lunedì 6 settembre 2010

Morte di Mussolini: Gli ultimi fautori della “Vulgata”






04.09.2010 - Si può oramai ritenere, senza alcun dubbio, che ben poche persone informate dei fatti o storici e giornalisti storici che hanno affrontato l'argomento del mistero della morte di Mussolini, credano ancora nella “ storica versione ” ovvero nella “vulgata”, come la definì Renzo De Felice, una versione dei fatti contraddittoria, assurda in molti particolari e soprattutto riformulata, impasticciandola, nel corso degli anni dai suoi autori a cominciare dal tristemente famoso ragionier Walter Audisio, alias colonnello Valerio, spacciato e spacciatosi quale esecutore del Duce [1] .

Tuttavia gli interessi storici, politici, ideologici e di chissà quale altra natura, che hanno sempre fatto da puntello a questa “versione” non veritiera, tanto da imporla persino su qualche testo scolastico, sono duri a morire per cui, ancora oggi, questa “vulgata” c'è la ritroviamo propinata da qualche parte.

GLI ISTITUTI STORICI “RESISTENZIALI”

Tra i più pervicaci difensori della “vulgata” ci sono sempre stati certi Istituti storici, per così dire “resistenziali” e tra questi l' Istituto storico di storia contemporanea “Pier Amato Peretta” di Como, già Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, il più importante e qualificato, anche per la sua posizione storico - geografica, a rappresentare la storia della Liberazione.

In genere si tratta di Istituti storici, finanziati anche con pubblico denaro, che editano, promuovono dibatti, incontri, conferenze, proiezioni, mostre, proposte didattiche per le scuole, ecc., quindi organizzano kermesse, tour storico turistici, e quant'altro, insomma un dispendioso e notevole giro di attività di ogni genere, ricerca di documentazioni e archiviazione, biblioteca, ecc., che coinvolgono molta gente, personalità e centri di potere politico sindacale e dove, non è un mistero, salvo qualche eccezione, hanno sempre avuto un ruolo preponderante storici, politici e giornalisti vicini alla sinistra, al vecchio Pci, poi Ds e quindi ai loro epigoni oltre a personaggi della Resistenza, dell'Anpi, ecc.

Tutto legittimo e dal loro punto di vista storico - politico certamente meritorio, ma niente di strano, se questi Istituti , a prescindere dalla serietà e validità di quanto da loro prodotto, sono per loro stessa natura “di parte”, quella Resistenziale appunto che, volenti o nolenti, non è di certo stata la sola, nè maggioritaria parte storica, militare e politica che abbia avuto un ruolo, dei caduti e dei seguaci nella recente storia italiana e per quanto riguarda il mistero della morte di Mussolini, che qui ci interessa, sono rimasti attestati alla difesa ad oltranza della “storica versione”, palesemente non veritiera, più che all'accertamento della verità.

Questi Istituti storici sono comunque strutture di un certo “peso” e di una certa importanza sociale, tanto che ben pochi giornalisti storici hanno il coraggio di andargli contro visto che, potrebbero poi paventare di avere difficoltà per indagare, lavorare e pubblicare con una certa visibilità ed efficacia in quell'ambito storico.

Ognuno può pensarla come vuole, ma in considerazione soprattutto dell'atteggiamento di questi Istituti in merito alle ricerche su di un minimo di verità circa la morte di Mussolini, quando un amico ebbe a riferirci, tempo addietro, che a Novara nel 2007 (o 2008 non ricordiamo bene) la Giunta Municipale e il sindaco leghista, deliberarono la sospensione del contributo comunale annuo a sostegno del locale Istituto Storico della Resistenza, evidentemente non ritenuto consono per la ricerca della verità storica, pur non avendo mai appurato se questa notizia rispondesse al vero ci fece, a prescindere, piacere.

E', infatti, vergognoso che questi “ Istituti storici ”, ancora ai giorni nostri, non si pronuncino ufficialmente, almeno con una affermazione dubitativa, rispetto alla perdita di credibilità della “storica versione”, la “vulgata”, dopo che negli ultimi quindici anni, tutta una serie di testimonianze autorevoli e prove concrete ne hanno minato la credibilità.

TESTIMONIANZE PRECISE

Prendiamo ad esempio la testimonianza del regista Carlo Lizzani, autore del film “ Mussolini ultimo atto”, di fatto la “vulgata” edulcorata e messa in pellicola, che tanto contribuì alla sua diffusione nell'immaginario collettivo. Il Lizzani nel 2007 ha rivelato (meglio tardi che mai!) che nel 1975 Sandro Pertini, in questo caso teste indiretto, ma pezzo da novanta della Resistenza, dopo aver visto il film, lamentandosi della inadeguatezza storica del personaggio che lo impersonava, gli scrisse una lettera nella quale, tra l'altro, asserì:

<< ...e poi non fu Audisio a eseguire la “sentenza”, ma questo non si deve dire oggi>> [2] .

Per non parlare poi delle testimonianze della signora Dorina Mazzola, al tempo dei fatti residente a Bonzanigo a poco più di cento metri di distanza dalla casa dei contadini De Maria ove erano rinchiusi Mussolini e la Petacci e la confidenza della signora Savina Santi, vedova Cantoni la moglie di Guglielmo Cantoni Sandrino uno dei due guardiani alla coppia di celebri prigionieri in quella casa, le quali, ognuna per conto proprio e senza che si conoscessero tra loro, nel 1996 riferirono con precisi particolari che Mussolini era stato ucciso al mattino del 28 aprile del 1945 sotto casa De Maria e non il pomeriggio davanti a Villa Belmonte [3] .

Eppure l'anno successivo a queste rivelazioni che provocarono al Parlamento la richiesta inascoltata di aprire gli archivi del vecchio PCI Giusto Perretta, al tempo Presidente dell'Istituto Storico del movimento di Liberazione del comasco, pubblicò la seconda edizione, presentata come “riveduta”, del suo libro: “ Dongo 28 Aprile 1945 La verità nei racconti di Michele Moretti” (Ed. Actac Como 1997), che per importanza e prestigio possiamo definire “la bibbia” definitiva della “storica versione”, ma non una parola venne da lui spesa per contestare o inficiare quelle due testimonianze che pur demolivano totalmente la “vulgata”.

E del pari il Giusto Perretta nulla ebbe ad osservare sulle “clamorose” rivelazioni di Massimo Caprara, già segretario di Palmiro Togliatti il quale aveva riferito, nell'estate del 1996, che a suo tempo sia Palmiro Togliatti segretario del PCI, ma anche l'ex senatore e sindaco di Torino, nonché direttore nel 1944 dell' Unità! , Celeste Negarville, ebbero a dirgli che a sparare a Mussolini non fu Walter Audisio, ma Aldo Lampredi Guido Conti [4] . Una versione questa a cui in seguito si conformò anche Giovanni Pesce, il famoso Visone, medaglia d'oro della resistenza e comandante dei Gap.

E' pur vero che erano queste delle testimonianze “di riporto”, che noi stessi prendiamo con molte riserve, presupponendo che potrebbero anche essere state “voci” fatte girare a suo tempo all'interno del PCI dove nessuno credeva alla storiella di un Audiso sparatore, ma erano pur sempre attestati di importanti partecipanti alla resistenza o alla vita del partito comunista e quanto meno meritavano una disamina da parte del Presidente del massimo Istituto storico della Liberazione . Veramente sospetto che invece non si sia spesa neppure una parola in merito.

Ma ancor più grave è il fatto che in quella “seconda edizione riveduta” del libro del Perretta del 1997, nulla è stato osservato sulla incredibile discrasia che risultava dai racconti dei tre presunti partecipanti alla fucilazione di Mussolini, vale a dire Walter Audisio Valerio, Aldo Lampredi Guido e Michele Moretti Pietro, dopo l'ulteriore rivelazione pubblicata dal giornalista storico Giorgio Cavalleri nel 1995. Tre testimonianze diverse ed opposte da parte di tre persone che dicevano di essere state presenti alla fucilazione, un fatto questo che rendeva ridicola tutta la vicenda. Ricordiamo agli immemori:

Audisio descrisse nel 1945 e nel '47 oltre che nel suo libro postumo del 1975 un Duce, nel momento di essere fucilato, come tremante, pavido, immobile, incapace di dire e fare alcun ché (tranne, biascicare frasi improbabili e senza senso). Oggi gli stessi fautori della “vulgata” in parte ammettono che forse furono “coloriture”, nel clima politico del dopoguerra, finalizzate a evitare la nascita di un “mito del Duce”.

Lampredi, invece, nella sua subdola “Relazione riservata” al partito del 1972, scrisse che il Duce, aprendosi il pastrano (che tra l'altro, recenti perizie hanno dimostrato che non aveva!), gridò: “ Mirate al cuore!” e, scrive Lampredi, che di questo ne è al corrente anche Moretti che si impegna a tacerlo. Alla luce di varie considerazioni che più avanti accenneremo, in questo caso si poteva supporre che il Lampredi, aveva immesso nella sua “Relazione” un riconoscimento al Duce, da parte di un comunista, al fine di rendere credibile anche tutto il resto.

Moretti, invece, molti anni dopo e dopo che aveva ripetuto per anni la frase di rito, già fatta circolare a ridosso di quei fatti, cioè “ non è che poi il Duce sia morto bene” , nell'ottobre del 1990, confesserà al giornalista Giorgio Cavalleri, che lui vide il Duce non troppo sorpreso e quindi lo sentì gridare con foga: “ Viva l'Italia! (e all'intervistatore che gli chiese se questa esternazione gli avesse dato fastidio, rispose che non lo aveva infastidito affatto, in quanto si trattava dell'Italia di Mussolini, non certo della sua).

Come abbiamo visto Audisio e Lampredi misero i loro resoconti per iscritto, mentre Moretti lo confidò al Cavalleri che se lo tenne alcuni anni per sé e lo pubblicò poi nel suo “ Ombre sul Lago”, Ed. Piemme 1995 e fu ovviamente ripreso dalla stampa dell'epoca.

Ebbene, anche in questo caso, il libro del Perretta che pur era basato proprio sulle testimonianze di Michele Moretti, nulla obbiettò al giornalista Cavalleri, uno storico vicino agli ambienti Resistenziali del comasco, il quale aveva reso pubblica questa sconvolgente rivelazione. E neppure al Moretti stesso, ultimo sopravvissuto del trio partigiano comunista e “giustizialista” (che era deceduto a marzo 1995), venne dato del bugiardo o trovata una scusante. Tutto questo è grave e non può che lasciare perplessi.

Ma delle testimonianze di un certo rilievo o quanto meno significative, parliamone ancora, perché c'è anche da dire che nulla è stato osservato per le affermazioni fatte durante una intervista televisiva del 2008, mandata in onda dalla TV Espansione di Como , nella trasmissione “ Trenta denari ” condotta dal giornalista Emanuele Caso, presente in studio anche il Presidente dell'Istituto di Storia Contemporanea di Como , dottor Giuseppe Calzati.

Durante quella trasmissione, infatti, fu anche mostrata una intervista al vicesindaco di Mezzegra Vittorio Bianchi, il quale disse chiaramente che a suo tempo la gente, da quelle parti, venne “zittita”. Una cosa questa che oltretutto era ben risaputa dai giornalisti che avevano sempre constatato l'omertà e la paura in tutto il comasco dove, non a caso, nel dopo liberazione si verificano oltre 400 omicidi o “sparizioni” di natura “politica” o simile, tanto da spargere un terrore indicibile nella provincia.

Orbene, a queste significative parole del vicesindaco di Mezzegra, il presidente dell' Istituto storico, presente in studio, non faceva una piega e neppure in seguito nessuno ne traeva la logica conclusione che se, a suo tempo e per anni, si era minacciata la popolazione locale perché stesse “zitta”, era ovvio che doveva esserci un “altra verità” ben diversa da quella raccontata dalla “storica versione”!

PROVE CONCRETE

Ma se a queste testimonianze, come a tante altre qui non riportate, si è fatto orecchie da mercante, ancor peggio stanno le cose rispetto ad importantissimi rilievi emersi dagli anni '90 in avanti e che hanno letteralmente disintegrato la “vulgata”.

Parliamo, ad esempio, delle importanti perizie, sia pure retrospettive (come ad esempio quella del 2006 della equipe del professor Giovanni Pierucci del celebre Istituto di Medicina Legale di Pavia), che con tecniche e strumenti moderni, dimostrarono definitivamente che il giaccone rinvenuto indosso al cadavere di Mussolini buttato in terra davanti al cancello di Villa Belmonte e ben visibile in foto e filmati ripresi a Piazzale Loreto, non presentava fori o strappi quali esiti di una fucilazione [5] . Eppure il Duce era stato attinto in vita da almeno 9 colpi. Se Mussolini fu rinvenuto davanti a quel cancello con un giaccone imperforato è evidente che era stato rivestito da morto, dopo essere stato ucciso in orari e con modalità ben diverse da quelle raccontate dagli Audisio, Lampredi e Moretti.

Una prova questa inequivocabile, definitiva, di fronte alla quale non c'è nulla da obiettare se non ammettere che effettivamente alle 16,10 del 28 aprile 1945 di fronte al cancello di Villa Belmonte, in località Giulino di Mezzegra, venne recitata una macabra messa in scena.

Ma a questa prova del “giaccone” si deve anche aggiungere quella dello stivale destro di Mussolini. Come molti avevano notato durante lo scempio di Piazzale Loreto, ed anche precedentemente la sera del 27 aprile 1945, al momento del caricamento dei cadaveri al bivio di Azzano, sul camion che li avrebbe portati a Milano, Mussolini presentava al piede destro uno stivale completamente aperto il cui gambale si era rovesciato in basso.

Erano degli stivali che a causa delle ferite riportate da Mussolini nella prima guerra mondiale, per comodità si richiudevano a saracinesca, ovvero con una chiusura lampo.

Walter Audisio aveva raccontato di averlo notato, come “sdrucito”, già nella stanza di casa De Maria quando, disse lui, era andato a prelevarlo il pomeriggio del 28 aprile '45, ma aggiunse che il Duce camminava “ sicuro e spedito” per i viottoli in discesa (oltretutto il percorso per uscire da casa De Maria e recarsi alla piazzetta del Lavatoio, avrebbe dovuto essere in salita! Un altra clamorosa anomalia questa che la dice lunga sui racconti di Audisio).

Al tempo poteva considerarsi, questo aneddoto riferito da Audisio, una evidente cattiveria per sottolineare la smania di Mussolini di essere liberato e squagliarsela al più presto.

Fatto sta che quando si potè controllare lo stivale, miracolosamente conservato nella teca del cimitero di S. Cassiano, ci si accorse che non si trattava di una rottura o sdrucitura del cuoio, ma della chiusura lampo che era saltata all'altezza del tallone.

In conclusione: in quelle condizioni, lo stivale non avrebbe potuto restare saldamento infilato al piede e quindi Mussolini non avrebbe potuto camminarci per essere portato all'esecuzione, tanto più senza che nessuno notasse questa anomalia.

Tutta la ricostruzione della “vulgata”, comprensiva del cosiddetto breve corteo di un presunto Mussolini e una presunta Petacci, notati da pochi paesani, mentre venivano scortati da alcuni partigiani per la piazzetta del Lavatoio e portati all'esecuzione, erano quindi palesemente mistificati.

Ed ancora, anche se occorre prenderle con una certa cautela, non si possono sottovalutare le ricostruzioni, sia pure retrospettive, di carattere dinamico balistico della fucilazione del Duce, dedotte dai pochi elementi presenti nel verbale autoptico del prof. Caio Mario Cattabeni del 30 aprile 1945, avvalendosi dell'ausilio delle foto delle ferite presenti sul cadavere di Mussolini stesso e applicando a tutto questo la comune esperienza nelle armi da fuoco.

Ebbene queste perizie, considerando una ragionevole ricostruzione delle traiettorie di tiro che apparivano inclinate ed oltretutto eterogenee (in particolare il colpo al fianco si mostrava dall'alto in basso, mentre quello sotto mentoniero dal basso in alto), considerando anche alcuni colpi che risultavano sparati da distanze molto ravvicinate (per esempio il colpo al braccio dx che ha lasciato un “tatuaggio” ovvero un alone di sparo sul braccio evidentemente nudo e la rosa alquanto compatta di quattro colpi di mitra quasi sulla spalla sinistra) e inoltre che le ferite mostravano una evidente distanzialità tra loro, tutto questo faceva ragionevolmente ipotizzare che potevano essersi verificate solo alcune modalità di sparo.

Tra le possibili modalità di quella fucilazione, la più realistica ed attendibile, era quella che Mussolini era stato attinto da 9 colpi (o forse 8 se quello che raggiunse il braccio dx e fuoriuscì, penetrò poi anche nel tronco o viceversa), attraverso l'utilizzo di due armi diverse: mitra (evidente la rosa abbastanza ristretta dei 4 colpi) e pistola, di calibri indefiniti, ma probabilmente 7,65 e cal. 9 (o tutti di uno stesso calibro).

Ergo avevano sparato almeno due tiratori e non il solo Audisio, come lui sostenne, raccontando di aver esploso 5 colpi (scrisse in una sua prima versione) o 5 + 4 + 1 di grazia (come scrisse in una successiva), sempre sparati da “ tre passi”.

Ed infine c'era anche la non indifferente stranezza dei filmati ripresi nei corridoi dell'obitorio di via Ponzio a Milano, dove si vedono i cadaveri di Mussolini e della Petacci gettati in terra e poi messi quasi seduti, dovendogli però tenere le teste con una mano perché ciondolavano. Non si sa con precisione quando furono riprese quelle immagini, in pratica è possibile che vennero riprese dal tardo pomeriggio del 29 aprile 1945 fino all'alba del 30 aprile lunedì, ma comunque prima che si tenesse l'autopsia del Duce in camera settoria (ore 7,30, ora legale).

Ebbene quelle foto mostrano all'occhio attento di un medico legale un evidente avanzamento della risoluzione della rigidità cadaverica, sicuramente alle braccia, al collo (in questo caso per la Petacci, perché Mussolini poteva dirsi aveva la testa estremamente mobile a causa della rottura del rachide cervicale causata dai traumatici scempi di Piazzale Loreto) e al tronco, ma è anche presumibile agli arti inferiori.

Quindi, considerando che la “risoluzione” della rigidità cadaverica segue il processo della stazionarietà della subentrata rigidità dopo la morte, e che tutto questo processo ha dei parametri di durata variabili, ma entro certi limiti, si dovrebbe dedurre che il Duce non venne ammazzato alle 16,10 del 28 aprile 1945, ma sicuramente alcune ore prima (almeno 6), se non fosse che, intanto la crono tanatologia è una disciplina alquanto complessa, legata a molte varianti che ne cambiano i parametri di durata del rigor mortis, della sua instaurazione e durata e della stessa sua risoluzione; poi il fatto che i due cadaveri, specialmente quello del Duce, vennero sottoposti a violenze, trazioni ed altro che ne potrebbero aver alterato il decorso della rigidità (variabilità ambientali), ed infine che comunque, in questo caso, questi rilievi sono pur sempre di ordine retrospettivo e per così dire virtuali, ovvero fatti su foto e non direttamente sui cadaveri; ergo non c'è attendibilità certa per risalire all'orario di morte.

Purtuttavia queste osservazioni conservano un minimo di validità, tanto più che testimonianze dell'epoca confermarono che i cadaveri erano già “rigidi” verso sera del 28 aprile, al momento del loro caricamento al cancello di Villa Belmonte e al bivio di Azzano e quindi si poteva sospettare un decesso anticipato su quello asserito dalla “storica versione”.

Ma resta il fatto che se questi rilievi, in base a quelle foto, non possono essere pienamente utili per confutare l'orario di morte delle 16,10, sono però utilissimi per sconfessare quanto scrisse il professor Caio Mario Cattabeni nel suo famoso verbale autoptico, laddove per il cadavere di Mussolini, accennò solamente ad una:

<< Rigidità cadaverica risolta alla mandibola, persistente agli arti>> .

Un rilievo questo del Cattabeni che lascia sconcertati, in base a quanto si vede in quelle foto dell'obitorio, dove la “risoluzione” sembra molto più avanzata, e fa nascere inquietanti interrogativi.

Viene infatti da interrogarsi sul vero ruolo e la presenza a quella autopsia di un certo “ Guido, Generale medico della Direzione Generale di Sanità del Comando Generale del CVL”, firmatario del verbale di Cattabeni, che molti sospettano abbia condizionato la necroscopia e magari impedito anche la autopsia sul cadavere della Petacci.

Il fatto sconcertante è che questo misterioso Guido è poi letteralmente sparito nel nulla. Non ha mai più dato segni di vita, nè è mai stato possibile dargli un nome, solo supposizioni e nessuna autorità del CNLAI, del CVL, di partecipanti alla Resistenza ha mai dato indicazioni per rintracciarlo. Questo Generale medico del CVL aveva quindi presenziato alla necroscopia, probabilmente aveva imposto qualcosa, quindi aveva firmato il verbale e si era volatilizzato nel nulla! Un comportamento questo di chi aveva avuto sicuramente molto da nascondere e gravi motivi per agire in questo modo.

UN INQUALIFICABILE SILENZIO

Orbene di fronte ad una situazione del genere, che pur senza considerare tanti altri particolari e l'assoluta inattendibilità di una “storica versione” che si contraddiceva da sola tra una sua “versione” e l'altra, avrebbe doverosamente dovuto spingere gli Istituti storici , “resistenziali”, a rivedere tutta la faccenda ponendola almeno sotto una considerazione dubitativa, si è riscontrato invece, fino ad oggi, il più completo silenzio.

Possiamo anche capire che sconfessare definitivamente, dopo oltre mezzo secolo di bugie “ufficiali”, gli “eroici partigiani” Walter Audisio Valerio , Aldo Lampredi Guido e Michele Moretti Pietro , quindi tutta la “storica versione” a suo tempo avallata da Luigi Longo e da tanti altri pezzi da 90 della Resistenza, una versione per la quale si era anche richiesta la più alta onorificenza per questo Walter Audisio, divulgata in tutto il mondo con il crisma di una storiografia ufficiale dello Stato , insegnata nelle scuole e quant'altro, avrebbe sputtanato tutti i grandi artefici della Resistenza, anzi tutta la Resistenza in genere e soprattutto la credibilità storica del PCI e dei suoi epigoni, rendendo infine inaffidabile ogni altra ricostruzione storica delle vicende resistenziali.

Questa storica versione, inoltre, non a caso, aveva fatto da base ad un pluridecennale tacito, ma inconfessato accordo di potere post ciellenista DC – PCI, dove ognuno si prendeva i propri meriti, oneri ed onori e la “Resistenza” doveva essere, come la moglie Cesare, al di sopra di ogni sospetto.

Se questo è senz'altro vero, è però altrettanto evidente che la verità storica, il rispetto dei tanti caduti, da tutte le parti verificatesi, e l'onestà degli stessi storici addetti ai lavori, avrebbero dovuto avere la preminenza su ogni altra considerazione.

Nel corso della trasmissione prima rievocata, alla Tv Espansione di Como, di fronte ad alcune contestazioni che in studio avanzava il giornalista Luciano Garibaldi ed altre elevate per telefono da qualche spettatore, il presidente dell' Istituto di storia contemporanea di Como, dott. Giuseppe Calzati, replicava che ogni eventuale contestazione alla “storica versione” doveva essere comprovata da testimonianze dimostratesi assolutamente veritiere e documenti inconfutabili.

Una richiesta questa certamente giusta ed accettabile, ma in questo precipuo caso alquanto singolare per il fatto che, oggi come oggi, dopo oltre sessanta anni da quegli avvenimenti, non si capisce quali altre testimonianze, oltre quelle da noi precedentemente accennate (e più comprovabili di così!), potrebbero uscir fuori, mentre per quanto riguarda le documentazioni è risaputo che per il mattino e il pomeriggio del 28 aprile 1945 a Bonzanigo e Giulino di Mezzegra non ci furono rapporti e documenti di qualche reparto o comando, magari della Guardia di Finanza, presenti sul posto, nè mai vennero rilasciate al CLNAI o al CVL, o in seguito agli organi dello Stato, relazioni e resoconti su quella “memorabile” impresa e neppure vennero consegnate alle autorità o almeno in seguito ad un museo storico della Resistenza, le armi impiegate per uccidere Mussolini e la Petacci (veramente singolare e sospetta questa mancata consegna della armi, utilizzate in una storica impresa che si pretendeva di giustizia popolare!).

Ma, dopo quello che noi abbiamo più sopra esposto, c'è da dire che adesso le responsabilità di attestare la verità, si sono invertite.

Essendo infatti oramai evidente, la improponibilità della versione di Walter Audisio, spetterebbe doverosamente a chi ancora sostiene questa “storica versione” di presentare prove e documentazioni affidabili e comprovanti la sua veridicità!

UNA “LETTERA APERTA” RIMASTA SENZA RISPOSTA

Il 29 maggio del 2009, assieme al valente professor Alberto Bertotto di Perugia, autore del bel libro “ Morte di Mussolini una storia da riscrivere”, Ed. PDC 2008, scrivemmo una lettera aperta (pubblicata sul quotidiano Rinascita ed esposta in vari Siti on line) al dott. Giuseppe Calzati, Presidente dell' Istituto di storia contemporanea "Pier Amato Perretta" di Como , nella quale, dopo aver riportato alcune delle prove più evidenti che rendevano inaccettabile la “storica versione”, facemmo rilevare che:

<< questo Istituto il 25 settembre 1995, a quel tempo “Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione”, emise una Dichiarazione con la quale, tra l'altro, si confermava la “storica versione” nell'orario di fucilazione (le 16,10) e nel luogo (il cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra)>>, e quindi ritenevamo che: << sia oggi opportuno, necessario e non più eludibile, che venga emessa altrettanta dichiarazione con la quale, alla luce di quanto fino ad oggi emerso, sia messa in dubbio la “storica versione ”>> [6].

Fino ad oggi, nessuno ha inteso rispondere.

Ma lasciamo adesso da parte questi “Istituti storici” che, in definitiva, hanno i loro ruoli e interessi da curare e difendere, e prendiamo in considerazione invece quei pochi storici o giornalisti storici, che mostrano di credere ancora nella “vulgata”.

Di molti di costoro crediamo non valga la pena parlarne, specialmente se consideriamo alcuni loro recenti lavori che, sinceramente, lasciano il tempo che trovano.

Per esempio il trio di giornalisti storici Giorgio Cavalleri, Franco Giannantoni, e Mario Cereghino, ha ultimamente pubblicato un libro, pomposamente presentato come “definitivo” sulla morte di Mussolini, che viceversa dice poco o nulla di nuovo e soprattutto non ci sembra proprio attendibile.

Parliamo del libro “ La Fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945-'46), Garzanti 2009, dove attraverso alcuni documenti desecretati in USA, dell'agente americano Lada-Mocarsky, che a ridosso di quegli avvenimenti interrogò molte persone nel comasco, producendo poi alcuni “rapporti” per l'Oss (la struttura di intelligence americana a quel tempo), si è presunto di risolvere il mistero delle ultime ore di Mussolini.

In realtà questi rapporti del Mocarsky erano già abbastanza conosciuti, visto che in buona parte vennero pubblicati dallo stesso Mocarsky a dicembre del 1945 sulla rivista americana Atlantic Monthly e altre documentazioni similari erano conservate dallo storico Renzo De Felice e sono recentemente venute alla luce, ma a parte questo la ricostruzione fatta dal Cavalleri, Giannantoni e Cereghino, in base ad un “rapporto segreto” del Mocarsky, trovato nel Maryland, lascia alquanto a desiderare, sia perché quel rapporto è veramente poco attendibile e sia perché in definitiva si tratta, più o meno, di una versione che era già circolata nel comasco pochi giorni dopo l'uccisione di Mussolini, attraverso un rapporto per il CLN locale, stilato da una certa Angela Bianchi, su incarico di suo zio il Comandante Roma , alias Martino Caserotti ed alla quale, evidentamente, il Mocarsky si era rifatto.

Una versione quella, a suo tempo circolata nel comasco, alla quale aveva in buona parte attinto anche Ferruccio Lanfranchi nell'estate - autunno del 1945 per le sue inchieste sul Corriere d'Informazione , ma evidentemente non ritenuta idonea dai vertici del PCI, che a novembre del 1945, come noto, la sconfessarono pubblicando sull'Unità, l'altrettanta versione addomesticata del colonnello Valerio.

In effetti in quel rapporto della Bianchi c'erano delle assurdità, come quella che a Giulino di Mezzegra era anche presente il figlio di Matteotti, oppure che si raccontava di una Petacci che diceva a Mussolini e davanti a tutti: “ sei contento che ti ho seguito fin qui?” e poi, sinceramente, la ricostruita dinamica della uccisione del Duce: prima due revolverate quasi alla schiena e poi una o due sventagliate di mitra, sembravano più la cronaca di una esecuzione gangsterica, che “una giustizia in nome del popolo italiano”.

Nel 1962, oltretutto, il giornalista Franco Serra pubblicò un lungo servizio inchiesta su la “ Settimana Incom Illustrata” , con tanto di intervista al Caserotti che riportava appunto, più o meno, la stessa versione presente nel “rapporto” della Bianchi a sua volta evidente in molti passaggi anche nel rapporto “segreto” del Mocarsky.

In definitiva, all'epoca, il Mocarsky non aveva fatto altro che mettere insieme tutta una serie di interviste a personaggi del tempo, oltretutto con la carenza di alcuni importati “attori” che lo stesso Mocarsky disse che erano irreperibili ed altri invece risultati reticenti, ricavandone più che altro luoghi comuni e dicerie, e la sua ricostruzione dei fatti risulta infarcita di errori e inesattezze, tanto che il ricercatore storico Marino Viganò giustamente, commentando il libro in questione, non ha potuto che osservare, su la rivista Storia in Rete, di Maggio 2009, che l'agente americano di fatto non potè che indagare poco e male.

MARINO VIGANO' L'ULTIMO VERO SOSTEGNO DELLA “VULGATA”

Abbiamo accennato al ricercatore storico varesino Marino Viganò, un ricercatore che ha prodotto in tanti anni di attività, oltre a qualche interessante e validissimo libro, articolo o saggio, una serie di informazioni, raccolto moltissime testimonianze di attori coevi a quelle vicende e altro, tanto da risultare utile, se non indispensabile, a molti celebri autori di opere storiche che hanno attinto ai suoi preziosi archivi. Per la sua obiettività e mancanza di faziosità il Viganò non è mal visto negli ambienti, per così dire, “neofascisti”, ed ovviamente è ben considerato in quelli “resistenziali”.

Dobbiamo parlare del Viganò perché la serietà del personaggio, rimasto incredibilmente e inspiegabilmente convinto della bontà della “storica versione”, esigono di farlo.

Tempo addietro il Viganò, scambiando con noi qualche email, ebbe a fare delle intelligenti considerazioni, in merito alle possibilità di conseguire o meno una sufficiente e reale verità nel mistero della morte di Mussolini.

Ebbe a farci rilevare il Vigano e su questo concordiamo in piano, che non è possibile intraprendere questa ricerca storica con qualche possibilità di arrivare alla verità, basandosi sulla letteratura disponibile in materia, perché tutte le pubblicazioni sono:

a) per lo più incomplete nei dati e deboli nelle interpretazioni, le più vecchie;

b) tautologiche le più recenti, in quanto partono da errori – a volte madornali – di autori precedenti per ripeterli come verità acquisite e per amplificarli di continuo con nuovi errori e interpretazioni strambe;

c) del tutto assurde quelle di certi “protagonisti” un pò troppo “protagonisti”.

Quindi il Viganò è convinto che l'unico modo per avvicinarsi alla verità su quella morte, è la ricerca, selezione e interpretazione di testimonianze dirette, unita al reperimento delle poche documentazioni eventualmente esistenti.

Ma proprio a proposito di documentazioni, quali note, ricevute, rapporti, relazioni, memoriali, ecc., ma anche testimonianze raccolte negli anni da ricercatori storici di ogni estrazione che hanno riempito gli archivi degli Istituti resistenziali e simili o vari archivi privati, ci sarebbe da avanzare molte riserve, visto che non c'è alcuna certezza che si tratti di materiale veritiero, autentico o non “taroccato”, magari su commissione.

Troppi interessi hanno girato attorno a queste “raccolte” e non sembra che siano stati eseguiti particolari accertamenti, anche di ordine peritale, per la loro “autenticità”.

Questa perplessità nasce dalle tante, troppe assurdità, discrasie e contraddizioni che si riscontrano in tanti “documenti d'epoca” e “testimonianze”, da far sospettare che, periodicamente, “qualcuno” voleva mettere una “toppa” ai buchi della “ storica versione”, ma quasi sempre si è invece finito per aprire una“falla” da un altra parte o viceversa qualcun altro voleva produrre sensazionali servizi giornalisti per puntellare qualche astrusa “versione alternativa”, finendo per fare altra confusione.

In ogni caso anche a prescindere da tutto questo, resta il fatto, come abbiamo già accennato, che per i fatti svoltesi al mattino in Bonzanigo e il pomeriggio a Giulino di Mezzegra, non ci sono documentazioni dirette (per esempio una ricostruzione di quel pomeriggio, trovata in un rapporto di un comando locale della Guardia di Finanza e stilata dal brigadiere Antonio Scappin Carlo , è chiaramente una relazione indiretta, formulata in base a racconti e voci raccolte sul posto, perché lo Scappin non era presente a Bonzanigo o Giulino di Mezzegra).

Ed a questa carenza, per così dire “congenita”, si deve aggiungere il fatto che gli avvenimenti succedutisi in quella maledetta giornata del 28 aprile 1945 sono un misto di verità ed episodi nascosti o mistificati, per cui è difficile avere dei riscontri attendibili.

Per esempio, possiamo dire che quanto racconta la “storica versione”, almeno per i suoi tre quarti e fatte salvo varie contraddizioni e aggiustamenti, risponde al vero.

Vero è che partì da Milano prima delle 7 del mattino un certo colonnello Valerio, alias Walter Audisio, accompagnato da un alto dirigente comunista Aldo Lampredi Guido Conti e da un plotone di partigiani dell'Oltrepò pavese (circa 12 uomini più due comandati), oltre un autista Giuseppe Perotta, avendo un incarico del Comando generale del CVL (la struttura militare della resistenza) per requisire e tradurre a Milano Mussolini e gli altri prigionieri di Dongo, ma in realtà con l'ordine segreto di fucilarli sul posto in conformità ad una presunta “sentenza” del CLNAI.

Vero che costoro arrivarono a Como in Prefettura, dicesi (e qui c'è qualche dubbio) intorno alle 8,30. Che Audisio restò per ore in Prefettura a litigare con i rappresentanti locali del CLN per farsi riconoscere la sua autorità ed imporre le sue decisioni, mentre Lampredi sgattaiolò in orario imprecisato, portandosi via la macchina di Audisio e l'autista, oltre al capo scorta del plotone Alfredo Mordini Riccardo, per ritrovarsi poi tutti a Dongo, ognuno arrivato per conto suo, intorno alle 14,10.

Vero che Audisio, Michele Moretti Pietro Gatti e Lampredi, partirono da Dongo verso le 15,10 con una auto e autista (Giovanbattista Geninazza) requisiti sul posto, per recarsi a Bonzanigo, poco più di 21 km. di strada, a prelevare Mussolini e la Petacci e poi fucilarli nella sottostante via XXIV Maggio in Giulino di Mezzegra alle 16,10 davanti al cancello di Villa Belmonte.

Vero che poco prima, verso le 16, venne sbirciato da qualche residente del posto un corteo di un uomo e una donna, scortati da alcuni partigiani armati e vero che poco dopo, intorno alle 16,10, si udì una sparatoria nei pressi del cancello di villa Belmonte e si trovarono in terra due cadaveri.

Tutto questo è verissimo e può essere, almeno in parte documentato, ma all'interno di questa versione dei fatti, c'è una variante rimasta nascosta e alcune mistificazioni, ovvero il fatto che in realtà Mussolini e la Petacci erano già stati uccisi al mattino in Bonzanigo e quindi il corteo sulla piazzetta del Lavatoio e la fucilazione di Villa Belmonte furono due messe in scena.

Ma purtuttavia, seppur mistificati, furono eventi realmente accaduti, uditi ed in parte visti da alcuni paesani e quindi nella eccezionale esaltazione di quelle giornate, nelle voci che subito furono messe in giro e presero a circolare, si creò una suggestione collettiva che consentì il diffondersi di una falsa “storica versione”.

Si consideri attentamente: da una parte la confusione per quanto, sul posto, era stato visto o saputo, dal'altra le pesanti minacce prolungatesi nel tempo in quei posti, e da un altra ancora tutta una provincia che, dal dopoguerra in avanti, prendeva socialmente a crescere e prosperare nell'alveo delle tradizioni della Resistenza, dei partiti, circoli e sindacati post liberazione, laddove chi si sarebbe permesso di avanzare un sospetto o riferire qualche particolare “non in linea” con quella versione, sapeva bene che correva grossi rischi, fecero il resto. A cosa poteva portare tutto questo, se non ad insabbiare la verità sul esatto svolgimento dei fatti?

E questa situazione perdurò per sempre anche quando, con il tempo, paure di essere ammazzati potevano oramai dirsi dissolte, ma si intuiva comunque che non era conveniente, andare controcorrente, perché poteva costituire un serio problema non solo per sé stessi, ma anche per figli e nipoti.

E così si è andati avanti per decenni in una omertà ambientale assoluta, analoga a quella delle località del comasco e relativa agli assassinii di Luigi Canali Neri e Giuseppina Tuissi Gianna ed altri omicidi ad essi correlati.

Ai giorni nostri, come fecero rilevare il vicesindaco di Mezzegra Vittorio Bianchi e l'anziano parroco don Luigi Birindelli, morti quasi tutti i paesani del tempo, le nuove generazioni del posto, non sono neppure più in grado di orizzontarsi nella verità di quanto, all'epoca, potrebbe veramente essere accaduto dalle loro parti.

Come vedesi quindi i pur ragionevoli e lodevoli intenti di Marino Viganò, non sono, almeno in questo contesto di ricerca storica, applicabili a pieno e quindi bisogna arrangiarsi in altri e diversi modi.

Per altri versi il Viganò rispetto alla testimonianza, veramente decisiva, di Dorina Mazzola, esprime una forte perplessità, a nostro avviso eccessiva.

Osserva, infatti, il ricercatore storico che una uccisione del Duce e poi della Petacci al mattino (come da testimonianza della Mazzola e da molti e tanti indizi evidenziato), non avrebbero potuto passare inosservate nel piccolo borgo tra paesani e sfollati. Ergo qualcosa doveva in seguito pur emergere e quindi, non essendo questo accaduto, la testimonianza della Mazzola, ebbe a dirci il Viganò, si “giudica da sola”.

In pratica il Viganò cerca di liquidare la testimonianza di Dorina Mazzola a causa della mancanza di riscontri testimoniali in loco: in sintesi, se molti del posto sapevano, come la stessa Mazzola afferma, e tra questi c'erano anche alcuni sfollati che poi tornarono ai paesi di origine, come è possibile che negli anni qualcosa non è venuta fuori?

Per questa osservazione, pur intelligente, dobbiamo rimandare al discorso da noi fatto poco sopra circa la pervicace omertà ambientale che, per varie cause, si è prodotta da quella parti e anche del clima e del sovrapporsi di avvenimenti veri o mistificati che finirono per creare una suggestione collettiva nei residenti anche perché ognuno aveva sentito o aveva assistito ad una parte di verità, non a tutto lo svolgersi degli avvenimenti di quella mattinata a Bonzanigo e poi il pomeriggio a Mezzegra.

Quindi, travolti dalle dicerie locali, non era certo facile, per i residenti, afferrare la verità complessiva dei fatti, che pur molti conoscevano e poi ad andarla a raccontare dietro un clima di evidenti intimidazioni. La Mazzola ha chiaramente parlato di bigliettini intimidatori che venivano messi sotto le porte di casa, messaggi mafiosi che imponevano un silenzio almeno cinquantennale, ed a lei stessa, ha raccontato la figlia, venne persino gettata una bomba a mano, per fortuna disinnescata, dentro in casa. E il vice sindaco di Mezzegra, ai giorni nostri, ci conferma che la gente venne “zittita”.

Non a caso molti anni dopo, coloro che cercarono conferme alla clamorosa testimonianza di Dorina Mazzola si sono trovati in genere alle prese con chi fingeva di cadere dalle nuvole, chi dava della bugiarda all'anziana signora (e di conseguenza alle sue figlie che ancora oggi conservano gli appunti della madre ed hanno i ricordi di famiglia su quelle storie), senza però fornire troppe spiegazioni, mentre qualcun altro in privato pur confermava dei particolari, aggiungendo però il fatidico “ qui lo dico e qui lo nego, io in questa storia non ci voglio entrare ”.

Ma nonostante questo ci sono state varie testimonianze indirette che hanno confermato la testimonianza della Mazzola che oltretutto è in linea con quei pochi rilievi retrospettivi che è stato possibile fare sulla dinamica balistica dell'uccisione del Duce e della Petacci e sui loro reperti di vestiario.

Per esempio, abbiamo prima ricordato Massimo Caprara, l'ex segretario di Palmiro Togliatti, il quale, dopo che nell'estate del 1996 aveva reso nota la confidenza di Togliatti che indicava in Aldo Lampredi l'uccisore del Duce, riferì successivamente (nel suo libro “ Quando le Botteghe erano oscure”, op. cit.) anche questa affermazione di Celeste Negarville:

<>>.

Anche Angelo Carbone, al tempo un 83 enne ex partigiano di Rivanazzano in Oltrepò, amico di Sandro Pertini, pur nel contesto di racconti alquanto raffazzonati e sinceramente poco credibili, fece importanti affermazioni ricordando di essere stato presente ai noti eventi (riferendosi però al Cancello di Villa Belmonte), ma aggiunse:

<< Non è vero che Claretta Petacci fu uccisa con Mussolini davanti al cancello di Villa Belmonte. E' una storia inventata di sana pianta>>.

Disse, anche <>>.

Affermazioni queste non ben specificate, scoordinate, confuse, ma che danno il senso di un qualcosa di molto diverso dalla versione ufficiale [7].

Elena Curti, figlia naturale di Mussolini e con lui presente nella famosa autoblinda fermata a Musso il 27 aprile a mattina, ha invece raccontato nel 2007 al professor Alberto Bertotto un suo importante ricordo:

<< Dieci anni fa, un ragazzo che all'epoca aveva solo 15 anni ( Osvaldo Gobetti, sembra un comunista di Dongo , n.d.r.), al quale i partigiani davano incarichi come ricaricare le armi, mi ha riferito, dopo averlo saputo da un compagno che aveva assistito ai fatti di Bonzanigo, che la Petacci era stata uccisa mentre tentava di allontanarsi>>; Stava correndo su un prato, venne raccontato alla Curti, quando venne falciata proditoriamente da una raffica di mitra alle spalle. Lo stesso partigiano che lo raccontava al Gobetti era rimasto scioccato [8].

Se queste testimonianze, in qualche modo ci attestano una morte della Petacci avvenuta in orari e luoghi diversi da quelli del Duce, non ci sono dubbi che tutta la “storica versione” è falsa e prende credito invece proprio la testimonianza di Dorina Mazzola.

UN IMPORTANTE SAGGIO DI MARINO VIGANO'

In ogni caso, incredibilmente, il Viganò nel 2001 ha pubblicato un saggio che, per l'importanza dei fatti e dei dati riportati, a nostro avviso costituisce l'ultimo e più serio disperato tentativo di avallare la “storica versione”. Dobbiamo quindi prenderlo in considerazione per confutarlo punto per punto e porre una pietra tombale su quel falso storico, pur concedendo “ l'onore delle armi” al ricercatore varesino.

Si tratta di un lungo e circostanziato articolo: <<“ Un Istintivo gesto di riparo”: nuovi documenti sull'esecuzione di Mussolini (28 aprile 1945 )>>, pubblicato sulla rivista “Palomar” N. 2 del 2001, con il quale il Viganò ha ricostruito, nei punti essenziali, la “storica versione” iniziando dalla partenza di Audisio e Lampredi da Milano per finire con il loro ritorno, sempre a Milano, con il camion dei cadaveri.

Quel che non è assolutamente condivisibile, nel saggio del Viganò, sono soprattutto due particolari che noi andremo a confutare perché, in effetti, smontano la pretesa dell'autore di dimostrare che non ci fu una messa in scena al cancello di Villa Belmonte, volendo invece egli attestare che per quell'ora, circa le 16 del 28 aprile '45, i due storici prigionieri erano ancora vivi. I due particolari portati dal Viganò a sostegno della “vulgata” sono:

a) i testimoni per la breve “passeggiata” di due supposti Mussolini e Petacci vivi, dalla casa De Maria, dove erano custoditi, alla macchina che li portò al cancello dove vennero fucilati;

b) i presunti testimoni per i momenti della fucilazione stessa al cancello di Villa Belmonte (ore 16,10 circa).

In effetti, se è pur vero che ci fu questo piccolo “corteo” e che alle 16,10 ci fu una “fucilazione”, o meglio degli spari che simulavano una fucilazione, non è altrettanto dimostrato che tutto questo avvenne proprio con un Mussolini e una Petacci vivi.

Ma andiamo per ordine seguendo in 10 punti l'articolo del Viganò, individuando quel che riteniamo attendibile da quello che invece non lo è affatto.

1. IL RUOLO E L'IDENTITA' DI VALERIO = AUDISIO

Nella fattispecie l'analisi approfondita e comparativa di tutte le testimonianze e documentazioni, analizzate dal Viganò, indica che effettivamente prima delle 7 del 28 aprile 1945, dietro un ordine del CVL, partì da Milano un plotone di partigiani affidato al colonnello Valerio , alias Walter Audisio in forza allo stesso Comando e ad Aldo Lampredi “Guido” dirigente comunista. Dovevano recarsi a requisire ministri e personalità della RSI catturati il giorno prima, compreso Mussolini, per fucilarli sul posto.

Valerio giunse a Como con Lampredi in Prefettura dove perse ben 4 ore alle prese con equivoci e bisticci vari, recandosi finalmente a Dongo dove arrivò alle 14,10 senza Aldo Lampredi, precedentemente e misteriosamente svicolato dalla Prefettura e giunto poi quasi alla stessa ora a Dongo per conto suo.

Risolti altri equivoci e incomprensioni con i comandi partigiani di Dongo, Valerio alle 15,10 circa si recherà, con una macchina ed un autista requisiti sul posto, a Bonzanigo a prelevare Mussolini e la Petacci, ivi rinchiusi da circa le 4 del mattino in casa dei contadini De Maria.

I due, si dice, che verranno fucilati alle 16,10 davanti al cancello di Villa Belmonte nella sottostante Giulino di Mezzegra. In quel momento storico sono con Valerio , Aldo Lampredi Guido e Michele Moretti Pietro, oltre al defilato autista Geninazza lasciato non si sa dove.

Tornato infine a Dongo, Valerio procederà a fucilare sul parapetto del lungo lago, intorno alle 17,45, gli altri prigionieri.

Questi sono i fatti, noti ed effettivamente accertati, i quali se dettagliati nei minuti particolari presentano varie incongruenze e soprattutto testimonianze contrastanti, che ne modificano un poco il loro pieno e circostanziato svolgimento, senza però alterarlo sostanzialmente.

Resta il fatto che proprio le testimonianze e le tante incongruenze riscontrate in questa storia hanno portato, nel corso degli anni, alla elaborazione di ipotesi alternative, alcune delle quali assolutamente fantasiose o indimostrabili, come ad esempio il fatto che quel colonnello Valerio, in realtà, fosse Luigi Longo, finendo per complicare la situazione.

Quello che riporta il Viganò nella sua ricostruzione storica, circa il ruolo e l'identità di Audisio = Valerio è a nostro avviso condivisibile. Non troviamo nulla da eccepire, infatti, nella ricostruzione che ha fatto il Viganò sulle vicissitudini riguardanti l'incarico che venne dato al Comando del CVL di Milano a Walter Audisio, delle sue finalità omicide e soprattutto del fatto che fu proprio Audisio e non un altro ad impersonare il colonnello Valerio. I dati e i riscontri forniti dal Viganò sono certamente attendibili.

Tante fantasie, anzi, su queste supposte identità, per esempio quella appena accennata che questo colonnello Valerio fosse in realtà Luigi Longo, hanno finito per danneggiare soprattutto una ricostruzione veritiera di quegli avvenimenti. Speriamo che l'articolo in questione possa aver finalmente messo un punto fermo e spazzato via queste “favolette”, una volta per tutte.

Tuttavia noi avremmo posto almeno un dubbio, anche se non più di tanto, che forse tra Como, Dongo e Mezzegra, agì anche un altro misterioso e autorevole personaggio che, in qualche episodio, si sovrappose ad Audisio. Sappiamo bene che questa “presenza”, questo fantomatico Mr. X , complica e rende difficile poi l'interpretare correttamente tutti quegli avvenimenti, tuttavia è una presenza che si avverte in alcune testimonianze laddove si viene a sostenere che questo colonnello Valerio, oltre a presentare doti di carattere e decisionali inconsuete per il mediocre ragionier Audisio, diceva di aver fatto la guerra civile spagnola e comunque sembra che diede mostra di conoscere lo spagnolo.

Ora, fermo restando il ruolo e la presenza di Audisio in quei fatti, è certo che costui, essendo al tempo relegato al confino, non era stato in Spagna e come spagnolo poteva, tutto al più conoscere qualche parola o verso di canzoni, molto in voga tra i comunisti.

A questo proposito, una delle testimonianze più significative, sempre se veritiera, è stata quella del capitano di fregata Giovanni Dessì, il quale riferì che gli uomini giunti con Valerio a Como indossavano divise che ricordavano la guerra civile spagnola (in realtà erano divise americane nuove) e che lo stesso Valerio ebbe a dirgli di avervi a lungo partecipato. In questo caso, oltretutto, il Dessì esponente del SIM e quindi spia con una certa esperienza, è difficile che possa aver equivocato.

La faccenda della partecipazione alla guerra civile spagnola, da parte di questo “ Valerio” potrebbe rimanere nel campo delle supposizioni aleatorie o delle tante voci messe in giro, ma resta il fatto che anche gli “storici resistenziali” hanno finito per dargli una certa importanza. Scrive infatti Giusto Perretta nel suo “ Dongo 28 aprile La verità” Ed. Actac 1997, rievocando una vicenda verificatasi nel Municipio di Dongo:

<< L'individuo (Marcello Petacci, n.d.r.) venne messo a confronto con Valerio, ma dopo alcune domande cadeva in contraddizione perché Valerio che aveva combattuto in Spagna, rivolgendogli alcune frasi in spagnolo aveva subito capito che l'interrogato per essere un funzionario dell'ambasciata spagnola, di spagnolo ne masticava proprio poco>>.

Quindi delle due l'una: o il Perretta ha ripetuto, senza rifletterci troppo, né verificarla attentamente, una delle tante versioni, più o meno attendibili che hanno circolato su questa vicenda, oppure qualcosa di vero nello “spagnolo” di questo colonnello Valerio potrebbe pur esserci.

Comunque, ripetiamo, il nostro è tutto al più un dubbio, che in quelle vicende possa esserci stata una sovrapposizione di ruoli, che ci sarebbe sembrato doveroso esprimere.

2. SPARATORIE NELLA STANZA

Giusta l'osservazione del Viganò che una esecuzione di due persone nella stanza di casa De Maria, come da alcuni ritenuto (per esempio gli studi del dott. Aldo Alessiani che ipotizzavano una irruzione in quella casa e in stanza all'alba, con uccisione di Mussolini e la Petacci dopo una violenta colluttazione), avrebbe lasciato tracce evidenti e quindi oltretutto non si sarebbero fatte salire, verso sera, persone a visitarla (per esempio i coniugi Carpani ai quali si volle far notare la messa in scena degli avanzi di un frugale pasto portato ai prigionieri intorno alle ore 12,30). Il rilievo del Viganò è valido, anzi vi aggiungiamo noi che essendo la Petacci stata uccisa con la sua pelliccia indosso, probabilmente si trovava all'esterno ed oltretutto i mobili di quella stanza, che sembra si siano conservati da qualche parte, non presentano lesioni tali da ipotizzare una mattanza in camera.

Questo del Vigano è però un rilevo valido, ma parziale, perché d'altro canto, la testimonianza di Dorina Mazzola e quella di Savina Santi, che fanno intuire invece una colluttazione in stanza con una sola ferita al fianco e forse anche al braccio su Mussolini, è possibilissima perché lascia poche tracce, facilmente rimuovibili.

Ed è quello che accadde: Mussolini ferito in stanza, portato nel cortile e finito a colpi di mitra. In ogni caso, se il Viganò non lo sa glielo diciamo noi, resta ancora da spiegare il perché, come ha più volte ricordato l'anziano parroco di Mezzegra don Luigi Birindelli, venne impedito per qualche giorno al fotografo Ugo Vincifori, che dal 29 aprile 1945 prese a fotografare tutti i posti di quegli avvenimenti, di fotografare la stanze dei celebri prigionieri: c'era forse qualche “particolare” nella stanza che la foto avrebbe immortalato e che non andava assolutamente fatto vedere?

Ma vediamo anche questa faccenda del famoso “pasto” che dicesi Mussolini e la Petacci avrebbero, o meglio non avrebbero, consumato intorno alle 12,30. Spiace constatare che, il pur perspicace Marino Viganò, non abbia analogamente espresso sue notazioni in merito.

Ricordiamo che la “storica versione”, in questo caso su testimonianze, alquanto vaghe e contraddittorie (almeno da come sono state riportate) dei coniugi De Maria ed in parte di Guglielmo Cantoni Sandrino, uno dei due “carcerieri” (l'altro “carceriere” Giuseppe Frangi venne assassinato pochi giorni dopo) attesta che intorno al mezzogiorno Mussolini e la Petacci, svegliatisi richiesero o gli venne offerto un pasto. Gli vennero quindi portate due scodelle di latte, pane, un poco di polenta e alcune fette di salame.

A questo punto la “storica versione” diviene incoerente: vecchi resoconti e versioni, infatti, dicono che i due prigionieri mangiarono solo un poco di pane e le fette di salame (di cui erano rimaste le bucce) e forse bevvero il latte.

Al contrario però si sostenne anche che i resti del pasto erano rimasti intatti e quindi i due prigionieri non avevano toccato cibo.

In particolare questa seconda versione venne attestata dai coniugi Carpani (lui anni dopo divenne sindaco di Mezzegra) che dicesi salirono in quella stanza la sera stessa del 28 aprile intorno alle 18,30.

Comunque sia andata la storia non regge per i seguenti motivi:

a) il fatto che se alle 12,30 Mussolini avesse mangiato e fosse stato poi ucciso alle 16,10, viene smentito, dallo stato dello stomaco del Duce, che alla necroscopia è risultato privo di ogni residuo di cibo e con poco liquido torbido bilioso (anche se ci sarebbe la possibilità fisiologica di una completa digestione di un pasto, ma solo se estremamente scarno, consumato intorno alle ore 12,30, la presenza del sia pur poco liquido torbido bilioso indica un digiuno più prolungato) [9].

b) viceversa, se come nella storica versione riveduta, [10] dicesi che Mussolini e la Petacci non avevano affatto mangiato, ci sarebbe allora una contraddizione con la richiesta o l'offerta accettata di cibo del mezzogiorno e il non averlo invece poi consumato, pur essendo i due prigionieri digiuni dalla sera prima e questo addirittura fino alle 16 quando poi vennero a prenderli.

Quindi in entrambi i casi è quantomeno legittimo sospettare una messa in scena (con il pasto lasciato in mostra nella stanza e intatto fin dopo le 16, senza che, guarda caso, nessuno nel frattempo avrebbe sparecchiato, eppure la De Maria disse che, portati via i prigionieri, lei si mise a fare le faccende di casa), per dimostrare che i due prigionieri a fine mattinata erano ancora vivi [11].

3. I PARTICOLARI ASSURDI DELLA “VULGATA”

Nel riportare un passaggio di una testimonianza di Aldo Lampredi, relativo al suo arrivo in federazione comunista di Como, dove precedentemente prima delle 7 di quel mattino erano giunti il Canali e il Moretti, Viganò si rifà ad una rievocazione incompleta pubblicata nel 1973 dal giornalista dell' Unità ! Candiano Falaschi [12] .

Viceversa, quando nel 1996 si potè conoscere integralmente la famosa “Relazione riservata di Lampredi” da questi si venne a sapere l'importante particolare che al Canali e al Moretti, dopo che avevano riferito nella federazione comunista di Como gli avvenimenti notturni (trasferimento di Mussolini e la Petacci in località segreta), gli venne anche detto che “occorreva informare Milano e attendere ordini” (logico).

Nel 1973 quest'ultimo passo non era stato riportato dal Falaschi, ma stranamente anche Viganò in questo suo articolo del 2001 non lo riporta. Fatto sta che quella frase attesta molto bene che la direzione comunista a Milano fu di sicuro informata di tutto e dunque è inspiegabile quanto accadde dopo e ci lascia veramente perplessi di come un attento e preparato ricercatore storico quale è Marino Viganò, non abbia espresso le stesse nostre naturali e logiche considerazioni che ora andiamo ad illustrare.

All'uopo rievochiamo prima alcuni avvenimenti perché in essi c'è la dimostrazione palese ed evidente che all'interno di quella “storica versione” c'è nascosto un diversivo decisivo, ovvero la morte al mattino di Mussolini e la Petacci.

Dunque, prima delle 7 del mattino (orario controverso perché è anche possibile che fossero le 5,30 o giù di lì) Audisio parte da Milano per andare a prendere e fucilare Mussolini e gli altri prigionieri di Dongo, ma stranamente nessuno gli dice che a Dongo, oramai Mussolini non c'è più. Eppure al Comando generale del CVL di Milano e soprattutto Luigi Longo, non possono non sapere che Mussolini in piena notte è stato trasferito da qualche altra parte.

Il trasferimento a notte alta di Mussolini da Germasino, dalla locale adibita casermetta della Guardia di Finanza (pochi chilometri sopra Dongo), dove era stato provvisoriamente portato per motivi di sicurezza, al quale si prese poi persino la responsabilità di aggiungere una donna, la Petacci, infatti, non poteva essere una iniziativa degli eterogenei comandanti locali della 52 a Brigata Garibaldi di Dongo (Pier Bellini delle Stelle Pedro, comandante da interim non comunista, Luigi Canali Neri , provvisoriamente eletto capo di Stato Maggiore di quella Brigata, un comunista idealista e atipico, ultimamente caduto in disgrazia con il partito e il Comando Lombardo delle Brigate Garibaldi e addirittura condannato a morte anche se questa condanna era rimasta sospesa) e infine Michele Moretti Pietro, commissario politico della Brigata, un fedele comunista ligio invece al Pci).

Quindi l'ordine di nascondere Mussolini in qualche luogo segreto fuori di Dongo è sicuramente venuto da Milano, eppure, nonostante che tutti sanno che su Mussolini ci sono vari tentativi, anche di intelligence straniere, per requisirlo o sopprimerlo, questa informazione non viene data ad Audisio in partenza da Milano [ 13 ].

Ma ancor più clamorosamente non venne neppure data ad Audisio nel corso della sua telefonata delle 11 dalla Prefettura di Como al Comando generale di Milano dove dicesi che parlò con Luigi Longo. Longo ascoltate le lamentele di Audisio che, alle prese con i sabotaggi che stava subendo in Prefettura, chiedeva se l'ordine di cui era latore fosse superiore a tutto, si limitò a confermarglielo aggiungendo anche, sia pure come modo di dire: << o fucilate lui o sarete fucilati voi”>>.

Tanto che Audisio rimase un altra ora a discutere e litigare in Prefettura, pretendendo che gli reperissero un grosso camion e finì per partire dopo le 12 per Dongo senza ancora sapere che a Dongo Mussolini non c'era più.

Aldo Lampredi, invece, in un orario imprecisato che non si riesce a stabilire con certezza, ad un certo punto svicola all'insaputa di Audisio dalla Prefettura e finisce nella Federazione comunista di Como, dice lui per trovare aiuti alla loro situazione ingarbugliata con il CLN locale, anche se poi, guarda caso, non tornerà più in Prefettura e lui e Audisio si ritroveranno solo dopo le 14 sulla piazza di Dongo.

Orbene, sappiamo però con certezza che tra le 6 e le 7 (altro orario incerto) erano arrivati in quella Federazione comunista Michele Moretti e Luigi Canali reduci dall'aver lasciato circa alle 5 Mussolini e la Petacci in casa dei De Maria. I due misero al corrente i dirigenti comunisti della federazione, Dante Gorreri Guglielmo e Giovanni Aglietto Remo, degli avvenimenti notturni.

Ed ora, incredibilmente, dovremmo credere che Moretti e Canali vennero lasciati poi andar via per conto loro (“senza disposizioni particolari”, disse Moretti), avendogli solo detto, che bisognava informare il partito a Milano per avere ordini.

Nessuno disse al Moretti e al Canali che stava per arrivare a Como il colonnello Valerio con un plotone di scorta, nessuno gli disse che dovevano comunque attendere questi ordini dalla direzione del PCI di Milano, visto che oltretutto loro conoscevano l'indirizzo di Bonzanigo e potevano andarci senza farsi sparare addosso dai due guardiani, perché a loro noti.

Moretti, dicesi che se ne andrebbe a Dongo, passando prima tranquillo e spensierato da Tavernola a trovare moglie e figlio che non vede da tempo.

Il Canali invece girerebbe ancora per Como, dicesi che doveva passare in Prefettura, che si incontrò con il neosindaco comunista Armando Marnini, che andò a trovare la madre in via Zezio e comunque pure lui arriverà verso le 14 a Dongo, senza che in Como abbia incontrato o avuto sentore dell'arrivo di Valerio e del suo plotone.

Ma questa assurda situazione ha addirittura uno “specchio” nell'atteggiamento del Pier Bellini delle Stelle, il quale lasciata anche lui dopo le 5 casa De Maria, che lui fino a quel momento neppure conosceva, finisce a Dongo per le 8 e si mette ad adempiere a varie faccende, ma a quanto pare non informa nessun superiore delle novità sul trasferimento di Mussolini (e se lo avesse fatto, peggio ancora, non si comprenderebbe il “silenzio” di Milano), anzi si “scorda” addirittura di questo prezioso prigioniero e se alle 14,10 non arrivava un inaspettato, sconosciuto e non gradito Audisio a Dongo, non si capisce fino a che ora avrebbe “dimenticato” questa delicata situazione di prigionia del super ricercato Mussolini.

Eppure tutti questi partigiani sapevano bene che qualcuno di loro al corrente del nascondiglio del Duce, noto anche ai due autisti notturni lasciati poi andar via per conto loro, poteva far andare a prelevare e uccidere ovvero salvare, a secondo dei casi, Mussolini.

E gli stessi due carcerieri Cantoni Sandrino e Frangi Lino, stanchissimi erano stati lasciati in quella casa dall'alba senza che nessuno li andasse poi a controllare, eppure potevano accadere molti imprevisti, come il fatto che l'arrivo verso l'alba in quella casa era stato notato, che qualcuno aveva confidato qualcosa, che i prigionieri potevano aver messo in atto un tentativo di ribellione o di corruzione, che magari poteva piombare in quel paese qualche missione Alleata alla ricerca del Duce, e così via, insomma tante imprevedibilità che non potevano essere ignorate così con leggerezza neppure da comandanti partigiani da barzelletta.

E a Milano Luigi Longo, fino alla sera prima preoccupatissimo di organizzare alla svelta l'eliminazione di Mussolini, che al mattino al momento della partenza di Audisio, pare che confidi ad Alberto Mario Cavallotti, commissionario delle Divisioni dell'Oltrepò: <>, cosa fa? Nulla, sembra che si sia dimenticato di questo problema.

Come detto non informa Audisio per telefono alle 11 che Mussolini a Dongo non c'è più, poi verso le 14, quando l'ignaro Audisio doveva ancora arrivare a Dongo, se ne va ad incontrare Moscatelli e le sue divisioni della Valsesia e poi intorno alle 16 terrà anche un comizio nella piazza del Duomo. Eppure, a credere alla “storica versione”, Longo in quelle ore non sapeva più nulla di Audisio e di Mussolini. Ma non si preoccupa o almeno non risulta.

E' evidente che tutti questi atteggiamenti anormali, diventano normalissimi solo se consideriamo che la “pratica” Mussolini era già stata liquidata al mattino e quindi tutti si adeguano di conseguenza o ricevono “inviti” a defilarsi da quella faccenda (per esempio il Pier Bellini delle Stelle che solo poche ore prima ci teneva tantissimo a quella “cattura”).

Una deduzione naturale, logica, concreta e non avventata

Non è infatti azzardato ipotizzare, con molta ragionevole concretezza, che quando Longo organizzò la missione del colonnello Valerio, una missione che doveva necessariamente ottemperare a vari incarichi, al fine di coinvolgere in quelle fucilazioni tutte le componenti della Resistenza e renderle “digeribili” per gli Alleati (questi, nonostante i loro segreti scopi di eliminare subito Mussolini, pur avevano in essere impegni precisi sottoscritti dal governo del Sud di farsi consegnare Mussolini vivo e vegeto), egli non poteva stare tranquillo con un Mussolini nascosto in un luogo segreto da partigiani che non era possibile controllare pienamente da Milano.

Audisio infatti, per ragioni militari e politiche doveva prima passare dal CLN di Como, poi imporre i suoi ordini ai comandi garibaldini di Dongo, e così via, una perdita di tempo notevole. Ed allora è ovvio, anzi è sicuro, che Longo, doveva quanto meno accertarsi che con Mussolini tutto fosse a posto. Per questo, probabilmente, contestualmente alla partenza di Audisio da Milano, o poco prima o poco dopo, non ha molta importanza, incaricò “qualcuno”, possibilmente elementi decisi e militarmente all'altezza, di recarsi subito a Como, raccogliere i partigiani che avevano nascosto Mussolini (Moretti e/o Canali arrivati in Federazione comunista) e andare a verificare la situazione di Mussolini a Bonzanigo.

Questo “qualcuno” fu spedito direttamente da Milano, oppure venne incaricato via telefono a Como oppure ancora è anche possibile che fu un incarico che venne segretamente affidato ad Aldo Lampredi a latere della sua missione di appoggio ad Audisio.

Non è al momento possibile sciogliere il dilemma.

Comunque sia questi elementi, raccolti il Moretti e / o il Canali in federazione comunista di Como, dovevano andare a Bonzanigo e prendere in mano la situazione di Mussolini. Essi avevano l'incarico, se fosse stato proprio necessario, di fucilarlo subito, ma preferibilmente tenerlo sotto controllo in modo da farlo poi regolarmente fucilare da Audisio.

Come ben sappiamo dalla testimonianza di Dorina Mazzola e soprattutto da quella di Savina Santi in Cantoni, un paio di questi elementi arrivati a Bonzanigo, salirono nella stanza di Mussolini, accompagnati da Michele Moretti e vi fecero irruzione.

Si determinò una reazione del Duce, forse anche per un maltrattamento alla Petacci che si era messa in mezzo (il cadavere della Petacci presentava una inspiegabile ecchimosi, per un colpo sotto la palpebra dell'occhio, ricevuto in vita).

Quindi, come abbiamo visto Mussolini, dopo la colluttazione rimase ferito al fianco e forse anche al braccio. Essendo oramai intrasportabile e impresentabile per una regolare fucilazione, venne fatto scendere in cortile e qui soppresso immediatamente (in base alla testimonianza Mazzola, per l'orario di morte, possiamo orizzontarci tra poco dopo le 9 e poco prima delle 10).

Si spiega in questo modo anche la strana situazione che mentre fascisti e ministri furono fucilati al parapetto sul lungo lago di Dongo davanti a donne e bambini e con la rabbiosa e reiterata imposizione di fucilarli alla schiena, proprio al Duce, il capo di questi “malfattori”, sembrava essergli stato inspiegabilmente concesso di essere fucilato al petto e di nascosto da tutti.

L'uccisione della Petacci, avvenuta poi intorno al mezzogiorno, complicò ancor più le cose e rese indispensabile progettare e pianificare una regolare “fucilazione” di Mussolini e la sua donna, per tutte le esigenze storiche, politiche e di rapporti con gli Alleati che abbiamo accennato.

E si spiega anche il perché intorno alle 14 venne sparsa tra Bonzanigo, Azzano e Mezzegra, la voce che il pomeriggio Mussolini sarebbe passato prigioniero nella sottostante strada provinciale. In questo modo vennero svuotate le case dei pochi abitanti di quei posti per rendere così agevole e discreto il compito di mettere in scena una finta fucilazione al cancello di Villa Belmonte. Sono questi tutti fatti accertati, anzi anche il Giacomo De Maria, come disse la moglie, partì a razzo per recarsi a vedere questo evento, e rimase fuori casa fin quasi a sera. Eppure aveva Mussolini in casa, ma si disse al tempo che non lo aveva riconosciuto.

Poi però nel 1993 un figlio dei De Maria disse invece che il padre, sapeva bene che Mussolini era in casa sua, ma si era recato ugualmente a “vederlo” passare prigioniero per non destare sospetti. Bugie su bugie.

In ogni caso, o in un modo o in un altro, era assurdo che Giacomo De Maria con due prigionieri in casa e due uomini armati di guardia, se ne andasse fuori per ore lasciando sola la moglie!

Questo diversivo (sembra che la falsa voce del transito di un Mussolini prigioniero, venne sparsa dagli uomini di Martino Caseroti, noto comandante locale che agiva nella Tremezzina) dimostra anche e inequivocabilmente come tutta la sceneggiata della “fucilazione” pomeridiana in discrezione era stata programmata da ore a prescindere da Audisio.

Infatti, quando si prese a spargere questa “voce”, ovvero intorno alle 14, se non prima, nessuno sapeva ancora che Audisio stava per arrivare a Dongo, anzi da quelle parti non lo conoscevano proprio, e quindi non si spiega altrimenti questa “preveggenza” che qualcuno ha voluto penosamente scusare con il fatto che si voleva far operare tranquillamente il colonnello Valerio nelle sue esecuzioni (si, ma di una messa in scena!) .

4. UNA TESTIMONIANZA DI MARIO FERRO

Viganò riporta poi una testimonianza di Mario Ferro, un dirigente comunista storico del comasco, tardivo teste utilizzato spesso per puntellare la traballante “versione storica”. La poco credibilità di questa testimonianza, induce a pensare che siano dubbi anche tutti gli altri suoi racconti riferiti alle fonti resistenziali sempre con lo stesso scopo di puntellare la “vulgata”. Dichiara il Ferro che a Dongo i tre famosi “giustizieri” (Audisio, Lampredi e Moretti) più l'autista Geninazza, requisito sul posto, andarono a Bonzanigo con un auto analogamente requisita e siccome non c'erano altri mezzi, lui non potette seguirli a causa di questa carenza.

A quanto risulta però a Dongo, quel primo pomeriggio del 28 aprile, c'era di sicuro l'auto guidata dal Giuseppe Perotta con cui era arrivato Lampredi, Mordini e gli altri della Federazione comunista di Como. C'era l'Aprilia di Sforni e De Angelis i due elementi del CLN comasco che arrivati a Dongo con Audisio questi fece rinchiudere in una stanza del Municipio . Quindi c'era l'auto del Pier Bellini delle Stelle ed un altra grossa auto con la quale era sopraggiunto in quei momenti a Dongo Urbano Lazzaro Bill.

Ma lo stesso Viganò, come vedremo, riporta più oltre la testimonianza della sig.ra Rumi, moglie dell'autista Leoni, la quale ha raccontato che, partito Valerio, loro e altri gli andarono dietro a curiosare, chi in bicicletta chi in auto. Se il Ferro voleva minimizzare la strana e sospetta scelta di Valerio di requisire un auto con autista sconosciuto, per mancanza di auto, ci riesce male. Per gli autisti oltretutto c'era in giro Edoardo Leoni, che aveva anche accompagnato i partigiani a notte tempo a Bonzanigo e conosceva la strada, c'erano il Perotta autista di Audiso e almeno un paio di autisti del plotone dell'Oltrepò (per esempio Arturo, Giacomo Bruni e il Barba , generalità non note), ed ancora doveva anche esserci in giro quel Carlo Maderna, Carletto scassamacchine, autista della 52 a Brigata. Rimane quindi assolutamente inspiegabile perché Valerio va a compiere la sua missione, per altri versi mantenuta sotto una forte discrezione, portandosi appresso uno sconosciuto autista.

5. LA RIGIDITA' CADAVERICA

Una relazione scritta dal finanziere Antonio Scappin, riportata dal Viganò, riferisce che al caricamento dei cadaveri al bivio di Azzano (quindi al più tardi verso le 19) le spoglie di Mussolini e della Petacci erano irrigidite dalla morte. In altro contesto una analoga testimonianza la rilasciò anche Mario Ferro. Sono queste due testimonianze indirette, alle quali però si può aggiungere quella diretta di un certo Angelo De Angelis, al tempo anche lui impegnato in quella bisogna, che rilasciò analoga testimonianza a Franco Bandini il quale la riportò, con tanto di foto del De Angelis, in Storia Illustrata del febbraio 1973.

Ma anche un certo Roberto Remund, presente a quegli avvenimenti riferì in più occasioni che Mussolini morto in terra al cancello di Villa Belmonte, non solo aveva pochissimo sangue intorno, ma appariva quasi piegato in una strana posa che solo il rigor mortis avrebbe potuto determinare. Ora, escluso forse un irrigidimento agli arti, causato da una morte violenta ed improvvisa (rigidità catalittica), è alquanto difficile, che dopo solo circa 2,30 dalla morte, i due cadaveri (entrambi poi) potevano trovarsi in uno stato così avanzato di rigidità cadaverica.

Questa rigidità invece denuncia proprio una morte anticipata di qualche ora rispetto alle asserite 16,10. In pratica, anche se su questo argomento, relativo al rigor mortis , bisogna andarci molto cauti, Viganò nel riportare il rapporto di Antonio Scappin si fa un autogol e non è sufficiente che venga poi a riportare un paio di sospette e interessate testimonianze, rilasciate molti anni dopo i fatti (all'incirca intorno al 1983), da due partigiani dell'Oltrepò (Renato R. Codara Codaro e Stefano Colombini Steva ) che asserivano che i cadaveri non erano rigidi, anzi erano ancora caldi e sanguinavano abbondantemente, con le quali, guarda caso, volevano sgombrare il campo, con un colpo solo, alle voci che già da tempo giravano circa una “doppia fucilazione” di Mussolini. A dar retta a questi due partigiani, dovremmo addirittura credere, che dopo oltre

2,30 ore di permanenza all'aperto, quando li raccolsero per metterli sul camion e dopo che oltretutto, a quanto sembra, aveva anche piovuto, fossero ancora caldi!).

6. UN ASSURDO ANEDDOTO

Nel suo saggio il Viganò ci rende noto di un racconto della Lia De Maria (moglie di Giacomo, i padroni della casa di Bonzanigo), che venne fatto a un certo Giovanni Bianchi dopo tre o quattro giorni dal 28 aprile.

La De Maria gli raccontò che una guardia, posta fuori a curare i prigionieri, si sentì dire da Mussolini “ se mi lasci libero ti regalo un impero ”. Guarda caso è proprio la frase assurda riportata da Valerio nelle sue strampalate Relazioni, che Valerio disse era stata a lui detta dal Duce (un Duce evidentemente oramai totalmente rimbecillito, eppure la sera prima a Dongo e Germasino era apparso nel pieno possesso delle sue facoltà mentali) e che probabilmente, imbeccata alla sprovveduta contadina, questa l'ha riportata a modo suo scambiando momenti e personaggi.

Vediamo adesso i due particolari più importati nel saggio del Viganò, ovvero quelli circa il passaggio dei due supposti Mussolini e Petacci per Bonzanigo, e una singolare testimonianza sui momenti della fucilazione al cancello di Villa Belmonte (ore 16,10 circa).

7. IL “CORTEO” PER BONZANIGO

Viganò riporta la importante e tardiva testimonianza di una certa Palma Monti resagli nel 1989, la quale riferisce di aver assistito, dalla terrazza del suo alloggio, ad un piccolo corteo di un uomo con un cappello ed una donna in pelliccia, scortati da vari armati. E poco dopo sentì gli spari della fucilazione provenienti dal cancello di Villa Belmonte.

Simile a questa, aggiungiamo noi, si sarebbe anche potuta riportare la testimonianza, indicata da Franco Bandini, della signora Teresita moglie del proprietario della Villa, l'ingegner Bellini, che affermò di aver visto arrivare, verso il cancello fatidico, un soggetto con le mani alzate come se reggesse le cinghia di uno zaino ed un berrettino militare in testa che le parve nero. E soprattutto quella del signor Roberto Remund che raccontò e mise per iscritto di aver visto, da un edificio, soprastante i pressi della piazzetta del Lavatoio dove era stato a mensa, analogo corteo di una scorta armata ed un uomo ed una donna quasi avvinghiati di cui, dall'alto dove si trovava, non poté scorgere il volto.

Infine c'erano anche da considerare i contraddittori racconti dell'autista Geninazza che ebbe a trasportare nel retro della macchina, dalla piazzetta del Lavatoio fino al cancello della Villa Belmonte, due persone, una donna e un uomo, di cui poi ci descrisse, con molte incongruenze, le fasi della fucilazione.

Sembra infine che anche due donne, mai intervistate però, sbirciarono dalla fontana del Lavatoio questo strano corteo intorno alle 16.

Per il Viganò tutto questo starebbe a dimostrare che per quell'ora il Duce e la Petacci erano vivi. E' vero invece il contrario per i seguenti motivi e considerando che gli organizzatori della sceneggiata di Villa Belmonte, dopo aver fatto il vuoto per quei paraggi con la falsa voce che Mussolini sarebbe passato prigioniero nella sottostante provinciale, dopo aver allestito anche qualche piccolo posto di blocco in quelle stradine attorno a via XXIV Maggio (ci sono molte testimonianze a questo proposito), avevano anche necessità di far “sbirciare” da lontano questo corteo di un uomo e una donna condotti alla fucilazione.

Nessuno di quelli che poterono vedere qualcosa, infatti, potrà poi attestare di aver riconosciuto in quei due personaggi scortati, la Petacci (che oltretutto nessuno conosceva) e soprattutto il Duce. Nessuno, riportò il particolare che Mussolini doveva pur avere uno stivale completamente aperto nel retro che difficilmente lo avrebbe fatto camminare normalmente.

Chi dice di aver visto un presunto Duce vivo, portato alla fucilazione, avrebbe dovuto notare anche questo particolare, cosa che invece non è mai avvenuta, dovendosi quindi supporre che “quello” non era Mussolini.

Ed inoltre, guarda caso, quasi tutti asserirono che, colui che viene ritenuto fosse il Duce, portava un cappello o un berrettino calato sugli occhi (nascondendo ovviamente la inequivocabile “pelata”) ed aveva i baveri del pastrano alzati. Per quale motivo Mussolini avrebbe dovuto camminare così rimpannucciato, se non per nascondere il fatto che, appunto, quello non era Mussolini?

Ma c'è di più. Sia nel citato “rapporto” della partigiana Angela Bianchi, sia nelle testimonianze raccolte dall'agente americano Lada-Mocarsky, viene riferito che questi presunti Mussolini e la Petacci, portati a “passeggio”, indossavano stivali da cavallerizzo (o da equitazione). E' facile dedurne che la donna, così vista, non poteva essere la Petacci, che aveva scarpette e non stivali, come invece è probabile che li avesse una partigiana che la impersonava.

Insomma con queste testimonianze si è più propensi a pensare ad una messa in scena con due improvvisati “attori”, tanto per dimostrare ai pochi abitanti del borgo che Mussolini alle 16 era ancora vivo!

Ma oltretutto, in quelle testimonianze sullo strano “corteo”, si riscontrano anche un numero di partigiani di scorta eccessivo rispetto ai tre giustizieri, più semmai i due carcerieri (“ Sandrino ” Guglielmo Cantoni e “ Lino ” Giuseppe Frangi), che avrebbero dovuto esserci e considerando che Audisio era sopraggiunto a Bonzanigo all'improvviso. Molto strano.

Anzi, addirittura, a dar retta alle testimonianze di Michele Moretti, riportate dal Giusto Perretta (evidentemente senza rendersi conto dell'assurdità di quanto scriveva) nella sua opera già citata, Sandrino e Lino, neppure dovevano esserci, perché disse il Moretti quando loro arrivarono a prelevare i prigionieri i due si erano fatti trovare con le scarpe slacciate e poi ancora, presero anche un altra strada che li fece arrivare al cancello di Villa Belmonte con ritardo. Pensate che assurdità: dovremmo credere che quando Moretti, Lampredi e Audisio arrivarono in casa De Maria, il cui accesso oltretutto non è diretto, ma si deve prima passare un cancello, entrare in un cortiletto e poi salire delle scale intagliate nel muro che portano al pianerottolo di entrata, bussare, ecc., in tutto questo tempo, ammesso che il Sandrino e il Lino avevano le scarpe slacciate, non se le erano aggiustate, ma peggio ancora, quando dopo un poco tutti gli altri se ne andarono con i prigionieri, ancora non se le erano allacciate!

8. TESTIMONI DELLA FUCILAZIONE

E veniamo ora alla determinante testimonianza della signora Edvige Rumi, moglie di quell'Edoardo Leoni uno dei due autisti che la notte tra il 27 / 28 aprile 1945 guidò una delle macchine che trasportarono Mussolini a Bonzanigo.

Anche qui dobbiamo fare una premessa: per oltre 40 anni, dal primo dopoguerra in avanti, cronisti di ogni genere e tendenza hanno scandagliato quei luoghi alla ricerca di testimonianze su quella vicenda e ne hanno raccolte una infinità la maggior parte delle quali sono di dubbia provenienza ed attendibilità, comprese quelle pubblicate dal Bandini fino agli anni 60 sul canovaccio della “storica versione” e poi successivamente anche su quello della sua “versione alternativa” dei fatti (finta fucilazione). E' però sempre stato noto che il momento esatto della fucilazione, eccezion fatta per un poco attendibile Geninazza, non aveva testimoni diretti, tranne forse quel signore svizzero Maxmilian Mertz che lasciò scritto in una lettera al figlio di aver assistito, non visto, dall'angolo di via S. Vincenzo alla fucilazione di persone che sembravano “morte da tempo”.

Ma, onestamente, anche questa testimonianza, mai avallata in pieno, era da prendere con molte riserve visto che neppure la fantomatica lettera è stata mai mostrata.

Secondo la signora Rumi, oramai anziana e definita una signora semplice ed ingenua, che lo attestò in dialetto a Viganò in Gravedona nel 1989, lei avrebbe assistito assieme al marito e forse qualcun altro, da una specie di boschetto lì vicino alla fucilazione di Mussolini al cancello di Villa Belmonte. Dice la Rumi:

<< Siamo andati giù a Mezzegra in macchina o in bicicletta io, mio marito e tutti quelli che sapevano che lo ammazzavano. Mio marito lo sapeva perché andava di qua, andava di là a sentire tutti... Quando siamo andati giù, là era ancora giorno verso le 5 o le 6 (le 17 o le 18 n.d.r.). C'ero anch'io quando l'hanno ucciso e ho veduto la Petacci saltare là.

Mussolini e la Petacci sono nello stesso posto, la Petacci dice: “o moriamo tutti e due o non muore nessuno!”, è saltata là, ma c'era un tale svelto che l'ha afferrata e l'ha tirata indietro.

Deve averla trattenuta un po', ma poi gli è scappata ancora, è andata presso Mussolini e dopo li hanno ammazzati tutti e due.

Non so in quanti hanno sparato addosso a Mussolini perché eravamo sistemati male, come in un bosco, non si sapeva dove mettere i piedi perché la strada era rotta e non si poteva guardare da una parte e dall'altra >>.

Testimonianza quindi che apparentemente confermerebbe una fucilazione con condannati vivi, ammesso che siano proprio Mussolini e la Petacci in persona e non due “sosia” come effettivamente vennero utilizzati per quella sceneggiata, nonchè la non volontarietà di uccidere la Petacci.

Riflettendo su questa testimonianza, però, sorgono molti dubbi.

Intanto occorre premettere che nel 1993, Alessandro Zanella pubblicò nel suo libro “ L'ora di Dongo ”, Rusconi editore, proprio una testimonianza della moglie dell'autista Leoni, la quale aveva riferito che la Petacci quella notte in macchina avrebbe asserito di essere una spagnola, ma lo Zanella non aveva aggiunto altro, pur avendo avuto, a quanto sembra, proprio dal Viganò quella informazione (probabilmente non la ritenne attendibile).

Gia queste frasi notturne e in auto, riportate nel libro e che si presume la Rumi aveva sentito dal marito, sono possibili, ma poco credibili, perché la storia che Claretta fosse una spagnola e dei suoi passaporti spagnoli, era girata a Dongo dopo il suo arresto (se ne scrisse poi tanto negli anni successivi), ma sembra strano che la Petacci, oramai identificata come tale a Dongo, l'abbia ripetuta in quel momento a partigiani (era in macchina con Lino il Frangi, Neri il Canali e Pietro il Moretti) che lei avrebbe dovuto ben sapere (o presumere) conoscessero bene la sua identità e proprio per questo motivo la portavano con loro.

Ma è comunque tutta la testimonianza della signora che non ci sembra molto attendibile.

E' infatti veramente strano che questi clamorosi particolari, che pur sarebbero stati oltremodo utili e graditi dai centri storici resistenziali che controllano tutto quel territorio del comasco, per attestare la “versione ufficiale”, non siano stati riferiti prima del 1989, tanto più che non avrebbero comportato motivi di preoccupazione (anzi) nel divulgarli essendo ben in linea con le fonti resistenziali. Quindi sarebbero sicuramente stati accolti calorosamente.

Ma vediamo anche tutti gli altri particolari poco credibili.

Dunque, i due coniugi, a quanto sembra, trovatisi a Dongo e saputo che Valerio andava a prendere Mussolini per ucciderlo (come mai che il solo comandante Bellini delle Stelle, da come si dice, sapeva che lo andavano semplicemente a prendere per portarlo a Dongo?), in qualche modo e con altri amici gli vanno dietro per non perdersi lo spettacolo.

Qui sorge subito una domanda: se questo autista Leoni si trovava a Dongo e saltellava da un gruppetto all'altro a curiosare, perché nessuno, in particolare Moretti, Canali o il Bellini, lo indica a Valerio per farsi guidare a Bonzanigo, visto che insieme ci sono stati la notte precedente?

Eppure Moretti dichiarerà anni dopo che ebbero delle difficoltà a ritrovare la strada perché lui da quelle parti c'era stato solo in quella occasione e di notte per giunta ed inoltre erano allora venuti su dallo slargo di via del Riale, mentre il pomeriggio passarono dalla parte opposta del Lavatoio.

Diciamo comunque che è andata così e proseguiamo la verifica di questa testimonianza.

Se la signora dice di aver assistito con il marito in una specie di boschetto li vicino bisognerebbe chiedersi di che posto si tratta, visto che dentro Villa Belmonte è escluso e dall'altra parte della strada non sembra che c'erano posti simili, ma ammettiamo che la descrizione sia approssimata oppure che un posto del genere in effetti al tempo c'era.

In ogni caso però non dovrebbe essere molto distante dal cancello visto che i due coniugi poterono ascoltare le parole della (presunta) Petacci, ma in questo caso, come è possibile che Valerio e compagni, che dicesi si misero anche di guardia da una parte e dall'altra della strada, non li abbiano visti, non li cacciarono via se addirittura oltre ai due coniugi c'era anche qualche altro curioso?

Eppure cacciarono anche via qualcuno della villa che si stava avvicinando, gli urlarono con decisione: “ ritirarsi, ritirarsi! ”. E se non li hanno cacciati, perché magari li ritennero innocui ed ininfluenti per quello che stavano per fare, perché anni dopo Audisio e gli altri, quando in tanti ne mettevano in dubbio la credibilità, non hanno indicato che pur c'erano stati dei testimoni oculari alla loro fucilazione?

Ed infine il signor Leoni, che oltretutto la notte precedente era arrivato a Bonzanigo da un altra parte, ovvero passando per lo slargo erboso di via del Riale, possibile che arrivò preciso, preciso e al momento giusto, proprio in via XXIV maggio davanti al cancello, luogo che Audisio dicesi avesse scelto strada facendo?

Valerio, infatti, raccontò che era passato da via XXIV maggio, scelse a vista il posto, proseguì fino ad arrivare alla piazzetta del Lavatoio. Qui ferma la macchina dove poco dopo caricano Mussolini e la Petacci fatti uscire da casa De Maria. Fatta inversione scendono per circa 300 metri la strada asfaltata e si fermano al cancello dove procedono a fucilarli. Forse meno di 5 minuti in tutto di trasporto in auto e pochissimi minuti per predisporre davanti al cancello i “condannati” e fucilarli.

Quando, dove e come li hanno incrociati la signora Rumi, il marito e non si sa chi altro, tanto da potersi andare, in tempo in tempo, a piazzare a poca distanza per “godersi” lo spettacolo?

No, seriamente, questa testimonianza scricchiola, almeno in alcuni particolari che poi sono quelli veramente decisivi.

Se proprio non vogliamo pensar male su questa “opportuna” (per la “vulgata”) e tardiva testimonianza, dobbiamo allora supporre che è molto probabile infatti che la signora a distanza di tanti anni ha confuso particolari veritieri, come il fatto di essere arrivata sul posto ed aver trovato i cadaveri al cancello, con storie e dicerie che giravano per tutto il borgo e soprattutto negli anni successivi si sono arricchite di ogni ulteriore particolare.

O per altri versi si può anche pensare, ma è sempre difficile credere che si trovarono proprio sul posto al momento esatto della fucilazione, che fu anche lei vittima della pantomima inscenata con i due sosia impersonanti Mussolini e la Petacci.

9. IL COLPO AL BRACCIO DX DI MUSSOLNI

Per il colpo che attinse Mussolini al braccio destro e fuoriuscì poco più avanti verso il polso, senza perforare da parte a parte l'arto, un colpo che già a suo tempo il professor Caio Mario Cattabeni aveva supposto essere il risultato di un gesto istintivo di schermo con il braccio, il Viganò forse, supponiamo noi, rendendosi conto che questa spiegazione non regge in quanto è molto improbabile che un condannato messo al muro abbia questo tipo di reazione, cerca di spiegarlo con la possibilità che Mussolini in quel mentre si stava aprendo il bavero, pronunciando il famoso “ mirate al cuore!” come affermato nella sua dubbia Relazione del 1972 da Aldo Lampredi. Si intenderebbe che avendo le braccia alzate e piegate sul bavero, la destra venne così colpita.

Ma il Viganò, che pur in altre parti si mostra tanto convinto della versione di Lampredi, riportata nella sua “Relazione riservata”, non spende però una parola per spiegare la grave anomalia, come abbiamo riportato precedentemente, che per il momento della morte di Mussolini e per quanto egli ebbe a reagire, vennero fornite ben tre versioni diverse.

Il Viganò sembra anche voler “ignorare” che il Duce non aveva addosso nessun pastrano, che quel giaccone indosso al cadavere era imperforato e quindi era stato messo a Mussolini dopo morto e pertanto quali baveri e quale pastrano si era aperto sul petto il Duce?

E' vero che solo nel 2006, grazie alle perizie altamente specializzate dell'equipe del professor Pierucci a Pavia, si è avuta la certezza assoluta che il giaccone indosso al cadavere di Mussolini non era perforato, ma questo particolare, quando nel 2001 Viganò ha pubblicato il saggio che stiamo esaminando, era pur risultato evidente dalla escussione delle foto di Piazzale Loreto e molti, oltre al medico legale Aldo Alessiani, ne avevano fatto cenno.

Non è stato di certo elegante per il Viganò ignorarlo totalmente senza almeno porre tutta la faccenda in modo dubitativo.

Ma una volta per tutte occorre sottolineare che questa “Relazione riservata” di Aldo Lampredi, già di per sè stessa assurda, come notò Renzo De Felice poco prima di morire, visto che bisognerebbe credere che il Lampredi venne a relazionare il suo partito solo nel 1972, ben 27 anni dopo i fatti, presupponendo che non lo avesse fatto nel 1945, è palesemente una ennesima mistificazione.

Oggi sappiamo infatti che Audisio non sparò su Mussolini, ce lo dice Sandro Pertini, ce lo dice Massimo Caprara, ce lo dice Giovanni Pesce, il tristemente famoso visone, ce lo dicono una infinità di testimonianze anche di comunisti e oltretutto ce lo dicono le ipotesi balistiche che, in ogni caso, indicano che non sparò un solo tiratore.

Ebbene il Lampredi invece, in questa sua Relazione riservata, attesta e descrive proprio Audisio come unico e solitario sparatore. Quindi dovremmo credere che Lampredi nel 1972 al suo partito, il PCI, che ben sapeva come stavano i fatti, ed erano ancora vivi, Longo, Moretti, Audisio, Gorreri, Ferro, ecc., andrebbe riservatamente a raccontare il falso. Una assurdità nella assurdità.

Evidentemente a quel tempo, con la “vulgata” che già faceva acqua da tutte le parti, si ritenne, all'interno del partito, di far fare a Lampredi una “Relazione”, molto più credibile di tutte le stupidaggini che aveva raccontato e scritto Audisio. Una relazione nella quale con l'escamotage di qualche critica alle fanfaronate dette da Audisio e con un riconoscimento al Duce da parte di questo alto dirigente comunista, che ci viene a dire che Mussolini morirebbe gridando “ sparami al cuore! ”, si voleva rendere credibile tutto il resto, ovvero il luogo della fucilazione, Villa Belmonte, l'orario le 16,10 e la presenza del trio Moretti, Lampredi, Audisio, che erano i particolari che veramente premeva attestare e che invece le strampalate relazioni di Audisio avevano reso poco credibili.

Lampredi quindi scrisse questa Relazione taroccata e la passò al responsabile del partito Armando Cossutta il quale la mise in archivio, per usarla eventualmente in caso di necessità, ovvero se la “storica versione” di Audisio fosse definitivamente naufragata.

Successivamente, invece, non venne ritenuto più utile utilizzarla. Lampredi e Audisio nel 1973 morirono, e la “Relazione” si perse negli archivi, fino a quando l' Unità , direttore Walter Weltroni, con il nuovo PDS, in un clima di glasnost propenso a creare un nuovo look, senza più scheletri nell'armadio per una sinistra oramai di governo nella Seconda Repubblica, il 23 gennaio del 1996 ritenne opportuno pubblicarla.

10. IL “VERBALE” AUTOPTICO DEL DOTT. PIERLUIGI COVA VILLORESI

Per finire il Viganò, chissà forse per tagliare corto a svariate risultanze, sempre ipotetiche, ma molto verosimili, emerse sulla dinamica balistica circa le modalità della fucilazione del Duce (colpi distribuiti sui due lati del corpo con evidente distanzialità, strane inclinazioni delle traiettorie, che lasciano intravedere almeno due tiratori e modalità poco consone ad una fucilazione classica, distanze di sparo ravvicinate, ecc.), certamente non in linea con la versione di Valerio / Audisio, cerca di rifarsi alla dubbia relazione tanatologica del dott. Pierluigi Cova Villoresi, sulla quale ci sarebbe invece molto da dire.

Se le pezze d'appoggio, per dimostrare la “vulgata”, sono la “Relazione riservata” di Lampredi e la “Relazione” del medico Cova Villoresi (un anatomopatologo già assistente radiologo dell'Istituto dei tumori di Milano) siamo a posto!

Viganò infatti riporta, un pò con parole sue ed un pò con quelle del Cova, parti dello strano verbale di quest'ultimo, reso noto solo nel 1994, [ 14 ] tanto da far dedurre a un lettore sprovveduto di medicina medico legale, che Mussolini fu ucciso da 4 o 5 colpi, dovendosi presumere gli altri fori, nient'altro che dei colpi post mortem cioè attinti non da vivo.

In pratica il Cova Villoresi, che dicesi presente a quella autopsia, nel suo “verbale” (in realtà non si tratta di un vero verbale autoptico, ma solo degli appunti con molte note, alcune faziose, di carattere storico) usa un metodo descrittivo estremamente riassuntivo che può trarre in inganno chi è digiuno di medicina legale e scienza tanatologica.

Intanto, guarda caso, il Cova Villoresi non fa cenni sul rigor mortis , dove già il verbale Cattabeni vi era stato molto poco credibile, ma poi sorvola su lo stesso verbale del Cattabeni il quale, a prescindere dai colpi mortali o anche non mortali, ma sempre attinti da vivo (come non mortali sono, per esempio, il colpo al braccio e quello al fianco e forse quello vicino alla clavicola destra), aveva attestato in tutto e descritto ben 9 colpi.

Togliamo il colpo al braccio dx di cui il Viganò aveva parlato qualche rigo prima, ma il conto, riferendosi a questo “verbale” Cova che parla di 4 colpi (evidentemente intendendo quelli che uccisero Mussolini) non torna ugualmente.

C'è allora da chiedersi perché il Cova riassunse sinteticamente i colpi che avevano attinto Mussolini, riducendoli a 4 o 5 e dando così l'impressione che voleva allinearsi alla versione che proprio quel 30 aprile 1945 era apparsa su l'Unità! ad opera di un misterioso giustiziere del Duce? Non abbiamo la risposta a questa domanda, solo dei sospetti, ma ci sembra veramente singolare che un ricercatore storico preciso come il Viganò, per puntellare la “vulgata” vada a rifarsi proprio a quella atipica “relazione” del Cova Villoresi.

Colmo dell'ironia, infine, per il saggio del Viganò, ma questo lo storico varesino al tempo non poteva saperlo, l'oramai anziano medico dottor Pierluigi Cova Villoresi, di sicura fede antifascista, a dicembre 2003 raccontò nel corso di una intervista al direttore di « Italia Tricolore », Augusto Fontana, quanto segue, evidentemente appreso in ambienti qualificati (il Cova sta parlando dei cadaveri):

« Li avevano rinchiusi nell'albergo vicino al posto dove poi sono stati fucilati ».

« Ah quindi non nella camera da letto dei De Maria? » chiese l'intervistatore riferendosi alle note ipotesi di una uccisione dentro la stanza.

Cova: « No, no, no, fuori!... erano fuori... Lì c'è una specie di terrazzo dal lato stradale col limite in ferro tra la strada e il lago e c'è una piazzetta.. .».

E sulla Petacci, parlando del cancello di Villa Belmonte ebbe a precisare:

«... quel cancello lì è sbagliato, perché dove l'hanno uccisa è sulla curva di una stradina che parte dal lago, parte dalla strada, c'è la strada che praticamente è parallela al margine del lago » [ 15 ].

Si noti: i cadaveri rinchiusi nell'albergo (evidentemente il Milano sulla via Albana), Mussolini ucciso fuori di casa, ma nei pressi e la Petacci da un altra parte sulla curva di una stradina: tutti particolari in sintonia proprio con la testimonianza di Dorina Mazzola!

E qui si chiude la nostra critica al saggio del Vigano, un lavoro circostanziato e meticoloso, ma che non riesce a dirimere i dubbi sull'ipotesi che Mussolini venne ucciso al mattino e che tutto il resto (fucilazione pomeridiana) furono avvenimenti, verificatesi certamente, ma mascherati da una messa in scena.

Note:

[1] La “storica versione” venne riferita a pezzi e bocconi nel corso degli anni, sempre apportando modifiche e cambiamenti a quanto precedentemente raccontato. Essa può dirsi compendiata nei seguenti riferimenti, anche se tra gli uni e gli altri ci sono una tal mole di inesattezze, discrasie e contraddizioni che rasentano il ridicolo, che tuttavia vogliamo indicare per chi avesse la voglia e lo stomaco di documentarsi in merito:

1. Il primo anonimo e breve resoconto, pubblicato dall' Unità il 30 aprile 1945;

2. i 24 articoli pubblicati dall'Unità a partire dal 18 novembre 1945, su relazioni di un (quel momento anonimo) colonnello Valerio del CVL , avallati da due righe di presentazione scritte da Luigi Longo, già comandante delle Brigate Garibaldi e vice comandante del CVL ;

3. i sei articoli, “ Il Colonnello Valerio racconta”, pubblicati ancora sull' Unità a partire dal 25 marzo del 1947 e questa volta firmati da Walter Audisio alias colonnello Valerio ;

4. il libro postumo “ In nome del Popolo italiano” Edizioni Teti 1975, di Walter Audisio;

5. la “Relazione riservata al partito” del 1972 di Aldo Lampredi ( Guido Conti ) resa nota integralmente dall' Unità, il 23 gennaio del 1996;

6. le testimonianze di Michele Moretti ( Pietro Gatti ), raccolte da Giusto Perretta, al tempo presidente dell' Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, nel libro Dongo, 28 aprile 1945. La verità nel racconto di Michele Moretti, Ed. Actac 1990 e riveduta 1997.

[2] Vedesi: Carlo Lizzani: “ Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, Einaudi 2007.

[3] La signora Dorina Mazzola, al tempo diciannovenne raccontò di aver udito, intorno alle 9 del 28 aprile ‘45, un paio di colpi di pistola provenienti da casa De Maria. Quindi, dalla finestra di casa sua, vide scendere, un uomo calvo, con la sola maglietta di salute bianca a mezze maniche, che si trascinava a piccoli e difficoltosi passetti verso il cortile dello stabile, fuori della sua portata visiva che gli consentiva di vedere soltanto le persone dalla cintola in su, essendo casa sua ad un livello inferiore rispetto al palazzo dei De Maria.

Nel frattempo udì una donna, affacciatasi ad un finestrone della casa, strillare e chiedere aiuto, ma venne subito ricacciata dentro a viva forza, oltre a strilli e lamenti dei coniugi De Maria.

Poi udì una sparatoria nel cortile dove era stato condotto l'uomo calvo. Era chiaro che quell'uomo era Mussolini e che veniva ammazzato, ma la Mazzola in quel momento non poteva saperlo. Ella infine assistette anche, proprio dietro casa sua (inizi di via del Riale) e intorno alle 12, all'uccisione di una giovane donna che camminava davanti ad un gruppo di partigiani e che seppe poi trattarsi di Claretta Petacci. Dalle frasi e bestemmie udite dalla Mazzola, si poteva forse ritenere che si trattò di una uccisione proditoria, eseguita da un partigiano esagitato, che gli sparò alla schiena (come attesteranno i buchi nello schienale della pelliccia della Petacci) forse ritenendo che la donna volesse correre avanti per fuggire.

La Mazzola quindi aggiunse anche altri particolari che indicavano come i due cadaveri vennero nascosti per alcune ore nel garage dell'albergo Milano, ubicato li vicino sulla via Albana.

La signora Santi, vedova Cantoni, invece, nel corso di una inchiesta condotta da Giorgio Pisanò, presente anche il suo collaboratore Giannetto Bordin, riguardante la scomparsa di un prezioso memoriale, della cui esistenza molti erano al corrente, lasciato scritto dal marito Guglielmo Cantoni Sandrino, (scomparsa che da sola, già dimostra l'esistenza di una altra e diversa verità su quei fatti) diede altri particolari alquanto precisi:

<> (per queste testimonianze vedere G. Pisanò: “ Gli ultimi 5 secondi di Mussolini”, il Saggiatore 1996).

[4] Vedesi: M. Caprara su Storia Illustrata Agosto – Settembre 1996 e anche M. Caprara: Quando le Botteghe erano oscure , Il Saggiatore 1997.

[5] Per la perizia dell'equipe del professor Giovanni Pierucci, vedesi: F. Andriola: Mussolini: una morte da riscrivere - Storia in Rete maggio 2006.

[6] Ecco qui appresso, come l'Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione, presieduto da Giusto Perretta, il 25 settembre del 1995, pochi mesi prima che gli arrivasse la “mazzata” della testimonianza di Dorina Mazzola”, volle riassumere definitivamente la “storica versione”, con una pomposa e ipocrita Dichiarazione, lasciando imprecisato il particolare di chi effettivamente ebbe a sparare, le modalità dell'esecuzione e del perché venne ammazzata anche la Petacci. Tutti episodi evidentemente problematici volendo spiegarli esaurientemente, mentre invece, lasciandoli indeterminati si semplificava.

<< Dichiarazione dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione >> <

1. L'esecuzione del Capo del governo della Repubblica sociale italiana e del suo seguito decretata (in virtù del decreto dell'amministrazione della Giustizia del 25.4.1945 art. 5) la mattina del 26 aprile 1945 dal Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, delegato dal solo governo legale italiano, formato da Luigi Longo ed Emilio Sereni per il PCI; Ferruccio Parri e Leo Valiani per il Partito d'Azione; Achille Marazza e Augusto De Gasperi per la Democrazia cristiana; Giustino Arpesani e Filippo Jacini per il Partito Liberale; Rodolfo Morandi e Sandro Pertini per il Partito socialista, fu materialmente eseguita da una missione disposta a tale scopo.

2. Sulla piazza di Dongo, nella tarda mattinata del 28 aprile, arrivarono, al comando di Walter Audisio (colonnello Valerio) e di Aldo Lampredi (Guido), i partigiani dell'Oltrepò pavese che avevano ricevuto il compito di formare il plotone di esecuzione.

3. A Bonzanigo, in casa della famiglia De Maria, si recarono Walter Audisio, Aldo Lampredi e Michele Moretti (Pietro), commissario politico della 52 a Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”, per prelevare Benito Mussolini, in forza del decreto di condanna emessa dal Clnai.

Alle 16.10 il capo della Repubblica sociale italiana e Claretta Petacci che lo accompagnava furono fucilati a Giulino di Mezzegra davanti al cancello di Villa Belmonte.

4. Dopo le 17, sul lungolago di Dongo, il plotone di esecuzione, comandato da Alfredo Mordini (Riccardo), fucilò i gerarchi fascisti. [I fucilati di Dongo non erano tutti gerarchi, come qui sbrigativamente si sentenzia, anzi ci sono persone che non erano assolutamente passibili di pena di morte nè, tanto meno, senza un sia pur sbrigativo, processo! Quanto affermato, dopo 50 anni, liquidandolo con queste poche frasi lapidarie, visto anche come si è sorvolato sulla esecuzione della Petacci, è vergognoso! N.d.A . ]

5. In serata, a missione compiuta, i corpi di tutti i giustiziati vennero trasportati a Milano e deposti più tardi in Piazzale Loreto, nel luogo dove il 10 agosto 1944 erano stati fucilati dalle Brigate Nere 15 fra antifascisti e partigiani.

L'Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione, nella ricorrenza del 50° anniversario della liberazione, ritiene sia giunto il momento di ribadire questa verità storica incontrovertibile, l'unica basata su documenti originali e testimonianze raccolti nel corso della sua lunga attività scientifica. (Firmato):

Giusto Perretta (presidente), Luigi Carissimi Priori (dal 30 aprile 1945 commissario capo dell'ufficio politico della questura di Como), Mario Ferro (che accompagnò Aldo Lampredi e Alfredo Mordini a Dongo), Franco Giannantoni, Ricciotti Lazzaro, Marino Viganò (storici).

Como, 25 settembre 1995 >>.

[7] Settimanale “ Gente ” numero dell' 8 maggio 1999.

Queste due testimonianze di Massimo Caprara (che riporta le confidenza di Celeste Negarville) e di Angelo Carbone contengono una parte di verità (la morte differita della Petacci) ed un misto di menzogne calibrate su uno spezzone della storica versione. A dimostrazione come la verità venne artatamente camuffata dentro e fuori lo stesso PCI.

In effetti Carbone ci viene a dire che la Petacci è morta da un altra parte e che lui era presente a Villa Belmonte dove evidentemente venne fucilato Mussolini.

Analogamente il Negarville, dopo aver detto al Caprara che il Lampredi non c'entrava nulla con la morte delle Petacci, perchè era stata uccisa da un altra parte, aggiunse anche:

<< Lui si limitò a prelevare Mussolini da casa De Maria e a portarlo, con lo stivale rotto, fino al cancello di Villa Belmonte (come lo potè portare con uno stivale che non si richiudeva è un altro mistero, N.d.A.) . Queste cose le riferì a Luigi Longo il responsabile di partito per tutta l'operazione, Dante Gorreri >>.

Ora noi sappiamo per certo, che alle 16,10 davanti al cancello di Villa Belmonte, dopo una sparatoria, spacciata per fucilazione, si trovarono in terra due cadaveri: Mussolini e la Petacci.

Ma non è possibile che fosse stato fucilato il solo Mussolini, la Petacci dove la mettiamo?

Dovremmo pensare che era stata ammazzata prima (quando?) e li portata come cadavere, ma non ha senso portare il solo Mussolini vivo a Villa Belmonte.

Se viceversa fosse stata uccisa dopo Mussolini, come potè apparire cadavere al cancello della Villa? Quindi è ovvio che Mussolini e la Petacci furono uccisi al mattino in orari diversi e poi accumunati nella stessa finta fucilazione di Villa Belmonte.

[8] A. Bertotto: La morte di Mussolini: una storia da riscrivere, P.D.C. 2008; e anche A. Bertotto su Rinascita 14 ottobre 2007.

[9] Verbale autoptico N. 7241, 30 aprile 1945 prof. Mario Caio Cattabeni, Istituto di Medicina Legale e delle Assicurazioni dell'Università di Milano. Il testo integrale è riportato in varie pubblicazioni. Per quelle recenti si veda, G. Pisanò Gli ultimi 5 secondi di Mussolini op.. cit. E' anche visibile telematicamente nel sito: http://www.larchivio.com/ storia.htm .

[10] Testimonianze coniugi Carpani in F. Bandini, Vita e morte segreta di Mussolini, Mondadori 1978; Testimonianza signora G. Mantz in Carpani in G. Perretta: op. cit.

[11] Vedesi: Valerian Lada-Mocarski: The last three days of Mussolini, Atlantic Monthly, Boston dicembre 1945; M. Nozza: Testimonianza Lia De Maria, Il Giorno 2 febbraio 1973; C. Cetti: Come fu arrestato e soppresso Mussolini, Ed. Il Ginepro, Como 1945; A. Zanella: L'ora di Dongo, Rusconi 1993.

[12] C. Falaschi: Gli ultimi giorni del fascismo – Inchiesta a puntate sull'Unità!, Febbraio 1973, quindi pubblicata in opuscolo Editori Riuniti 1973.

[ 13 ] Nella notte del 27 aprile 1945 si cercò di attuare un cosiddetto “piano di salvataggio” o per meglio dire di prelevamento del Duce da parte di Raffaele Cadorna e attraverso il colonnello Giovanni Sardagna, suo ufficiale a Como.

Sembra che si doveva far arrivare Mussolini e la Petacci a Moltrasio dove una barca li avrebbe prelevati per conto del CLNAI – CVL, e portarli a Blevio nella villa dell'industriale caseario Remo Cademartori.

Fatto sta che dicesi che poi a Moltrasio, dove pur dicesi arrivarono a notte alta il gruppo di partigiani con Pier Bellini delle Stelle, Moretti e Canali, in due macchine con Mussolini e la Petacci, la barca non giunse e i partigiani tornarono indietro per finire a Bonzanigo.

Altra versione dice invece che trovarono, sulla piazza di Moltrasio, dei contrordini che annullavano questa operazione. Anche altre versioni girano in proposito in una confusione incredibile, visto che Michele Moretti ha sempre asserito che loro dovevano portare i prigionieri in una base di Brunate sopra Como.

Non c'è da credere molto a questa iniziativa di Cadorna - Sardagna, che probabilmente fu più che altro una cortina fumogena per nascondere certe responsabilità, ovvero è anche possibile che una volta messa in moto venne poi fermata dietro qualche “ consiglio ” dei Servizi inglesi o americani. Purtuttavia si sono avuti dei riscontri (anche da parte del Cademartori, di Paola Cademartori, di un diario letto postumo di Sardagna, ecc.) che effettivamente qualcosa quella notte venne organizzata.

Quel che qui preme evidenziare è il fatto che almeno il Sardagna era ben al corrente del trasferimento da Germasino di Mussolini e del pari Luigi Longo qualcosa doveva pur sapere (non si dimentichi che Michele Moretti, comunista fedele, fece parte della scorta di accompagnamento e il Moretti non si sarebbe mosso senza aver almeno avvertito il partito o meglio ancora forse si mosse proprio su ordini del partito).

Quindi al Comando Generale del CVL di Milano e al Pci sono al corrente di questo trasferimento.

[ 14 ] Per il “ documenti Cova ” vedesi: Archivio del Civico Museo del Risorgimento e di Storia contemporanea, Milano, documento n. 49.883, Milano, 30 aprile 1945 “ Autopsia di Benito Mussolini eseguita dal dottor Pierluigi Cova ”. Ampi stralci si trovano in F. Bernini: “ Sul selciato di Piazzale Loreto ” Grafica MA.RO Editrice, 2001.

Il Cova Villoresi sembra che consegnò questo documento nel 1994 al Museo del Risorgimento di Milano. Egli asserì in seguito di esser stato richiesto, in qualità di aiuto per le operazioni autoptiche, dal Cattabeni stesso e di aver denudato i cadaveri (sosterrà anche di aver partecipato ad eseguire l'autopsia, ma sembra alquanto inverosimile che il prof. Cattabeni abbia fatto eseguire l'autopsia a questo medico estraneo all'Istituto di Medicina Legale). Guarda caso non riporta appunti, che sarebbero stati importantissimi, sullo stato del vestiario in merito ai fori da armi da sparo e per le deduzioni metrico balistiche, né alcuna nota sulla rigidità cadaverica. Abbonda invece in note di cronaca storica, esaltanti i giorni della Liberazione.

I particolari riferiti e soprattutto il carattere stringato di come vennero contate le ferite mortali del Duce (in modo da non consentire troppe illazioni), fecero accogliere questo documento dalla letteratura resistenziale con grande entusiasmo, tanto da considerarlo addirittura più importante dello storico verbale autoptico del professor Cattabeni (sic!).

Da varie indicazioni riportate nel testo, si può dedurre che la Relazione del Cova venne stilata, forse su suoi appunti presi durante la necroscopia, molte ore dopo il termine dell'autopsia, probabilmente la sera, certamente dopo l'edizione dell' Unità! dello stesso mattino del 30 aprile '45 che riportava la prima sintetica versione sull'uccisione del Duce da parte di un anonimo “giustiziere”, scrivendo: << Da una distanza di tre passi feci partire cinque colpi contro Mussolini, che si accasciò sulle ginocchia con la testa leggermente reclinata sul petto. Poi fu la volta della Petacci. Giustizia era fatta .>>.

Ma questo non è neppure certo, visto che si potrebbe anche ipotizzare che il Cova potrebbe aver compilato detto verbale in un imprecisato periodo successivo, pur datandolo 30 aprile '45, cioè il giorno della necroscopia di Cattabeni, conformandosi perfettamente alla “versione” dell' Unità!.

[ 15 ] A. Fontana: Intervista al dott. Cova Villoresi, su Italia Tricolore per la Terza Repubblica , Nri vari anno 2005. Da notare che il Cova, al momento dell'intervista, non era al corrente delle inchieste di Pisanò.

http://www.corrierecaraibi.com/FIRME_MBarozzi_100904_Morte-di-Mussolini-Gli-ultimi-fautori-della-Vulgata.htm

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