua famiglia, Ferdinando era affetto da una forma di epilessia, e la regina madre di Sardegna, essendone venuta a conoscenza, aveva avuto delle titubanze.

Rimasto vedovo sposò in seconde nozze a Trento il 9 novembre 1837 Maria Teresa d’Austria [4].

La famiglia Borbone non fu certo tutta all'altezza di Ferdinando, o quanto meno a lui fedele: la prima defezione venne dal fratello Carlo [5], principe di Capua e Comandante della Real Marina. Questi aveva per amante Penelope Smith, nipote del primo ministro inglese lord Palmerston, e nel giugno 1833 partecipò alla congiura dell’Angelotti che si prefiggeva di uccidere il Re e di sostituirlo con lo stesso Carlo. Il complotto fu sventato e Ferdinando, come unico provvedimento, lo esonerò dalla carica. Anche altri due fratelli del Re, Leopoldo Conte di Siracusa, e Luigi Conte d’Aquila tradiranno il Regno dopo la morte di Ferdinando [6]. Particolarmente grave fu la defezione di Luigi, che tra il 1859 ed il 1860 riuscì a trascinare nella sua setta quasi tutti i comandanti delle navi da guerra, il cui comportamento rese possibile l'invasione piemontese e la conseguente spoliazione economica del Meridione seguita alla conquista militare del 1860-61.

La frattura con l'Inghilterra

In politica estera, cercò di sottrarre lo Stato alle mire delle potenze imperialiste (l'Inghilterra coloniale e Francia "post-1848" di Napoleone III) che cercavano - a turno - di conquistare con ogni mezzo il controllo economico di tutto il Mediterraneo. Utilizzò a tal fine gli strumenti del protezionismo e dell’autarchia.

Nel settembre del 1838 il re si imbarcò per la Sicilia insieme alla regina, dove dispose la costruzione di orfanotrofi, asili ed ospedali, di un Monte di Pietà, di borse di valori, e di un porto franco a Messina. Cercò inoltre di favorire il commercio e l'industria locale agevolando la più valida ed esclusiva risorsa mineraria della Sicilia, quella dello zolfo (all'epoca indispensabile per la produzione degli esplosivi). Fu stipulata una convenzione con ditte francesi più vantaggiosa di quella precedentemente in vigore con gli inglesi. Le relazioni con l'Inghilterra ne risultarono compromesse e Ferdinando, di fronte alla minaccia, si preparò alla guerra inviando in Sicilia ben 12.000 soldati mentre denunciava alle corti europee la condotta della Gran Bretagna. Poiché l'Austria non si dava da fare per un compromesso, il re si rivolse alla Francia. Luigi Filippo adoperò la sua diplomazia a vantaggio di re Ferdinando che nel frattempo aveva energicamente deciso l'embargo a tutte le navi britanniche. Questo provvedimento fu poi revocato, e la crisi rientrò, ma il Regno dovette versare degli indennizzi alle ditte francesi.

La vertenza per lo zolfo influì molto sulle relazioni tra regno delle Due Sicilie ed Inghilterra, attenta a conservare il monopolio dello strategico minerale siciliano. I britannici avviarono una politica destabilizzante nei confronti del Regno delle Due Sicilie, che culminerà con l'appoggio alla spedizione dei Mille nel 1860 ed alla annessione del Regno al fidato Piemonte. Nel 1849 venne inviato a Napoli William Gladstone, deputato e già ministro delle Colonie del governo Peel, ufficialmente per seguire il processo contro gli adepti alla società segreta “Unità d’Italia”, la cui attività culminò in atti terroristici come quello del settembre 1849, quando un ordigno esplose davanti al palazzo reale di Napoli. Tornato a Londra nel 1851, d’intesa col primo ministro Palmerston, Gladstone fece diffondere la lettera da lui inviate al ministro degli esteri, lord Aberdeen, nelle quali si etichettava il regno del Sud come la “negazione di Dio”. Il Gladstone riferiva di una visita, in realtà mai avvenuta, alle carceri napoletane. L’Inghilterra gridò così al mondo intero il proprio sdegno per le asserite disumane condizioni in cui erano tenuti i detenuti politici e queste notizie trovarono ampie casse di risonanza sui giornali di Torino e nella stessa Napoli negli esterofili ambienti degli oppositori. A "giochi fatti", cioè dopo l'annessione piemontese, sarà lo stesso deputato inglese ad ammettere candidamente la menzogna: confessò che aveva scritto per incarico di lord Palmerston, che egli non aveva mai visitato alcun carcere.

Per inciso, il sistema giudiziario meridionale è stato riconosciuto da tutti gli studiosi come il più avanzato d’Italia preunitaria. Ferdinando II aveva inoltre abolito, il 25 febbraio 1836, la pena dei lavori forzati perpetui che invece decenni più tardi fu comminata, in gran copia, dal governo “unitario“ piemontese ai cosiddetti “briganti“ meridionali.

La politica interna

Ferdinando II si dedicò, a differenza dei suoi avi, direttamente al governo del Regno, tanto da offuscare i suoi stessi ministri. All’interno cercò di privilegiare i ceti popolari, in antitesi con gli interessi dei proprietari terrieri, eredi del feudalesimo, e con le velleità di una borghesia (i disprezzati «paglietti» e «pennaruli») economicamente rapace quanto politicamente immatura e velleitaria. Il Re teneva ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo [7]. In tutte le istruzioni emanate agli intendenti delle Province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco, si avverte l’intenzione della monarchia di basarsi sull'amore della classi popolari. Il Re raccomandava ai suoi funzionari di ascoltare chiunque del popolo. Li ammoniva di non fidarsi delle persone più potenti: li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni. Fra il 1848 ed il 1860, gli anni più difficili a causa del crescente isolamento internazionale, cercò di economizzare su tutto, pur di non mettere nuove imposte: si evitarono principalmente le imposte sui consumi popolari. Il Re diede il buon esempio, riducendo il suo appannaggio, fatto questo non comune nella storia dei principi europei, in regime assoluto o in regime costituzionale.

Nel 1837 scoppiò l'epidemia colera che era stata prevista e contro cui ci si era premuniti: l'epidemia ebbe inizio ad Ancona ed il re dispose subito che venissero sospesi tutti i traffici con lo Stato Pontificio, e fissò delle pene molto severe per tutti coloro che avessero trasgredito alle disposizioni sanitarie e di igiene che erano state già emanate. Con l'energia che lo distingueva, Ferdinando ebbe cura sia del popolo che dell'esercito, e, quando in ottobre il colera invase Napoli e i comuni vicini, incurante di ogni pericolo, fu in prima linea nei rioni più popolari della città, interessandosi personalmente di tutto: con il suo inesauribile dinamismo dai rioni popolari passava agli ambulatori, poi ai lazzaretti e infine nelle caserme, dove consumava il rancio tra i suoi soldati. Diede poi disposizioni affinché venissero distribuiti gratuitamente il maggior numero di medicinali atti a frenare la malattia, cosa che certamente non doveva essere facile a quei tempi. Con l'inverno il male terminò, dopo aver provocato circa 6.200 vittime. Napoli ebbe poi a subire una seconda epidemia di colera. Questa volta il colera invase tutto il regno raggiungendo anche Palermo e diverse città della Sicilia. Le vittime di questo secondo colera furono a Napoli circa 14.000, ma in Sicilia ve ne furono oltre 65.000.

Nel 1839 inaugurò la Napoli - Portici, primo tronco ferroviario costruito in Italia, cui seguirono numerose altre opere. Il 29 gennaio 1848 concesse la Costituzione e nel marzo seguente per volontà dei liberali al governo, interrompendo un lungo periodo di pace, fu inviato un contingente di truppe al comando di Guglielmo Pepe a combattere contro l'Austria a fianco dei Sardi.

La rivoluzione in Sicilia e gli avvenimenti napoletani del 15 maggio, con cruenti scontri tra le truppe e i liberali, indussero Ferdinando a sciogliere la camera e richiamare l'esercito dal nord. Nel maggio 1849 la sommossa della Sicilia fu domata con le armi. La costituzione non venne abrogata ufficialmente: fu semplicemente messa in disparte. Questi avvenimenti pesarono non poco sul carattere e sull’entusiasmo del Re, che però continuò a perseguire il suo personale disegno di sviluppo della Regno: i popolani continuarono ad essere al centro della sua attenzione.

Perseguendo la politica dirigistica, realizzò industrie, strutture, strade, porti, sviluppò commerci e istituti sociali. Morì prematuramente a nemmeno 50 anni, mentre le nubi cominciavano ad ammassarsi sull'Antico Regno. I suoi resti riposano a Napoli in Santa Chiara.

Il Re “bomba”

Già precedentemente osannato dai liberali con gli appellativi di “novello Tito” o “pacifico Giove”, divenne “Re Bomba” perché consentì il bombardamento di Messina del 5 settembre 1848.

La città, come l’intera isola, era insorta con l'appoggio discreto dell'Inghilterra, interessata da una parte a "mettere le mani" sulla Sicilia, isola strategica per il controllo del Mediterraneo, dall'altra parte desiderosa di ostacolare la politica di Ferdinando II, a cui non aveva mai perdonato lo “sgarro” tentato con la questione degli zolfi siciliani.

Ma torniamo al bombardamento: la squadra navale napoletana era costituita da tre fregate a vela, 6 fregate a vapore, 5 piroscafi armati, 20 cannoniere, 24 scorridoie ed altri legni sottili. Il 1° settembre 1848 ancorò al largo di Catona, presso Reggio e nella notte si avvicinò alla costa dell’isola per impadronirsi di una batteria degli insorti, detta delle “Moselle”, situata a fior d’acqua nei pressi del villaggio di Contessa, fuori Messina, forte di 12 cannoni. La flotta iniziò il bombardamento alla mattina del 2 settembre e poco dopo dal bastione Blasco della Cittadella di Messina, nelle mani dell’esercito regolare, effettuarono una sortita 4 compagnie di pionieri che, coperti dal fuoco navale, incendiarono gli affusti dei cannoni. Nel pomeriggio del 4 settembre si imbarcarono a Reggio, 250 ufficiali e 6400 uomini di truppa. Lo sbarco delle truppe regie in terra siciliana iniziò alla mattina del 5 settembre a 3 miglia da Messina, protetto dal fuoco delle pirofregate e delle cannoniere. I primi a scendere a terra furono gli uomini del reggimento Real Marina, al comando del colonnello Giustino Dusmet. Dopo 3 giorni di aspri combattimenti, l’8 settembre le truppe regie entrarono in Messina, nel cui porto furono catturate 16 cannoniere. Si trattò di un combattimento tra due eserciti, eppure Ferdinando II è ricordato come il re “bomba”. Vittorio Emanuele II, che fece bombardare le case di Genova nel 1849, Gaeta, Capua ed Ancona (dopo la resa) nel 1860, Palermo nel 1866, fu “galantuomo” e "padre della patria"!

I primati del Regno delle Due Sicilie

Il giudizio complessivo sulla figura di Ferdinando II non può prescindere dall’analisi dei suoi errori di valutazione e delle occasioni che non seppe cogliere. Se infatti da un lato il suo regno presentò molti risvolti positivi e di assoluta innovazione dall'altro lato è bene ricordare che i tanti primati del Regno (la prima ferrovia, il primo ponte sospeso in ferro, ecc) non trovarono uno sviluppo programmato e continuità di investimenti. La grande macchina industriale riguardava quasi esclusivamente il napoletano, e le disparità con le Province restarono intatte. All'atto dell'annessione al Piemonte, questo aveva una rete ferroviaria di circa 900 km, contro i 124 km (tutti in Campania) del Sud che pure aveva visto la realizzazione della prima linea d'Italia.

Al di qua e al di là del Faro

Ferdinando II non risolse la criticità collegata alla Sicilia, che aveva ripetutamente dimostrato di non voler essere sottoposta a Napoli. Il regno era infatti di "Sicilia" ed era stato fondato da Ruggero II nel 1139, che aveva scelto Palermo come capitale. Dopo la conquista angioina e la rivolta del Vespro del 1282, sia Napoli che Palermo avevano rivendicato, anche attraverso una guerra secolare, il predominio su tutto il regno, che in realtà restò sempre diviso in due parti indipendenti fino all'unificazione attuata con decreto nel 1816 da Ferdinando I.

L'atto era avvenuto sotto gli auspici dell'Austria e del Congresso di Vienna, ma aveva risvegliato l'antico spirito del Vespro, anche perchè la Sicilia nel 1812 era riuscita a ottenere da Ferdinando I la costituzione. Con la proclamazione del Regno delle due Sicilie, le potenze europee, in primis l'Inghilterra, iniziarono a fomentare lo scontento dei Siciliani, e appoggiarono le rivolte del 1820, del 1848 e l'ultima, fatale per il regno, del 1860. Il risultato dell'antagonismo siculo-parteneopeo fu ben sintetizzato da Francesco II nel proclama dell'8 dicembre 1860: "Sparisce sotto i colpi dei vostri dominatori l'antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III; e le due Sicilie sono state dichiarate province d'un Regno lontano. Napoli e Palermo son governati da prefetti venuti da Torino". Eppure, almeno nel primo decennio del regno di Ferdinando, la Sicilia non rivendicava l'indipendenza, né tantomeno l'unità politica con l'Italia, ma rifiutava l'umiliante sottomissione a Napoli, aspirando ad un assetto statale di tipo federativo.

Un altro punto dolente della politica ferdinandea fu la gestione del rapporto con il ceto borghese. Il re cercò di corrispondere anche alle attese di questo ceto, verso il quale per la verità non nutriva grande stima, ed ad aprirsi a quelle libertà che altri stati incominciavano a riconoscere, ma la frattura verificatasi tra corona e liberali a seguito della rivolta di Napoli del 1848 non fu mai sanata: da un lato, Ferdinando si rinchiuse nell'assolutismo; dall'altro, molti intellettuali si votarono definitivamente alla causa di uno stato italiano unico. Il Regno delle Due Sicilie di allora, che era lo Stato più florido d'Italia, avrebbe tratto vantaggio dalla costituzione di una ipotetica Confederazione Italiana, ma Ferdinando, specie dopo gli accadimenti del 1848 e la controversa partecipazione alla guerra contro l'Austria, non fece nulla per promuoverla. [...]

Ferdinando II cercò fino alla fine di essere il garante dei rapporti interclassisti, tra popolani e nobili, tentando di difendere i primi dall'atavica prepotenza dei secondi. Questa era stata nei secoli la principale preoccupazione dei re di Napoli e Sicilia. Per tale motivo l'ideale dell'istituto monarchico è tuttora riscontrabile nel Meridione. Ma nell'età ferdinandea, a partire da quel 1830 in cui venne incoronato re, emersero con sempre maggior vigore cambiamenti sociali e ideologici, tali da incidere profondamente sulla stessa concezione di Stato, che si trasformava in "nazionale". La portata di questa evoluzione epocale non fu colta dal re, che forse la riteneva "passeggera". Per tale motivo le due Sicilie non divennero mai una "nazione", almeno nel senso che si da oggi alla parola. Prova ne è che i sudditi del regno non si diedero mai un nome per differenziarsi dagli altri italiani, e venivano genericamente indicati come "siciliani" o "napolitani".

La questione sociale

Ferdinando II morì senza poter avviare a soluzione la grave questione sociale del Mezzogiorno, tra cui lo squilibrio tra la Capitale e gli arretrati paesini delle Province, nonché quello connesso con la proprietà dei terreni. Se è vero, infatti, che gli Usi Civici consentivano ai contadini di sopravvivere, e anche vero che nessuno - né i baroni, né la Chiesa, che possedeva immensi appezzamenti - aveva stimoli ed interesse a migliorare e, come si direbbe oggi, a far sistema.

Ebbero così facile gioco, dopo l'invasione piemontese del 1860, i "galantuomini", cioè i nuovi proprietari borghesi, che si impossessarono delle terre demaniali e ecclesiastiche (solo quest’ultime ammontavano al 40% del territorio), espropriate dai nuovi dominatori con la legge del 1863: un enorme “lascito” che finì nelle mani dei Piemontesi. Le terre furono vendute con aste frettolose, per fare cassa, e così furono rastrellati risparmi e capitali meridionali, che vennero investiti dai vincitori dappertutto tranne che nel Sud stesso. Ne conseguì la creazione di latifondi privati scarsamente produttivi e il conseguente immiserimento dei contadini, tanto che dopo la sanguinosa resistenza ("brigantaggio": 1861-1866), i superstiti degli stati d'assedio, delle stragi, delle rappresaglie e le esecuzioni sommarie perpetrate dalle truppe d'occupazione, cominciarono a espatriare in massa.

La mancata soluzione del problema sociale, che si trascina fino ai nostri tempi, e che è proporzioni più vaste di quelle sommariamente descritte in questa pagina, comportò per il Sud un ruolo di sudditanza nei confronti del resto del Paese. Ma in effetti, il Sud finanziò per più di un secolo lo sviluppo della Penisola, senza riceverne corrispondenti benefici.

Note

[1] Il moto di Ciro Menotti iniziò a Modena il 3 febbraio, propagandosi ad Imola, Faenza, Reggio Emilia, Forlì, Bologna, Ferrara, Pesaro ed a Parma, estendendosi quindi ad Ancona, Perugia, Assisi, Foligno, Todi. Gli Austriaci, su invito del papa, intervengono per reprimere le rivolte. Il 27 aprile muore Carlo Felice, l'ultimo dei Savoia, e sale sul trono del regno di Sardegna un suo lontano parente: Carlo Alberto, 7° principe di Carignano, che partecipa attivamente a stroncare nel sangue gli ultimi conati della rivolta. il 26 maggio 1831, vengono impiccati Ciro Menotti e Vincenzo Borelli. Il 14 agosto, Giuseppe Mazzini fonda a Marsiglia la nuova organizzazione cospirativa e insurrezionale "Giovine Italia", sempre in ambito massonico ma diversa dalla carboneria: essa persegue un ideale rivoluzionario di matrice unitaria e repubblicana, capace di attirare a sé tutte le forze popolari, in quanto la coscienza nazionale non dove restare prerogativa di una casta, ma patrimonio di tutti. Il 1° settembre scoppiano disordini a Palermo, fomentati da un doganiere, tal Di Marco. Arrestato con altri undici complici, finiranno fucilati il 26 ottobre.

[2] Nisco Nicola, “Storia del reame di Napoli dal 1824 al 1860”, Napoli 1908, vol. II, p. 27-28.

[3] Maria Cristina di Savoia (Cagliari 14.11.1812 - Napoli 31.1.1836) fu donna di eccezionale spirito religioso. Non ebbe vita facile a Napoli per ragioni di salute, ma sopportò tutto con grande rassegnazione. Fu considerata dai sudditi come una santa e la stessa Chiesa Cattolica l’annovera tra le Venerabili. Morì il 31 gennaio 1836, quindici giorni dopo il parto. Per comprendere il clima di perenne e latente rivolta dell'epoca, basti pensare che Ferdinando, per sposarsi, si era recato a Genova sotto falso nome: si temeva infatti che i carbonari potessero approfittare dell'assenza del re per tentare un moto rivoluzionario. Il matrimonio fu celebrato nel santuario di Nostra Signora dell'Acquasanta il 21 novembre del 1832. Carlo Alberto aveva fatto preparare un lussuoso appartamento nel palazzo reale, ma la giovane coppia regale preferì alloggiare nel Palazzo Ducale. Gli sposi si intrattennero cinque giorni nella città ligure, quindi il 26 novembre s'imbarcarono sulla Regina Isabella scortata da fregate sarde e napoletane. La coppia aveva caratteri e stili di vita molto differenti, egli scherzoso ed a volte un po' volgare, lei semplice e riservata. Non appena giunta nel suo regno, la giovane regina volle con il suo appannaggio riscattare tutti i piccoli pegni, far condonare le pene lievi e donare alcune doti per le giovani ospiti del conservatorio di Sant'Eligio al Mercato.

[4] Vienna 31.07.1816 - Albano Laziale 08.08.1867. La seconda moglie di Ferdinando si rivelò ben diversa dalla dolce Maria Cristina di Savoia: sospettosa ed invidiosa, amava il pettegolezzo e gli intrighi. Per di più non era nemmeno bella e per nascondere le sue piccole spalle imponeva alle dame di corte il taglio dei vestiti ‘à la vierge’. Essendo austriaca, inoltre, fece di tutto per fare orientare la politica estera a favore della suo paese. Anche Francesco II ebbe la vita difficile a causa della matrigna, che avrebbe voluto deporlo e sostituire con il proprio primogenito Luigi (che però morì alcolizzato poco dopo l'unità d'Italia).

[5] Carlo Ferdinando Maria (Palermo 10.10.1811 - Torino 22.04.1862) Principe di Capua. Ferdinando II fu spesso costretto a richiamarlo per la sua condotta licenziosa e gli negò il consenso di sposare la "chiacchierata" Penelope Smith. Carlo allora fuggì con l'amante, contravvenendo la legge che proibiva ai principi di casa reale di uscire dal regno senza l'esplicito permesso del re. Ferdinando II si limitò ad inviare un ufficiale con un biglietto che invitava fraternamente il principe a rientrare. Carlo ricevette l'ufficiale con la pistola in pugno, ma, visto il tenore moderato della lettera, congedò il messo dicendogli che avrebbe risposto in seguito a Sua Maestà, e proseguì imperterrito per l'Inghilterra, dove il 5 aprile del 1836 sposò la sua Penelope.

[6] Leopoldo, Conte di Siracusa (Palermo 22.05.1813 - Pisa 04.12.1860), sposato con Maria Vittoria di Savoia Carignano, fu luogotenente generale del Re in Sicilia. Luigi, Conte d’Aquila (Napoli 19.07.1824 - Parigi 05.03.1897) fu comandante dell’Armata di mare all’epoca dei Mille. Entrambi tradiranno Francesco II.

[7] Il cosiddetto “popolino” napoletano aveva un’organizzazione patriarcale, gradita ai regnanti, che grazie ad essa riuscivano a controllare le masse. Nell’organizzazione sociale aveva grande influenza il clero, che spesso assecondava le grossolane manifestazioni di religiosità pagana e superstiziosa. Il controllo era anche affidato alla “società”, cioè alla camorra che, sorta in epoca vicereale, serviva per mantenere lo status quo interclassista. Solo gli eccessi venivano perseguiti: intere famiglie, nel corso del Regno di Ferdinando, vennero trasferite alle isole Termiti, e molti camorristi finirono in galera. La promiscuità carceraria con i detenuti politici, favorì la diffusione nella camorra delle pratiche di iniziazione tipiche delle società segrete, con giuramenti di sangue “arricchiti” di pseudo-religiosità e di superstizione: si pensi in proposito anche alla “Sacra Corona Unita” pugliese.

http://www.ilportaledelsud.org/ferdinandoIIborbone.htm

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Ferdinando II delle Due Sicilie: un grande Sovrano
tratto da: in realcasadiborbone.it

http://www.realcasadiborbone.it/ita/archiviostorico/cs_07.htm


Primogenito maschio di Re Francesco I, Ferdinando nacque a Palermo il 12 gennaio 1810 e morì a Caserta il 22 maggio 1859, ancora giovane. Un anno dopo la sua morte iniziò l'invasione del Regno, e nessuno potrà mai asserire se, con lui ancora sul Trono, le cose avrebbero potuto avere un corso differente, perché la storia, come è noto, non si fa con "se"; ma è anche vero che è legittimo e sensato ritenere - conoscendo l'uomo e il sovrano - che Garibaldi e soci avrebbero avuto sicuramente vita più difficile…

Portò dapprima il titolo di Duca di Noto, poi, alla morte del nonno nel 1825, divenuto principe ereditario, assunse quello di Duca di Calabria. Fu educato da ecclesiastici e militari, e ciò spiega la sua profonda fede e la sua passione militare. Era ancora bambino quando gli inglesi pensarono di farlo Re di Sicilia (secondo i loro piani sarebbe stato un ragazzo facilmente manovrabile), mentre durante i moti del 1820 i carbonari volevano affidargli la corona di Lombardia; in seguito, vi fu anche chi pensò di metterlo a capo del futuro Risorgimento. Ma Ferdinando non si fece mai allettare da tali avventurosi proponimenti, sia per il sincero attaccamento alla sua terra ed al suo popolo, sia perché consapevole che i suoi diritti di Re poggiavano sulla legittimità dinastica, e la legittimità dinastica è uguale e sacra per ogni sovrano legittimo, che va pertanto rispettato e difeso nei suoi diritti regali. Per essere più chiari, Ferdinando rispettò sempre, oltre il settimo comandamento, il motto evangelico di non fare ad altri quello che non vuoi sia fatto a te: per questo altri poterono regnare tranquilli, per poi impossessarsi di ciò che era di Ferdinando e dei suoi legittimi eredi.

Nel 1827, dopo la partenza delle forze austriache dal Regno, fu nominato dal padre Capitano Generale dell'esercito. L'8 novembre 1830, con la benedizione del padre morente, salì ancor giovanissimo sul Trono, emanando un proclama nel quale prometteva di risanare quelle piaghe che ancora affliggevano il Regno. Tutta la sua vita fu spesa per mantenere tale promessa. Subito sostituì alcuni ministri, diminuì notevolmente le spese di Corte, concesse una larga amnistia ai detenuti politici e agli esuli, richiamò in servizio gli ufficiali murattiani sospesi dai moti del 1820, e non punì aspramente alcuni congiurati che nei primi anni del suo regno avevano attentato alla sua vita. Ma tale regale generosità non gli fece mai perdere di vista i suoi doveri di sovrano cattolico, e si schierò apertamente contro le riforme liberali della sorella Maria Cristina in Spagna, appoggiando di contro le posizioni carliste.

Nel 1832 sposò la Principessa Maria Cristina di Savoia, quarta figlia di Vittorio Emanuele I, dalla quale avrà l'erede, il futuro Francesco II; donna di eccezionale carità e spirito religioso, non ebbe vita facile a Napoli per ragioni di salute, ma sopportò tutto con grande rassegnazione cristiana. Le sue virtù erano tali da farla non solo amare da tutti i sudditi che la consideravano già in vita una santa, ma da farla ascrivere, da parte della stessa Chiesa Cattolica, nel numero delle Venerabili, e il processo di canonizzazione è tuttora in corso. Morì agli inizi del 1836, quindici giorni dopo il parto, confortata dai soccorsi della religione. Il 26 dicembre dello stesso anno sposò l'Arciduchessa Maria Teresa d'Asburgo, dalla quale ebbe nove figli, fra cui Alfonso Maria, Capo della Real Casa dopo la morte senza eredi di Francesco II nel 1894, e varie figlie, che andarono in moglie a sovrani europei.

Gli eventi del Quarantotto

Come è noto, dopo i fallimenti dei moti carbonari del 1820-'21 e del 1830-'31, in Italia iniziò ad operare la "Giovine Italia", fondata da Giuseppe Mazzini, che subito condusse una serie di tentativi di sovvertire l'ordine costituito. Fra questi, va ricordato quello dei fratelli Bandiera, i quali tentarono uno sbarco (con venti uomini in tutto) contro il pacifico e legittimo Regno delle Due Sicilie, nella speranza che le popolazioni li seguissero e cacciassero i Borbone. Fecero tragica morte. Come reazione all'estremismo mazziniano, il partito moderato risorgimentale trovò come valida alternativa la proposta confederalista avanzata nell'opera - edita la prima volta nel 1843 - "Il primato morale e civile degli Italiani" di Vincenzo Gioberti, ove l'autore, dopo una bella e coinvolgente esaltazione del primato mondiale della civiltà e della cultura italiane - primato dovuto anzitutto e soprattutto al fatto di ospitare la Chiesa Cattolica da sempre - proponeva come soluzione alla Questione Italiana la creazione di una confederazione degli Stati legittimi (che mantenevano quindi i propri sovrani) con a capo il Pontefice Romano.

La proposta, come è noto, ebbe grande successo, in quanto prevedeva il mantenimento della civiltà cattolica e tradizionale da un lato e l'ottenimento di una forma di unità confederativa dall'altro, accontentando, qualora realmente e correttamente applicata, tutte le esigenze del tempo. Il neoguelfismo giobertiano ebbe ancor maggior successo dopo l'elezione nel 1846 al Trono di Pietro di una Papa favorevole al progetto, Pio IX, il quale, con le sue riforme, divenne il simbolo vivente (suo malgrado) del Risorgimento italiano in questa sua prima fase.

Dinanzi alle sempre più spinte concessioni politiche che Pio IX faceva a Roma, Ferdinando si mostrava sempre scettico, anche se il progetto giobertiano, come progetto in sé, non lo vedeva contrario di principio: anche Ferdinando amava sinceramente l'Italia. Il fatto era che ormai egli aveva quasi già venti anni di Regno alle spalle, ed aveva imparato, anche in merito a ciò che era accaduto al nonno, a diffidare dei liberali e dei rivoluzionari (e forse in cuor suo diffidava anche delle sincerità delle intenzioni di qualche altro sovrano italiano…). Ma poi iniziò il 12 gennaio 1848 una rivolta autonomista in Sicilia.

Ferdinando, innervosito dal fatto che gli altri facevano le riforme e a lui poi toccavano le grane, volle fare un atto di coraggio e di sfida: lui che fino a quel momento era rimasto estraneo al generale movimento riformista inaugurato da Pio IX, scavalcò tutti gli altri sovrani italiani e concesse la costituzione d'un colpo solo, mettendo fra l'altro in imbarazzo il Papa, il Granduca di Toscana, i Duchi di Parma e Modena e Carlo Alberto a Torino, i quali, dopo questa mossa, furono costretti, uno dopo l'altro, concedere anch'essi la costituzione.

A questo punto era chiaro che l'equilibrio e l'ordine stabiliti a Vienna nel 1815 erano venuti meno; inoltre una rivoluzione era scoppiata anche a Vienna, e Metternich era uscito di scena; approfittando di ciò, i milanesi il 18 marzo erano insorti cacciando gli austriaci e chiedendo a tutti i sovrani italiani di combattere insieme contro gli Asburgo per l'indipendenza italiana. Per altro, dopo varie esitazioni, Carlo Alberto era effettivamente entrato con il suo esercito in Lombardia e marciava contro il "Quadrilatero" austriaco. Insomma, era giunto il momento di mettere in pratica il piano giobertiano.

Pio IX era pronto, ed inviò delle truppe non per attaccare ma a difesa dello Stato Pontificio, ed anche il Granduca di Toscana inviò i suoi uomini. Ferdinando, dinanzi ad una vera ed effettiva unità degli italiani per l'indipendenza non si tirò indietro, ed inviò l'esercito a combattere. È il momento magico della storia d'Italia! Tutti uniti per l'indipendenza, secondo però gli obiettivi del neoguelfismo, vale a dire un'Italia confederale e cattolica, e pertanto monarchica e legittimista. Il problema però è che non tutti la pensavano in tal maniera… Anzitutto i democratici, che ovunque, e specie a Firenze, Roma e Napoli miravano al progetto mazziniano di sovversione repubblicana dell'ordine tradizionale; e poi Carlo Alberto, che in maniera ogni giorno più evidente conduceva la guerra isolatamente ed evidenziando le sue reali intenzioni, che non erano certo quelle neoguelfe, bensì più semplicemente quelle di realizzare l'antico sogno di Casa Savoia, l'annessione della Lombardia e se possibile del Veneto. A questo punto Ferdinando, fiutato il vento, cambiò nettamente atteggiamento (nel frattempo, anche Pio IX ritirava le sue truppe, sia perché oramai era evidente che a Roma si preparava il colpo di stato mazziniano, sia perché da Vienna giungevano minacce di scisma qualora il Papa non avesse smesso di fare guerra all'Impero cattolico, e Pio IX, per quanto amasse l'Italia, era anzitutto il Pontefice di tutti i cattolici del mondo prima che il sovrano di uno Stato italico): mediante un colpo di forza, prima ritirò la costituzione, onde evitare che il governo gli sfuggisse definitivamente di mano e finisse in quelle mazziniane (come stava accadendo a Roma e Firenze), pericolo effettivo che varie rivoluzioni locali nelle provincie meridionali del Regno stavano chiaramente evidenziando; poi ritirò i suoi soldati dal fronte, visto che farli morire per dare la Lombardia a Carlo Alberto (e non per fare la Confederazione Italiana) non aveva alcun senso; infine riconquistò ‘manu militari’ la Sicilia, ponendo fine ad ogni disordine e velleità rivoluzionaria e sovversiva, e dimostrandosi uomo di carattere come pochi l'Italia aveva conosciuto. Uomo di carattere ma anche generoso: perdonò i condannati a morte per ribellione dopo i fatti del '48, e tale generosità fu ripagata da parte rivoluzionaria con l'attentato mortale (miracolosamente fallito) che dovette subire da Agesilao Milano (un ufficiale calabrese) nel 1856: fu l'unica condanna a morte che il Re non volle amnistiare, proprio per l'ingratitudine fanatica dimostrata in tale occasione. Anche in politica estera si dimostrò sempre un sovrano energico con idee chiare, il cui unico obiettivo erano gli interessi del suo popolo, dinanzi ai quali era capace di dire no anche all'Austria e alla Gran Bretagna. Ad esempio, negli Anni Trenta, ancor giovane sovrano, tenne testa al Palmerston per la nota vicenda degli zolfi siciliani. Era successo che nel 1816 il Governo britannico si era fatto concedere da Ferdinando I il monopolio dello sfruttamento dello zolfo siciliano per pochi soldi, senza che il Regno ci guadagnasse sopra. A Ferdinando II ciò non andava giù; inoltre, egli aveva abolito la tassa sul macinato (per non gravare sul popolo), e quindi aveva bisogno di soldi. Così decise di affidare il monopolio a una società francese che pagava il doppio dell'Inghilterra. Parlmerston mandò subito una flotta militare davanti al Golfo di Napoli, minacciando senza ritegno di bombardare la città. Ferdinando II mostrò il suo carattere, tenne duro, preparando flotta ed esercito alla guerra. Il tutto si risolse con l'intervento di Luigi Filippo Re dei Francesi: il Re dovette rimborsare sia gli inglesi che i francesi (perché il monopolio rimase agli inglesi, che però mai dimenticarono l'onta subita) il presunto danno arrecato. Oltre alla vicenda degli zolfi, che fece infuriare non poco il Palmerston, occorre sapere che (tutto il mondo è paese!) una nipote dello statista inglese aveva sposato il fratello del Re Carlo di Borbone, e il Palmerston aveva preteso da Ferdinando che la ammettesse a Corte col titolo di principessa reale. Il problema però era che la moglie inglese non era esattamente donna di ottimi costumi, era cioè una nota avventuriera. Ferdinando non accondiscese alla richiesta, suscitando ulteriormente l'odio del Palmerston, che si riteneva umiliato personalmente per l'affronto ricevuto. Cfr. a riguardo de' Sivo, Alianello, Acton, ecc..

Ferdinando rispose negativamente anche all'offerta di Francesco Giuseppe nel 1851 di una lega degli Stati italiani, né accettò le pressioni prima di Luigi Filippo poi di Napoleone III di cambiare metodo di governo.

Ben diversamente si comportò invece con la Chiesa. Ebbe sempre filiale devozione, ed in particolare modo diede eccellente e generosa ospitalità a Pio IX durante i due anni di esilio da Roma a causa degli eventi del '48 e della Repubblica Romana; ma non concesse mai nulla di più di quanto prevedesse il Concordato in vigore, ed anzi invitò i gesuiti de "La Civiltà Cattolica" a lasciare il Regno.

Gli ultimi anni della sua vita furono in parte contristati dalla consapevolezza che a Torino si stava preparando qualcosa di pericoloso, con l'appoggio della Gran Bretagna di Palmerston e delle forze internazionali protestantiche e massoniche, e ancora nel 1857 dovette subire la tragica spedizione del Pisacane contro il suo Regno. Ma la morte lo colse ancor giovane proprio alla vigilia di quegli eventi che condussero alla caduta del Regno, quando cioè più che mai sarebbero state necessarie la sua energia, la sua lungimiranza e l'esperienza che sempre dimostrò durante il suo importante e fecondo governo.


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Venerabile Maria Cristina di Savoia Regina della Due Sicilie
Antonio BORRELLI
tratto da: santiebeati.it

http://www.santiebeati.it/dettaglio/90721

Cagliari, 14 novembre 1812 - Napoli, 31 gennaio 1836



Maria Cristina di Savoia, figlia del re Vittorio Emanuele I e di Maria Teresa d’Asburgo, ricevette dai pii genitori una solida formazione cristiana. Nel 1832 sposò Ferdinando II, re delle Due Sicilie, e nel duplice stato di moglie e di regina fu modello luminoso di ogni virtù. Vera madre dei poveri, seppe farsi carico delle sofferenze del suo popolo, per la cui promozione ideò ardite opere sociali. Morì ancora giovane, dopo aver dato alla luce il primogenito Francesco, tra l’unanime compianto della famiglia reale e del popolo napoletano. Fu sepolta nella basilica di Santa Chiara in Napoli. Il 6 maggio 1937 papa Pio XI dichiarò eroiche le sue virtù.

Ancora una appartenente alla Casa di Savoia è testimone con la sua vita, della religiosità che ha contraddistinto la Casa reale nei secoli, tanto è vero che vi è un buon numero di beati, venerabili e servi di Dio a far da corona di santità a questo antico casato.

Fra questi annoveriamo la venerabile Maria Cristina, regina del Regno delle due Sicilie, nata a Cagliari il 14 novembre 1812, mentre i genitori Vittorio Emanuele I di Savoia e Maria Teresa d’Asburgo d’Austria, erano in esilio. Fu subito consacrata alla Madonna dalla regina sua madre, consacrazione che fu poi rinnovata da Maria Cristina stessa, appena fu in grado d’intendere e volere.

Nel 1815 le quattro principesse Maria Beatrice, le gemelle Marianna e Maria Teresa e Maria Cristina, insieme alla loro madre raggiunsero Torino, dove il re un anno prima aveva fatto ritorno, essendo mutate le condizioni politiche. Le principesse e soprattutto Maria Cristina, crescevano a corte come se fossero in un ambiente oratoriano, guidate dalla regina e dal padre confessore l’olivetano Giovan Battista Terzi.

Crebbe nella sua fanciullezza formandosi ad una cultura consona ad una principessa e ad una spiritualità profonda; quando ebbe nove anni, il re Vittorio Emanuele I, dovette rinunziare al trono e dopo un periodo d’esilio a Nizza si stabilì a Moncalieri con tutta la famiglia e qui morì dopo tre anni nel 1824.

Nei due anni successivi partecipò insieme alla madre ed alla sorella Marianna ai riti del Giubileo del 1825 andando a Roma, al ritorno si stabilì a Genova, riducendo le sue attività alla formazione e alla conduzione della casa. Intanto a 20 anni le morì anche la madre e suo unico conforto rimase padre Terzi.

Ritornò a Torino per disposizione del re Carlo Alberto, dove però le incomprensioni in cui si venne a trovare a corte la fecero molto soffrire, qui sorse in lei il desiderio di diventare suora di clausura; ma il suo direttore spirituale la dissuase, essendo al corrente dei piani di Carlo Alberto che l’aveva destinata come sposa al re di Napoli Ferdinando II, al che lei accettò la richiesta di matrimonio come volontà di Dio.

Il rito religioso avvenne a Genova il 21 novembre 1832, nel santuario di Maria SS. dell’Acqua Santa. Il 26 novembre, gli sposi s’imbarcarono per Napoli, dove giunsero il giorno 30; sotto una pioggia torrenziale furono accolti da una folla festante ed in preda ad un entusiasmo che ha sempre contraddistinto l’espansività dei napoletani.

Iniziò il suo regno accanto al ventiduenne Ferdinando, che già regnava da tre anni; a corte leggeva ogni giorno la Bibbia e l’“Imitazione di Cristo” e la sua religiosità fu ben presto conosciuta nel palazzo e dal popolo; quando in carrozza, incontrava un sacerdote con il Viatico per qualche ammalato, fermava la carrozza, scendeva e si inginocchiava a terra anche nel fango delle strade di allora; fece in modo che a tutti a corte, fosse possibile partecipare alla s. Messa nei giorni festivi.

La carità verso i bisognosi, l’occupò in pieno, si dice che il Terzi avesse presso di sé un baule pieno di ricevute di chi aveva avuto un beneficio. Provvide d’accordo con il re, che una parte del denaro destinato ai festeggiamenti per il loro matrimonio, venisse usato per dare una dote a 240 giovani spose e al riscatto di un buon numero di pegni depositati al Monte di Pietà.

Dopo tre anni di sposa, la mancanza di un figlio che non veniva, faceva molto soffrire Maria Cristina, che pregava incessantemente per ciò e finalmente nel 1835, avvertì in sé il sorgere di una gravidanza; passò gli ultimi mesi nella reggia di Portici per stare più calma, ma già presagiva qualcosa, perché all’avvicinarsi del parto, scriveva alla sorella, duchessa di Lucca: “Questa vecchia va a Napoli per partorire e morire”, purtroppo era vero, infatti l’erede al trono nacque il 16 gennaio e già il 29 Maria Cristina era morente per complicazioni sopravvenute; prendendo in braccio il tanto atteso piccolo Francesco e porgendolo al re suo marito, disse: “Tu ne risponderai a Dio e al popolo… e quando sarà grande gli dirai che io muoio per lui”.

Il 31 gennaio 1836 in piena comunione con Dio, si addormentò per sempre fra la costernazione generale. Aveva poco più di 23 anni ed era stata regina per appena tre anni. I solenni funerali furono celebrati l’8 febbraio e il giorno seguente il suo corpo fu tumulato nella Basilica di s. Chiara, dove è tuttora.

Dopo la sua morte la fama di santità, che già godette in vita, si accrebbe e il popolo accorreva a pregare presso la tomba della ‘Regina santa’ e fatti prodigiosi si avverarono per sua intercessione.

Pio IX nel 1859, firmò il decreto d’introduzione della causa di beatificazione, dandole il titolo di venerabile. La pratica andò avanti nei vari stadi con le relative approvazioni canoniche, anche per l’interessamento del re Francesco II “il figlio della santa”; il 6 maggio 1937, Pio XI dichiarò eroiche le sue virtù.

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