martedì 17 agosto 2010
La massoneria e la conquista del sud
di: Francesco Moricca
Quanto il Lettore si appresta a leggere non deve essere inteso come una mera recriminazione, e come un sostegno su basi storiche alle velleità separatistiche che si sono cominciate a diffondere nel Meridione a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, quale effetto speculare dell’affermazione al Nord della Lega di Bossi e del suo teorico Miglio.
Chi scrive è convinto dell’intangibilità dell’Unità, quanto del fatto che essa si sia realizzata nel peggiore dei modi possibili, cioè per volontà di una forza straniera – l’internazionale massonica –sostanzialmente nemica mortale dell’idea di nazione, e che di essa si servì unicamente per scalzare quanto restava della “vecchia” Europa dopo la Rivoluzione francese. Questa “vecchia” Europa rispettava e tutelava proprio ciò che è indispensabile per la nazione, cioè la tradizione e l’identità culturale che avevano il loro baluardo nell’impero sovranazionale austriaco, erede del Sacro Romano Impero Germanico, di un impero che si dichiarava, ed era, il legittimo erede di Roma.
Per quanto possa suonare sorprendente, non vi era nessuno in Europa che più di Metternich fosse veramente amico degli Italiani. L’Italia per lui era un’“espressione geografica”, come anche la Germania, perché l’Italia era tutt’uno con Roma e con l’Austria che ne era l’erede storica. Roma rappresentava il cemento culturale dell’Europa, della sua identità “legittima” in quanto fondata su una tradizione bimillenaria che rispettava ed esaltava l’identità concreta dei popoli. La “nazione”, esportata con le armi dalla Rivoluzione francese e propagandata dall’internazionale massonica dopo la sconfitta di Napoleone, intendeva invece annullare la tradizione romana, ridurre a puri nomi le cosiddette “patrie”, per farne entità territoriali artificiali da mantenere disunite, sempre potenzialmente contrapposte, facili prede del capitalismo internazionale.
La massoneria aveva due teste, quella francese e quella inglese. Se Metternich al Congresso di Vienna aveva assecondato il gioco di Talleyrand, era perché la restaurazione della monarchia in Francia sarebbe stata una buona garanzia contro la ripresa del bonapartismo, quello al momento più pericoloso. Se esso era stato battuto, e con molta fatica, il merito era stato soprattutto dell’Inghilterra, le cui logge non potevano tollerare la supremazia di quelle francesi, con l’imperialismo che avevano ereditato da Luigi XIV e che, col successore, aveva condotto alla Guerra dei Sette Anni, il primo conflitto mondiale della storia moderna e contemporanea. Metternich sapeva che contro la massoneria inglese non vi era nulla da fare, e aveva visto giusto proprio per quanto avrebbe interessato la genesi del Risorgimento italiano.
Si vuole qui richiamare l’attenzione del Lettore su tre fatti che confermano le tesi sostenute su cui si ritornerà in un prossimo articolo. In primo luogo, Mussolini intese a fondo la lezione di Metternich quando decise di mettere fuori legge la massoneria. In secondo luogo, egli, come Metternich, inquadrò il concetto di nazione italiana nei termini della continuità dell’Impero Romano. In terzo luogo, garantì l’integrità territoriale dell’Austria fin quando non gli fu chiaro il disegno politico del III Reich, che era il medesimo che egli stesso perseguiva, fatti salvi gli interessi italiani nel Mediterraneo, gli stessi dell’ex Regno delle Due Sicilie nell’Ottocento, e che l’Inghilterra aveva preso a insidiare col pretesto di “aiutare” il Borbone cacciato dai Francesi da Napoli e costretto a riparare in Sicilia.
Circa il ruolo determinante che la massoneria ebbe nella storia del Risorgimento, dopo la sconfitta subita nella Prima Guerra d’Indipendenza (l’unica, è da dire, in cui gli Italiani fecero tutto da soli), dobbiamo ricordare che i principali artefici dell’Unità erano tutti massoni e, in ultima istanza, dovevano adeguarsi alla volontà del Gran Maestro Venerabile della Gran Loggia di Londra Albert Pike e dell’alto iniziato, nonché ministro degli Esteri di SM britannica, Lord Palmerston.
Mazzini, durante il suo esilio londinese, diventò assai presto uno dei discepoli di Pike. Nel 1864 il Grande Oriente di Palermo gli assegnò il 33° grado e quattro anni dopo fu proclamato Venerabile Perpetuo ad honorem della Loggia “Lincon” di Lodi e proposto alla carica di Gran Maestro. Fu anche nominato membro onorario della Loggia “Stella d’Italia” di Genova. Nel 1870 fu membro della Loggia “La Ragione” del “Grande Oriente” (“Dictionnaire Universel de la Franc-Maconnerie”, T. II, 1974).
Cavour si formò in Inghilterra e prendeva ordini da Pike per tramite di Palmerston. Secondo l’“Acacia massonica” del febbraio-marzo 1849 (p.81), era il capo supremo della massoneria italiana. La partecipazione del Piemonte alla Guerra di Crimea fu decisa nella Gran Loggia di Londra. Quanto al suo grande amico Napoleone III, sappiamo che il II Impero era sostenuto dalle logge, che Luigi Napoleone si era affiliato alla Carboneria a Roma, che l’attentato di Orsini, ispirato da Mazzini, “gli ricordò un po’bruscamente il suo giuramento prima della campagna d’Italia (del 1859)” (“Histoire Politique de la Franc-Maconnerie”, 1958, p.15).
Garibaldi fu affiliato a Marsiglia alla “Giovine Italia” da Mazzini e fu membro della sezione di Rio de Janeiro della stessa. Si iscrisse alla Massoneria a Montevideo nel 1844. Ebbe il 33° grado nella Loggia di Torino nel 1862, e nel 1881 la nomina di Gran Hierofante del Rito Egiziano del “Menphis-Misraim”. Il Grande Oriente di Palermo lo insignì del 33° grado in un rito celebrato da Francesco Crispi coadiuvato da altri cinque dignitari della setta. Appena giunto a Palermo durante la Spedizione dei Mille, finanziata dalla massoneria inglese con una somma pari a diversi milioni di dollari in moneta attuale, sottrasse al Banco di Sicilia cinque milioni di ducati e ordinò il saccheggio di tutte le chiese e di quanto di prezioso fosse a portata di mano. In una lettera a Cavour Vittorio Emanuele II scrisse: “Questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge”. Ne è prova quanto è successo a Capua “e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che si è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.
La massoneria siciliana stava preparando da anni, dietro istigazione della centrale londinese, l’invasione dell’isola e aveva arruolato il fior fiore della delinquenza locale, quei “picciotti” che daranno poi vita alla mafia. Non si dimentichi ancora che Garibaldi mandò Bixio a Bronte a sterminare i contadini che avevano occupato i feudi concessi a nobili inglesi da Ferdinando IV di Borbone (peraltro questi aveva concesso all’Inghilterra, sempre a titolo di ricompensa per l’aiuto prestatogli durante il periodo napoleonico, lo sfruttamento delle miniere di zolfo siciliane e il possesso di Malta). L’attività repressiva dei garibaldini, colpì altre località siciliane oltre Bronte.
Siccome le Guerre di Indipendenza avevano provocato un notevole indebitamento del Piemonte con le banche inglesi, la conquista del florido Regno delle Due Sicilie rappresentava, al di là dell’alta strategia politica delle logge, un affare di grande rilevanza economica.
E’quindi giunto il momento di esaminare le condizioni del Regno prima della conquista.
Alcuni dati statistici ci permettono subito .di farci un quadro d’insieme alquanto significativo. Francesco Saverio Nitti, nel suo trattato sulle “Scienze delle finanze” (Pierro, 1903, p.292), riferisce che il totale della disponibilità monetaria del Regno d’Italia all’atto della proclamazione ammontava a 668,4 milioni di cui 443,2 provenivano dalle Due Sicilie. Il Regno di Sardegna e la Lombardia arrivavano complessivamente a 35,1 milioni, di cui solo 8,1 appartenevano alla Lombardia. La Lombardia era notevolmente più povera del Lazio, che possedeva 35,3 milioni.
Gli addetti all’industria nelle Due Sicilie erano1.595.359 contro gli 841.958 del Piemonte e della Lombardia.
I contadini delle Due Sicilie erano 3.133.261 contro i 2.587.134 del Piemonte e della Lombardia.
I commercianti delle Due Sicilie erano 272.060 contro i 222.665 del Piemonte e della Lombarda..
Napoli contava 447.065 abitanti, Torino 204.715, Milano 196.109.
La Marina mercantile napoletana era la seconda del mondo dopo quella inglese, quella militare era al terzo posto dopo quella inglese e francese. Moltissime erano le compagnie di navigazione e numerosi i cantieri navali con maestranze assai qualificate. Le industrie metalmeccaniche erano di tutto rispetto per i tempi, famose quelle di Mongiana in Calabria e soprattutto quelle di Pietrarsa, che impiegavano con l’indotto 8000 operai. La ferrovia Napoli-Portici fu la prima ad essere costruita in Italia. Le ferriere calabresi, con 1500 addetti, erano organizzate sul modello dei falansteri di Fourier, come anche la piccola industria tessile di San Leucio. Gli operai lavoravano otto ore al giorno e avevano diritto alla pensione statale. Le banche napoletane, per iniziativa dello stato, furono autorizzate ad emettere i “polizzini” sulle fedi di credito: erano i primi assegni bancari della storia economica. Nella conferenza internazionale di Parigi del 1856 il Regno delle Due Sicilie, che allora contava 9.117.050 abitanti, fu riconosciuto come terza potenza industriale del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia. Le grandi opere di bonifica del territorio davano lavoro a moltissimi operai e contadini, mentre esistevano “stabilimenti diversi di beneficenza”, “monti pecuniari e frumentari” “casse agrarie e di prestanza” e “asili infantili” (cfr. “Almanacco Reale del Regno delle Due Sicilie”,1854). I Borbone curarono lo sviluppo delle Università, istituirono accademie culturali di vario genere e fondarono scuole militari come la celebre Nunziatella ancora esistente. Con la fabbrica tessile di San Leucio si ebbe la prima repubblica operaia e socialista del mondo. La disoccupazione era praticamente assente, non esisteva la criminalità organizzata e l’emigrazione.
In definitiva, e a prescindere dai primati in campo economico, ci troviamo di fronte il quadro di una società assai ben organizzata, laboriosa e fatta di uomini interiormente disciplinati.
Nonostante la tragedia della conquista piemontese che provocò complessivamente l’emigrazione nelle Americhe di 20 milioni di persone e la distruzione dello stato sociale edificato dai Borbone in poco più di un secolo, il popolo meridionale era ancora un popolo sano negli anni 1935 – 1941, secondo la descrizione offertane nella conclusione di un rapporto segreto delle SS sulla situazione interna dell’Italia e sui difetti del fascismo, conclusione che riguarda specificamente la Questione meridionale.Vi si legge: “Il contadino (del Sud) è un ottimo lavoratore, sobrio, risparmiatore, onesto. Le maggiori opere dell’Impero sono opera di maestranze sicule, calabresi e pugliesi, che hanno fatto miracoli sotto un calore di 50 gradi” (cfr. “Storia Illustrata”, n.272, 1980, p.122).
Questo popolo è oggi diventato tutt’altra cosa per l’azione corrosiva e inquinatrice dei costumi ad opera della criminalità organizzata e della massoneria che in effetti la controlla e protegge. La mafia è stata creata e incentivata dai Piemontesi e innalzata dal piemontese Giolitti a forza politica di peso elettorale determinante. E’stata reintrodotta e ulteriormente potenziata, dopo la parentesi del Ventennio, dagli Statunitensi che le hanno affidato il compito di coadiutrice della Nato nel controllo del settore centro meridionale del Mediterraneo.
Certi leghisti del Sud dovrebbero tenere nel massimo conto questo fatto che tronca alla radice ogni loro illusione circa un salutare ritorno alle glorie del passato borbonico. Di quel che furono le Due Sicilie non resta più niente e un Meridione “indipendente” non farebbe che aggravare l’odierna situazione e la corruzione profonda che si è diffusa a macchia d’olio non solo nel Sud in sessant’anni di regime repubblicano, una degenerazione senza precedenti e assai probabilmente irreversibile.
Quel che segue circa gli eventi e gli aspetti più spaventosi della conquista piemontese ha valore in quanto distrugge dei falsi miti e ristabilisce la cruda verità storica, senza sciocchi sentimentalismi, senza recriminazioni orientate all’assurda richiesta di “risarcimenti” morali e materiali, quali pretenderebbero alcuni esagitati leghisti meridionali seguendo l’esempio del libico Gheddafi.
Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, tradito e abbandonato da tutte le potenze europee e persino dalla Francia che fingeva di appoggiarlo, ebbe a dire amaramente ai superstiti di una città rasa letteralmente al suolo dalle artiglierie sabaude: “Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.
E infatti fra il 1861 e il 1870 i Piemontesi depredarono tutto quanto vi era da depredare. Si impadronirono dell’erario, svuotarono le casse dei Comuni, quelle della banche, quelle dei contadini, quelle delle comunità religiose e dei conventi, e portarono via dalle chiese gli arredi sacri di valore, fossero opere d’arte o oggetti d’oro. I macchinari delle fabbriche furono smontati e rimontati al Nord. Nelle tasche dei massoni sabaudi e filo-sabaudi entrarono circa 1. 200.000.000 di lire ricavato dalla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali delle Due Sicilie, da sempre, questi ultimi, a disposizione dei contadini e dei pastori. Le terre demaniali, nella misura di 700.000 ettari, furono vendute a prezzi stracciati ai fratelli delle logge del Sud, collaborazionisti e traditori del proprio re.
Così – scrive Vittorio Gleijeses – “il tesoro del Regno delle Due Sicilie rinsanguò le finanze del nuovo stato (unitario) (…) in quanto il Piemonte e la Toscana erano indebitati sino ai capelli ed il regno sardo era in pieno fallimento. L’ex Regno delle Due Sicilie, quindi, (…) (fu) oppresso dal severissimo sistema fiscale savoiardo, fu declassato quasi a livello di colonia. Con l’unificazione, a Napoli, aumentarono le imposte e le tasse, mentre i piemontesi videro ridotti i loro imponibili e col denaro rubato al Sud poterono incrementare le loro industrie e il loro commercio” (“La storia di Napoli”, 3 voll., 1981).
Tutto ciò non poteva non suscitare una violenta reazione popolare, la cruentissima guerra di popolo contro l’invasore bollata come “brigantaggio”, una guerra che durò quasi dieci anni e che, dietro suggerimento di Albert Pike, doveva assumere tutti i connotati di una pulizia etnica e di un genocidio programmato. I giornali di regime, controllati per la maggior parte dalla massoneria, offrivano dei fatti una versione assai edulcorata, minimizzavano le vittorie dei guerriglieri napoletani e gonfiavano le vittorie dei savoiardi. In realtà, città indifese furono cannoneggiate a solo scopo terroristico, furono dati alle fiamme campi e case coloniche, uccisi a colpi di baionetta giovani e preti soltanto sospettati di favorire i ribelli, violentate e poi sgozzate donne incinte. Non furono nemmeno risparmiati i bambini e i vecchi. La fucilazione in massa divenne una pratica quasi quotidiana e nei dieci anni di guerra civile, secondo taluni, circa un milione di contadini furono abbattuti.
Alcuni giornali stranieri pubblicarono tuttavia dati significativi, per quanto li si possa considerare sottostimati. Dal settembre 1860 all’agosto 1861, per esempio, nel primo anno di guerra, vi furono 8.968 fucilati,10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti, 22 frati, 60 ragazzi e 50 donne uccisi, 13.529 arrestati, 918 case incendiate e 6 paesi dati alle fiamme, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 1.428 Comuni commissariati.
Le perdite umane, in quasi dieci anni di guerra, supererebbero secondo certe fonti largamente il milione, fra fucilati, incarcerati, deportati, rinchiusi nei manicomi perché effettivamente impazziti o perché dichiarati tali.
La Questione Meridionale secondo il rapporto della SS
Il rapporto sulla situazione interna dell’Italia fascista prima della guerra fu redatto dal colonnello Likus delle SS, funzionario del ministero degli Esteri alle dirette dipendenze di Ribbentrop, e fu scritto in italiano perché molto probabilmente doveva esser letto da Mussolini in persona (per quanto riguarda le vicende del rapporto e il personaggio di Likus, cfr. “Storia illustrata”, n.270, maggio 1980, pp. 13-14). Likus, come già detto, aveva un giudizio molto positivo sul popolo meridionale e per caratteristiche antropologiche e culturali lo riteneva del tutto uguale al popolo del resto d’Italia. La differenza però esisteva “nei ceti medi e nei dirigenti, gli unici che abbiano quei difetti che si imputano all’intero popolo (del Sud)”. “I benestanti e i dirigenti – afferma il colonnello – risentono dei costumi lasciati prima dagli angioini, poi dagli spagnoli: mancano di senso sociale e di responsabilità, di cultura e di onestà. Essi sono i maggiori denigratori del loro popolo, che taglieggiano volendo vivere senza far nulla”.
Anche i Borbone, secondo Likus, avrebbero avuto la loro parte di responsabilità nel tollerare le malefatte della classe dirigente meridionale. Ma questo, atteso quanto si è detto, non può esser condiviso per intero. Bisogna aggiungere che già gli Aragonesi avevano combattuto energicamente lo strapotere baronale nel XV secolo; che Carlo III di Borbone aveva contro di esso mobilitato tutte le risorse del dispotismo illuminato; che Ferdinando IV non aveva esitato a incamerare buona parte dei beni ecclesiastici, per creare quella Cassa Sacra che sarebbe servita a riparare le enormi distruzioni causate in Calabria dal terremoto catastrofico del 1783. Con ciò aveva intaccato il potere dei preti, che avevano nella classe dirigente delle Due Sicilie un ruolo rilevante quanto quello baronale. Da considerare anche il disprezzo che Ferdinando II nutriva, con rare eccezioni, verso gli aristocratici del regno. Quando si arrabbiava con loro, si racconta che si esprimesse con un gioco di parole che opponeva alla tracotanza aristocratica la minaccia di farsi giacobino: “Fo tutti baroni”, diceva stizzito. Non poteva poi assolutamente sopportare la genia dei “paglietti”, che erano gli avvocati napoletani, tutti per lui liberali e massoni incalliti, mestatori della peggior risma che si servivano della giurisprudenza non certo al servizio della vera giustizia. In realtà Ferdinando, con tutta la sua buona volontà, non poteva eliminare la tendenza alla sopraffazione e all’intrigo che era comune alla classe dirigente di tutta l’Italia, e non solo. Likus riconosce ciò che il fascismo aveva fatto per la modernizzazione del Sud: “Dove è sorta un’industria ben guidata sono anche cresciute maestranze intelligenti, capaci, oneste, laboriose e pulite. Il problema quindi è di creare delle gerarchie che non siano locali. Purtroppo il Duce è caduto nell’errore di alimentare l’immissione dei meridionali nella burocrazia. E’ notevole il caso della Sicilia, dove prefetti, magistrati, gerarchie sonno tutti siciliani”. Infine Likus nota amaramente che “attualmente il direttorio del partito è nella maggioranza meridionale”, e ciò ha causato “quelle deficienze che hanno minato l’opera del fascismo”.Quanto il Lettore si appresta a leggere non deve essere inteso come una mera recriminazione, e come un sostegno su basi storiche alle velleità separatistiche che si sono cominciate a diffondere nel Meridione a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, quale effetto speculare dell’affermazione al Nord della Lega di Bossi e del suo teorico Miglio.
Chi scrive è convinto dell’intangibilità dell’Unità, quanto del fatto che essa si sia realizzata nel peggiore dei modi possibili, cioè per volontà di una forza straniera – l’internazionale massonica –sostanzialmente nemica mortale dell’idea di nazione, e che di essa si servì unicamente per scalzare quanto restava della “vecchia” Europa dopo la Rivoluzione francese. Questa “vecchia” Europa rispettava e tutelava proprio ciò che è indispensabile per la nazione, cioè la tradizione e l’identità culturale che avevano il loro baluardo nell’impero sovranazionale austriaco, erede del Sacro Romano Impero Germanico, di un impero che si dichiarava, ed era, il legittimo erede di Roma.
Per quanto possa suonare sorprendente, non vi era nessuno in Europa che più di Metternich fosse veramente amico degli Italiani. L’Italia per lui era un’“espressione geografica”, come anche la Germania, perché l’Italia era tutt’uno con Roma e con l’Austria che ne era l’erede storica. Roma rappresentava il cemento culturale dell’Europa, della sua identità “legittima” in quanto fondata su una tradizione bimillenaria che rispettava ed esaltava l’identità concreta dei popoli. La “nazione”, esportata con le armi dalla Rivoluzione francese e propagandata dall’internazionale massonica dopo la sconfitta di Napoleone, intendeva invece annullare la tradizione romana, ridurre a puri nomi le cosiddette “patrie”, per farne entità territoriali artificiali da mantenere disunite, sempre potenzialmente contrapposte, facili prede del capitalismo internazionale.
La massoneria aveva due teste, quella francese e quella inglese. Se Metternich al Congresso di Vienna aveva assecondato il gioco di Talleyrand, era perché la restaurazione della monarchia in Francia sarebbe stata una buona garanzia contro la ripresa del bonapartismo, quello al momento più pericoloso. Se esso era stato battuto, e con molta fatica, il merito era stato soprattutto dell’Inghilterra, le cui logge non potevano tollerare la supremazia di quelle francesi, con l’imperialismo che avevano ereditato da Luigi XIV e che, col successore, aveva condotto alla Guerra dei Sette Anni, il primo conflitto mondiale della storia moderna e contemporanea. Metternich sapeva che contro la massoneria inglese non vi era nulla da fare, e aveva visto giusto proprio per quanto avrebbe interessato la genesi del Risorgimento italiano.
Si vuole qui richiamare l’attenzione del Lettore su tre fatti che confermano le tesi sostenute su cui si ritornerà in un prossimo articolo. In primo luogo, Mussolini intese a fondo la lezione di Metternich quando decise di mettere fuori legge la massoneria. In secondo luogo, egli, come Metternich, inquadrò il concetto di nazione italiana nei termini della continuità dell’Impero Romano. In terzo luogo, garantì l’integrità territoriale dell’Austria fin quando non gli fu chiaro il disegno politico del III Reich, che era il medesimo che egli stesso perseguiva, fatti salvi gli interessi italiani nel Mediterraneo, gli stessi dell’ex Regno delle Due Sicilie nell’Ottocento, e che l’Inghilterra aveva preso a insidiare col pretesto di “aiutare” il Borbone cacciato dai Francesi da Napoli e costretto a riparare in Sicilia.
Circa il ruolo determinante che la massoneria ebbe nella storia del Risorgimento, dopo la sconfitta subita nella Prima Guerra d’Indipendenza (l’unica, è da dire, in cui gli Italiani fecero tutto da soli), dobbiamo ricordare che i principali artefici dell’Unità erano tutti massoni e, in ultima istanza, dovevano adeguarsi alla volontà del Gran Maestro Venerabile della Gran Loggia di Londra Albert Pike e dell’alto iniziato, nonché ministro degli Esteri di SM britannica, Lord Palmerston.
Mazzini, durante il suo esilio londinese, diventò assai presto uno dei discepoli di Pike. Nel 1864 il Grande Oriente di Palermo gli assegnò il 33° grado e quattro anni dopo fu proclamato Venerabile Perpetuo ad honorem della Loggia “Lincon” di Lodi e proposto alla carica di Gran Maestro. Fu anche nominato membro onorario della Loggia “Stella d’Italia” di Genova. Nel 1870 fu membro della Loggia “La Ragione” del “Grande Oriente” (“Dictionnaire Universel de la Franc-Maconnerie”, T. II, 1974).
Cavour si formò in Inghilterra e prendeva ordini da Pike per tramite di Palmerston. Secondo l’“Acacia massonica” del febbraio-marzo 1849 (p.81), era il capo supremo della massoneria italiana. La partecipazione del Piemonte alla Guerra di Crimea fu decisa nella Gran Loggia di Londra. Quanto al suo grande amico Napoleone III, sappiamo che il II Impero era sostenuto dalle logge, che Luigi Napoleone si era affiliato alla Carboneria a Roma, che l’attentato di Orsini, ispirato da Mazzini, “gli ricordò un po’bruscamente il suo giuramento prima della campagna d’Italia (del 1859)” (“Histoire Politique de la Franc-Maconnerie”, 1958, p.15).
Garibaldi fu affiliato a Marsiglia alla “Giovine Italia” da Mazzini e fu membro della sezione di Rio de Janeiro della stessa. Si iscrisse alla Massoneria a Montevideo nel 1844. Ebbe il 33° grado nella Loggia di Torino nel 1862, e nel 1881 la nomina di Gran Hierofante del Rito Egiziano del “Menphis-Misraim”. Il Grande Oriente di Palermo lo insignì del 33° grado in un rito celebrato da Francesco Crispi coadiuvato da altri cinque dignitari della setta. Appena giunto a Palermo durante la Spedizione dei Mille, finanziata dalla massoneria inglese con una somma pari a diversi milioni di dollari in moneta attuale, sottrasse al Banco di Sicilia cinque milioni di ducati e ordinò il saccheggio di tutte le chiese e di quanto di prezioso fosse a portata di mano. In una lettera a Cavour Vittorio Emanuele II scrisse: “Questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge”. Ne è prova quanto è successo a Capua “e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che si è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”.
La massoneria siciliana stava preparando da anni, dietro istigazione della centrale londinese, l’invasione dell’isola e aveva arruolato il fior fiore della delinquenza locale, quei “picciotti” che daranno poi vita alla mafia. Non si dimentichi ancora che Garibaldi mandò Bixio a Bronte a sterminare i contadini che avevano occupato i feudi concessi a nobili inglesi da Ferdinando IV di Borbone (peraltro questi aveva concesso all’Inghilterra, sempre a titolo di ricompensa per l’aiuto prestatogli durante il periodo napoleonico, lo sfruttamento delle miniere di zolfo siciliane e il possesso di Malta). L’attività repressiva dei garibaldini, colpì altre località siciliane oltre Bronte.
Siccome le Guerre di Indipendenza avevano provocato un notevole indebitamento del Piemonte con le banche inglesi, la conquista del florido Regno delle Due Sicilie rappresentava, al di là dell’alta strategia politica delle logge, un affare di grande rilevanza economica.
E’quindi giunto il momento di esaminare le condizioni del Regno prima della conquista.
Alcuni dati statistici ci permettono subito .di farci un quadro d’insieme alquanto significativo. Francesco Saverio Nitti, nel suo trattato sulle “Scienze delle finanze” (Pierro, 1903, p.292), riferisce che il totale della disponibilità monetaria del Regno d’Italia all’atto della proclamazione ammontava a 668,4 milioni di cui 443,2 provenivano dalle Due Sicilie. Il Regno di Sardegna e la Lombardia arrivavano complessivamente a 35,1 milioni, di cui solo 8,1 appartenevano alla Lombardia. La Lombardia era notevolmente più povera del Lazio, che possedeva 35,3 milioni.
Gli addetti all’industria nelle Due Sicilie erano1.595.359 contro gli 841.958 del Piemonte e della Lombardia.
I contadini delle Due Sicilie erano 3.133.261 contro i 2.587.134 del Piemonte e della Lombardia.
I commercianti delle Due Sicilie erano 272.060 contro i 222.665 del Piemonte e della Lombarda..
Napoli contava 447.065 abitanti, Torino 204.715, Milano 196.109.
La Marina mercantile napoletana era la seconda del mondo dopo quella inglese, quella militare era al terzo posto dopo quella inglese e francese. Moltissime erano le compagnie di navigazione e numerosi i cantieri navali con maestranze assai qualificate. Le industrie metalmeccaniche erano di tutto rispetto per i tempi, famose quelle di Mongiana in Calabria e soprattutto quelle di Pietrarsa, che impiegavano con l’indotto 8000 operai. La ferrovia Napoli-Portici fu la prima ad essere costruita in Italia. Le ferriere calabresi, con 1500 addetti, erano organizzate sul modello dei falansteri di Fourier, come anche la piccola industria tessile di San Leucio. Gli operai lavoravano otto ore al giorno e avevano diritto alla pensione statale. Le banche napoletane, per iniziativa dello stato, furono autorizzate ad emettere i “polizzini” sulle fedi di credito: erano i primi assegni bancari della storia economica. Nella conferenza internazionale di Parigi del 1856 il Regno delle Due Sicilie, che allora contava 9.117.050 abitanti, fu riconosciuto come terza potenza industriale del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia. Le grandi opere di bonifica del territorio davano lavoro a moltissimi operai e contadini, mentre esistevano “stabilimenti diversi di beneficenza”, “monti pecuniari e frumentari” “casse agrarie e di prestanza” e “asili infantili” (cfr. “Almanacco Reale del Regno delle Due Sicilie”,1854). I Borbone curarono lo sviluppo delle Università, istituirono accademie culturali di vario genere e fondarono scuole militari come la celebre Nunziatella ancora esistente. Con la fabbrica tessile di San Leucio si ebbe la prima repubblica operaia e socialista del mondo. La disoccupazione era praticamente assente, non esisteva la criminalità organizzata e l’emigrazione.
In definitiva, e a prescindere dai primati in campo economico, ci troviamo di fronte il quadro di una società assai ben organizzata, laboriosa e fatta di uomini interiormente disciplinati.
Nonostante la tragedia della conquista piemontese che provocò complessivamente l’emigrazione nelle Americhe di 20 milioni di persone e la distruzione dello stato sociale edificato dai Borbone in poco più di un secolo, il popolo meridionale era ancora un popolo sano negli anni 1935 – 1941, secondo la descrizione offertane nella conclusione di un rapporto segreto delle SS sulla situazione interna dell’Italia e sui difetti del fascismo, conclusione che riguarda specificamente la Questione meridionale.Vi si legge: “Il contadino (del Sud) è un ottimo lavoratore, sobrio, risparmiatore, onesto. Le maggiori opere dell’Impero sono opera di maestranze sicule, calabresi e pugliesi, che hanno fatto miracoli sotto un calore di 50 gradi” (cfr. “Storia Illustrata”, n.272, 1980, p.122).
Questo popolo è oggi diventato tutt’altra cosa per l’azione corrosiva e inquinatrice dei costumi ad opera della criminalità organizzata e della massoneria che in effetti la controlla e protegge. La mafia è stata creata e incentivata dai Piemontesi e innalzata dal piemontese Giolitti a forza politica di peso elettorale determinante. E’stata reintrodotta e ulteriormente potenziata, dopo la parentesi del Ventennio, dagli Statunitensi che le hanno affidato il compito di coadiutrice della Nato nel controllo del settore centro meridionale del Mediterraneo.
Certi leghisti del Sud dovrebbero tenere nel massimo conto questo fatto che tronca alla radice ogni loro illusione circa un salutare ritorno alle glorie del passato borbonico. Di quel che furono le Due Sicilie non resta più niente e un Meridione “indipendente” non farebbe che aggravare l’odierna situazione e la corruzione profonda che si è diffusa a macchia d’olio non solo nel Sud in sessant’anni di regime repubblicano, una degenerazione senza precedenti e assai probabilmente irreversibile.
Quel che segue circa gli eventi e gli aspetti più spaventosi della conquista piemontese ha valore in quanto distrugge dei falsi miti e ristabilisce la cruda verità storica, senza sciocchi sentimentalismi, senza recriminazioni orientate all’assurda richiesta di “risarcimenti” morali e materiali, quali pretenderebbero alcuni esagitati leghisti meridionali seguendo l’esempio del libico Gheddafi.
Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, tradito e abbandonato da tutte le potenze europee e persino dalla Francia che fingeva di appoggiarlo, ebbe a dire amaramente ai superstiti di una città rasa letteralmente al suolo dalle artiglierie sabaude: “Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”.
E infatti fra il 1861 e il 1870 i Piemontesi depredarono tutto quanto vi era da depredare. Si impadronirono dell’erario, svuotarono le casse dei Comuni, quelle della banche, quelle dei contadini, quelle delle comunità religiose e dei conventi, e portarono via dalle chiese gli arredi sacri di valore, fossero opere d’arte o oggetti d’oro. I macchinari delle fabbriche furono smontati e rimontati al Nord. Nelle tasche dei massoni sabaudi e filo-sabaudi entrarono circa 1. 200.000.000 di lire ricavato dalla vendita dei beni ecclesiastici e demaniali delle Due Sicilie, da sempre, questi ultimi, a disposizione dei contadini e dei pastori. Le terre demaniali, nella misura di 700.000 ettari, furono vendute a prezzi stracciati ai fratelli delle logge del Sud, collaborazionisti e traditori del proprio re.
Così – scrive Vittorio Gleijeses – “il tesoro del Regno delle Due Sicilie rinsanguò le finanze del nuovo stato (unitario) (…) in quanto il Piemonte e la Toscana erano indebitati sino ai capelli ed il regno sardo era in pieno fallimento. L’ex Regno delle Due Sicilie, quindi, (…) (fu) oppresso dal severissimo sistema fiscale savoiardo, fu declassato quasi a livello di colonia. Con l’unificazione, a Napoli, aumentarono le imposte e le tasse, mentre i piemontesi videro ridotti i loro imponibili e col denaro rubato al Sud poterono incrementare le loro industrie e il loro commercio” (“La storia di Napoli”, 3 voll., 1981).
Tutto ciò non poteva non suscitare una violenta reazione popolare, la cruentissima guerra di popolo contro l’invasore bollata come “brigantaggio”, una guerra che durò quasi dieci anni e che, dietro suggerimento di Albert Pike, doveva assumere tutti i connotati di una pulizia etnica e di un genocidio programmato. I giornali di regime, controllati per la maggior parte dalla massoneria, offrivano dei fatti una versione assai edulcorata, minimizzavano le vittorie dei guerriglieri napoletani e gonfiavano le vittorie dei savoiardi. In realtà, città indifese furono cannoneggiate a solo scopo terroristico, furono dati alle fiamme campi e case coloniche, uccisi a colpi di baionetta giovani e preti soltanto sospettati di favorire i ribelli, violentate e poi sgozzate donne incinte. Non furono nemmeno risparmiati i bambini e i vecchi. La fucilazione in massa divenne una pratica quasi quotidiana e nei dieci anni di guerra civile, secondo taluni, circa un milione di contadini furono abbattuti.
Alcuni giornali stranieri pubblicarono tuttavia dati significativi, per quanto li si possa considerare sottostimati. Dal settembre 1860 all’agosto 1861, per esempio, nel primo anno di guerra, vi furono 8.968 fucilati,10.604 feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti, 22 frati, 60 ragazzi e 50 donne uccisi, 13.529 arrestati, 918 case incendiate e 6 paesi dati alle fiamme, 3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 1.428 Comuni commissariati.
Le perdite umane, in quasi dieci anni di guerra, supererebbero secondo certe fonti largamente il milione, fra fucilati, incarcerati, deportati, rinchiusi nei manicomi perché effettivamente impazziti o perché dichiarati tali.
La Questione Meridionale secondo il rapporto della SS
Il rapporto sulla situazione interna dell’Italia fascista prima della guerra fu redatto dal colonnello Likus delle SS, funzionario del ministero degli Esteri alle dirette dipendenze di Ribbentrop, e fu scritto in italiano perché molto probabilmente doveva esser letto da Mussolini in persona (per quanto riguarda le vicende del rapporto e il personaggio di Likus, cfr. “Storia illustrata”, n.270, maggio 1980, pp. 13-14). Likus, come già detto, aveva un giudizio molto positivo sul popolo meridionale e per caratteristiche antropologiche e culturali lo riteneva del tutto uguale al popolo del resto d’Italia. La differenza però esisteva “nei ceti medi e nei dirigenti, gli unici che abbiano quei difetti che si imputano all’intero popolo (del Sud)”. “I benestanti e i dirigenti – afferma il colonnello – risentono dei costumi lasciati prima dagli angioini, poi dagli spagnoli: mancano di senso sociale e di responsabilità, di cultura e di onestà. Essi sono i maggiori denigratori del loro popolo, che taglieggiano volendo vivere senza far nulla”.
Anche i Borbone, secondo Likus, avrebbero avuto la loro parte di responsabilità nel tollerare le malefatte della classe dirigente meridionale. Ma questo, atteso quanto si è detto, non può esser condiviso per intero. Bisogna aggiungere che già gli Aragonesi avevano combattuto energicamente lo strapotere baronale nel XV secolo; che Carlo III di Borbone aveva contro di esso mobilitato tutte le risorse del dispotismo illuminato; che Ferdinando IV non aveva esitato a incamerare buona parte dei beni ecclesiastici, per creare quella Cassa Sacra che sarebbe servita a riparare le enormi distruzioni causate in Calabria dal terremoto catastrofico del 1783. Con ciò aveva intaccato il potere dei preti, che avevano nella classe dirigente delle Due Sicilie un ruolo rilevante quanto quello baronale. Da considerare anche il disprezzo che Ferdinando II nutriva, con rare eccezioni, verso gli aristocratici del regno. Quando si arrabbiava con loro, si racconta che si esprimesse con un gioco di parole che opponeva alla tracotanza aristocratica la minaccia di farsi giacobino: “Fo tutti baroni”, diceva stizzito. Non poteva poi assolutamente sopportare la genia dei “paglietti”, che erano gli avvocati napoletani, tutti per lui liberali e massoni incalliti, mestatori della peggior risma che si servivano della giurisprudenza non certo al servizio della vera giustizia. In realtà Ferdinando, con tutta la sua buona volontà, non poteva eliminare la tendenza alla sopraffazione e all’intrigo che era comune alla classe dirigente di tutta l’Italia, e non solo. Likus riconosce ciò che il fascismo aveva fatto per la modernizzazione del Sud: “Dove è sorta un’industria ben guidata sono anche cresciute maestranze intelligenti, capaci, oneste, laboriose e pulite. Il problema quindi è di creare delle gerarchie che non siano locali. Purtroppo il Duce è caduto nell’errore di alimentare l’immissione dei meridionali nella burocrazia. E’ notevole il caso della Sicilia, dove prefetti, magistrati, gerarchie sonno tutti siciliani”. Infine Likus nota amaramente che “attualmente il direttorio del partito è nella maggioranza meridionale”, e ciò ha causato “quelle deficienze che hanno minato l’opera del fascismo”.
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