venerdì 23 luglio 2010

La “Trattativa” in Arcivescovado


di Maurizio Barozzi


(25 APRILE 1945)

22.07.2010 - Il pomeriggio di mercoledì 25 aprile 1945 si tenne nel palazzo della Curia arcivescovile di Milano, sito in piazza Fontana, il famoso incontro tra Mussolini (accompagnato da una delegazione di governo della Repubblica Sociale Italiana) ed i rappresentanti della Resistenza nelle persone di alcuni membri del CLNAI (il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia che rappresentava il governo Bonomi al nord) e del CVL (il Corpo Volontari della Liberta, ovvero il braccio armato della Resistenza), dietro la mediazione del cardinale Ildefonso Schuster, Arcivescovo di Milano, che si era preso l'incarico di organizzarlo.

Ancora oggi gli esatti termini di quell'incontro, le sue prospettive e lo svolgimento dello stesso sono avvolti in una nebulosa rievocazione che impedisce di dargli le giuste valutazioni storiche tanto più che, a seguito del fallimento dell'incontro stesso, almeno sotto certi aspetti, è come se quell'incontro non fosse mai avvenuto.

In genere una storiografia superficiale tende a descrivere, in quei suoi ultimi giorni di vita, un Mussolini che, privo di qualsiasi via di uscita dalla disastrosa situazione bellica in cui si trovava, si reca in Curia allo scopo di trattare la resa, intendendo come tale la resa sia della RSI come governo e Forze Armate e sia la resa delle formazioni del partito fascista.

Se poi consideriamo anche il fatto che tutte le testimonianze in merito a quell'avvenimento sono incongruenti e gli stessi protagonisti tendono a riportare dialoghi e impressioni che più che rispecchiare la verità di quanto esattamente accadde sembrano colorare lo storico incontro con l'esaltazione di un certo ruolo personale o della propria fazione, finendo per rendere tutte le rievocazioni divergenti tra loro, ci rendiamo conto a quale inattendibilità complessiva ci si trova di fronte.

Solo oggi, a 65 anni da quegli eventi, con i lutti, le passioni e certe esigenze politiche, notevolmente stemperate, si può cercare di ricostruire un più obiettivo andamento dei fatti.

E' quello che proveremo a fare con il presente saggio, con l'avvertenza che, in seguito a quanto appena detto, in genere la letteratura in materia presenta numerose contraddizioni ed una sostanziale inattendibilità di fondo che cercheremo di superare con l'incrocio delle testimonianze, il vaglio di qualche documento d'epoca e una più accurata ricostruzione cronologica degli avvenimenti (il testo meno fazioso, seppur non del tutto esaustivo è quello di Alberto Maria Fortuna “ Incontro all'Arcivescovado ”, Sansoni, 1971).

Mussolini pensava ad una resa alle spalle dei tedeschi?

La base di partenza per cercare di orizzontarsi nelle tante ricostruzioni dell'incontro in Arcivescovado è quella di stabilire se Mussolini aveva o meno in mente un segreto proponimento di trattare una resa ed una capitolazione con il CLNAI (e quindi, di fatto, con gli Alleati a cui sarebbe stato consegnato) alle spalle dei tedeschi, proprio come fecero costoro, nei confronti della RSI negli ultimi due mesi di guerra.

Qualcuno, senza alcuna prova, è anche arrivato a sostenere che il generale delle SS Karl Friedrich Otto Wolff e Mussolini, l'uno all'insaputa dell'altro, in quei giorni di fine aprile '45 stavano trattando una loro unilaterale resa al nemico.

Una attenta considerazione di tutte le vicende diplomatiche, politiche e militari che si svilupparono mano a mano che ci si avvicinava alla fine del conflitto, non confermano però eventuali intenzione del Duce di risolvere la sua situazione con una resa unilaterale all'insaputa dei tedeschi, vanificando oltretutto le motivazioni prime per le quali si era costituita la RSI, ovvero quelle di “ voler riscattare l'onore della Nazione infangato dal tradimento badogliano dell'8 settembre ”.

Come scrisse l'ambasciatore di Mussolini, Filippo Anfuso:

<<(Mussolini) mai sino alla sua morte pensò di abbandonare i tedeschi>> (F. Anfuso: “Roma, Berlino, Salò”, Garzanti 1950) .

Solo una lettura superficiale di quanto si riscontra in merito ad inevitabili e naturali traffici e maneggi che sempre si instaurano in tempo di guerra tra le “diplomazie sotterranee” delle nazioni in lotta, può far avanzare una tesi del genere.

Anzi, alcune intercettazioni telefoniche ed epistolari tra Mussolini ed Hitler, che ci sono pervenute, attestano come i due alleati ebbero sovente a discutere di certi “sondaggi” nei confronti degli Alleati e si riscontra anche, da queste intercettazioni, che Hitler era informato, almeno in buona parte, dell'esistenza di un importante e delicato “ Carteggio ” in mano a Mussolini, tale da poter essere sfruttato per indurre Churchill a più miti consigli.

Il Führer, infatti, sembra fosse anche a conoscenza di certe “relazioni” che c'erano state tra il Duce e lo statista britannico, ma sappiamo anche che in quei mesi del 1945 Hitler non era d'accordo, più che altro sulla scelta dei tempi, per i quali far valere quelle documentazioni per indurre Churchill ad uin ribaltamento del fronte contro i sovietici.

In ogni caso, per quanto concerne la RSI racchiusa nell'ultimo spicchio di territorio che ancora gli restava nel nord Italia, era scontato che sotto l'incalzare della inarrestabile avanzata Alleata, si sarebbe arrivati prima o poi ad una capitolazione, ma il Duce e lo stesso Graziani, quale ministro della Difesa, non avrebbero mai trattato una resa alle spalle dell'alleato e comunque non ci sono elementi per sostenerlo. Semmai lo avrebbero fatto in sintonia con i tedeschi o dopo che questi si fossero arresi o avessero lasciato il territorio italiano.

Un sondaggio di Mussolini, di febbraio – marzo '45, fatto dietro richiesta della Curia, atto ad interpellare gli Alleati per conoscoscere eventuali loro intenzioni in merito ad eventuali condizioni di resa, da trattare solo dopo che le forze armate tedesche si fossero ritirate nei loro confini, è tutto quello che si verificò in quel periodo e oltretutto, rimase inevaso perchè gli alleati fecero sapere alla Curia, che la loro linea era quella della “resa senza condizioni”.

E' comunque acquisito che Mussolini negli ultimi mesi della RSI coltivasse la speranza, in effetti una illusione, di poter negoziare al momento opportuno e certamente non alle spalle dei tedeschi una resa con gli Alleati, puntando non solo sul compromettente “Carteggio” (riguadante Churchill, ma anche Roosevelt), ma anche sulla valutazione (errata) che, almeno gli inglesi, fossero interessati a limitare l'invasione sovietica dell'Europa (che invece era stata dagli anglo americani auspicata e pianificata, entro certi limiti, nell'ambito degli accordi di Jalta che prevedevano l'occupazione di buona parte dell'Europa da parte dei Sovietici, indispensabili agli occidentali per la progettata spartizione e sottomissione del continente).

L'ultima, disperata, strategia finale di Mussolini

Stabilita la situazione della RSI rispetto ai tedeschi e prima di addentrarci sul problema di un presunto intento di “resa” della RSI alla Resistenza cerchiamo di riassumere alcuni obiettivi che Mussolini sperava o si illudeva di conseguire alla conclusione sfortunata della guerra.

E' indubbio che Mussolini nel 1945 riteneva inevitabilmente persa la guerra ed era conscio che il fascismo sarebbe finito con essa. Egli oramai si avviava a concludere la sua avventura umana, storica e politica che lui, da sempre animato da un forte senso pratico e dalla percezione oggettiva della realtà, aveva già considerato chiusa il 25 luglio 1943.

Dopo l'8 settembre e la sua liberazione da parte dei tedeschi dalla prigionia sul Gran Sasso, non aveva però potuto sottrarsi al dovere di venire in qualche modo in soccorso della nazione letteralmente alla mercè dei tedeschi e sotto l'invasione Alleata.

E Mussolini che non era un “dirigente” qualunque, che esce e rientra dalle stanze del potere, ma era sempre stato un agitatore ed un rivoluzionario politico, anche questa volta, pur nella tragica contingenza della guerra, non si lasciò sfuggire la irripetibile situazione che consentiva di operare in Italia un ribaltamento rivoluzionario approfittando del fatto che la grande Industria, il Vaticano e Casa Savoia erano fuori gioco. Fu così che, oltre all'impronta repubblicana da dare allo Stato e alle Istituzioni, il Duce aveva anche riformulato tutto il fascismo che si era poi evoluto nel PFR (Partito Fascista Repubblicano) ed aveva anche partorito il progetto della socializzazione delle imprese.

Una riforma socialista, quella della socializzazione, che per l'epoca e la struttura economica del nostro paese poteva considerarsi un evento rivoluzionario tale da suscitare adesione ed entusiasmo, persino in vecchi socialisti come Carlo Silvestri (un galantuomo e vecchio socialista, già avversario di Mussolini al tempo del delitto Matteotti e ora, profondamente convinto della estraneità del Duce a quel delitto, riavvicinatosi al Duce) e non solo o ex comunisti come Nicola Bombacci e ovviamente forte avversione dal mondo industriale, dagli Alleati ed evidenti riserve, se non ostilità, da parte dei tedeschi, interessati più che altro a sfruttare quel che rimaneva della nostra produzione bellica.

Ora, Mussolini, in qualche modo, riteneva di avere assolto il suo compito, ma gli restava ancora un ultimo dovere, quello di limitare i danni della sconfitta e di porre in salvo quanti più seguaci o partecipanti alla RSI possibile.

Compito certamente non facile, ma a cui, come sempre, avrebbe provveduto con tutto il realismo ed il pragmatismo possibile, che era una delle sue caratteristiche peculiari, quindi senza farsi condizionare da riserve di carattere ideologico.

L'unica riserva, alla quale non poteva venire meno per non vanificare tutto il suo operato teso a ricostruire l'immagine della nazione lesa dall'8 settembre, era quella di non poter agire autonomamente verso il nemico, trattando una resa unilaterale, per non ripetere le modalità a suo tempo messe in atto da Badoglio per sganciarsi dai tedeschi e che gli stessi Alleati, per definirle, avevano coniato il verbo dispregiativo “ to badogliete ”.

Coerente con la sua visione della guerra, una visione per così dire “classica”, non apocalittica e quasi metastorica come poteva esserlo in Hitler e al contempo in linea con la sua natura di “rivoluzionario essenzialmente politico”, egli aveva ferma intenzione di conseguire alcuni risultati minimali rimanendo però, volente o nolente, fermo nell'impegno di non trattare alcuna resa militare con gli Alleati, se non - con o dopo - che lo avessero fatto i tedeschi.

In definitiva, il problema delle intenzioni del Duce, il che fare e quel che effettivamente fece o forse meglio quel che fu costretto a subire, in quelle drammatiche giornate di fine aprile ‘45 potrebbe sembrare alquanto complesso, ma in realtà è racchiuso in un semplice duplice dilemma: come riuscire a trattare con gli Alleati (fermi su le posizioni di una resa “incondizionata”, rispettando i tedeschi e senza prima cadere prigioniero e (di conseguenza) come trasferirsi verso la Valtellina con il governo e le milizie fasciste, avendo al contempo concordato con la Resistenza la salvaguardia di quelli che restavano, comprese le famiglie.

E questo mentre tutto, attorno a lui, sta crollando.

Ecco quanto scrisse il questore Secondo Larice (tenente colonnello della Forestale e nipote acquisito del Duce, nd.r.), nel dopoguerra al giornalista Bruno Spampanato:

<< Il Duce ha un chiodo fisso salvare i fascisti che restano. La Repubblica deve finir bene, ma si deve pensare ai fascisti che restano a Milano se il governo parte. Mi domanda all'improvviso; “Larice che affidamento dà la polizia?” Ho abbassato la testa, anche se la colpa non è mia, e gli ho detto:”Poco Duce”. Mi ha risposto: “Lo sapevo”>> (B. Spampanato “ Contromemoriale ”, ristampa CEN Roma 1974).

Partendo da questo drammatico dilemma di Mussolini possiamo dipanare tutta la matassa degli avvenimenti successivi perchè altrimenti, solo sulla base di quel poco che conosciamo e possiamo documentare, è difficile stabilire con sufficiente certezza le intenzioni o il perché dei suoi movimenti dal 25 al 27 aprile da Milano a Como, a Menaggio, ecc.

Detto questo, si faccia attenzione ai sottostanti punti, l'ordine non è importante, perché è nel loro tentativo di conseguirli, sia pure in modo discontinuo e scoordinato a causa delle vicende belliche, che ruota tutta la strategia finale del Duce e si ha la chiave per comprendere quello che esattamente accadde in quelle tragiche ore e soprattutto i suoi intenti che lo porteranno all'incontro in Arcivescovado. Dunque, Mussolini si riproponeva:

1. di evitare ulteriori e inutili lutti e distruzioni al paese, applicando laddove possibile una conduzione politico – militare moderata (tra l'altro da tempo firmava ogni domanda di grazia gli venisse sottoposta). In quest'ottica sperava di mediare un trapasso dei poteri con il CLNAI che gli consentisse uno sganciamento indolore dalle grandi città del nord, ma questo non fu possibile per l'evidente stato di odio e rancori che si era determinato nel paese ed al quale non si poteva più porre argine, senza contare certe necessità “politico-militari” degli Alleati e della Resistenza che tendevano ad una drastica e violenta conclusione della guerra civile;

2. di esperire almeno un tentativo, finalizzato a lasciare in eredità alle forze moderate di sinistra le riforme rivoluzionarie della Socializzazione e della Repubblica, ma anche questo non fu possibile perché i vincitori della guerra in Italia erano le democrazie occidentali, iper liberiste in campo economico, le quali non avevano alcuna intenzione di perdurare nel nostro paese una qualsiasi forma di dirigismo nel campo economico e finanziario o addirittura una ristrutturazione socialista dell'economia corporativa. Finita la guerra, volenti o nolenti, furono tutti d'accordo nell'abrogare immediatamente le riforme della socializzazione e quelle sul monopolio azionario, riconsegnando tutta la gestione delle Aziende all'impresa privata;

3. sperare in una mitigata conclusione bellica ovvero un alleggerimento delle conseguenze della sconfitta militare e, ovviamente, la salvezza per chi aveva partecipato alla RSI, nel caso facendo valere i delicati e importanti documenti in suo possesso ( Carteggio con Churchill).

In vista di questo obiettivo aveva intrapreso alcuni discreti sondaggi che fino al quel momento non avevano dato frutti, ma che sperava potessero sempre concretizzarsi all'ultimo minuto e in conseguenza di questa aspettativa aveva scelto una tattica “temporizzatrice” allontanandosi progressivamente dalle località dove stavano per arrivare gli Alleati.

Ma gli accordi di Jalta tra occidentali e Sovietici, che prevedevano una ricomposizione dell'Europa non attraverso i consueti trattati di pace, ma attraverso una spartizione tra sovietici e occidentali, non consentivano mediazioni di questo genere ed il recupero dei preziosi documenti gli inglesi lo avevano pianificato in un altro modo.

4. mettere in salvo la moglie e i figli in Svizzera, Clara Petacci in Spagna e portare i militi fascisti verso una dignitosa resa. Neppure questo fu possibile a causa del rifiuto svizzero di accogliere donna Rachele e i bambini e per il colpo di testa di Claretta che volle rimanere in Italia, coinvolgendo anche il fratello Marcello. I fascisti infine si sciolsero come neve al sole per la scelleratezza dei loro comandanti che si impantanarono a Como il 26 aprile mattina;

5. per se stesso, infine, rimase fermamente irremovibile nella decisione di restare comunque in Italia (nonostante le insistenze di molti componenti del suo entourage che invece volevano espatriare). Proprio questo suo intento, irremovibile e comprovato, come ha dimostrato il ricercatore storico Marino Viganò, un ricercatore certamente non di parte neofascista, con il suo saggio “ Mussolini i gerarchi e la ‘fuga' in Svizzera, 1943, 1945, Nuova Storia Contemporanea N. 3 – 2001, finì per costargli la vita.

In ogni caso Mussolini volle esperire fino all'ultimo minuto qualsiasi possibilità si presentasse avendo un governo, sia pure allo sbando e ridotto ai minimi termini, ma formalmente legittimato e militarmente ancora, almeno simbolicamente, in grado di muoversi. Con il passare delle ore però, e il negativo incalzare degli eventi, il trasferimento del governo, si trasformò in una fuga di personalità allo sbando verso la Valtellina o le frontiere del Reich.

In virtù di una realizzazione di quanto sopra Mussolini, fin dalla sua venuta a Milano, proveniente la sera del 18 aprile dalla sua residenza di Gargnano sul Garda, ha già previsto uno spostamento progressivo, in base agli sviluppi della situazione militare, da Milano a Como e quindi in Valtellina.

Come intenda procedere tatticamente su questa linea, alquanto precaria, è probabilmente affidato alle novità e variabili che potranno venir fuori dagli avvenimenti successivi, ma in ogni caso una cosa appare certa: Mussolini non ha alcuna intenzione di consegnarsi agli Alleati senza concrete garanzie (però a causa di Jalta impossibili da ottenere) ovvero che gli sia concessa la possibilità di difendersi e di difendere la Nazione, perché oltretutto di quella guerra si sentiva “vittima” e non responsabile. Anzi, da tanti piccoli indizi che ci sono stati tramandati, Mussolini sperava di risolvere in qualche modo la situazione dei partecipanti alla RSI, minacciati da imminenti stragi e quella delle pesanti condizioni che sarebbero state imposte all'Italia sconfitta, dopodichè probabimente si augurava che la sua vicenda terrena si concludesse sul suolo italiano, come attestano gli inequivocabili dinieghi a porsi in salvo, l'ostinazione a non voler riparare nella vicina confederazione elvetica, e l'incoscienza di esporsi al pericolo, durante i raid aerei alleati sul Garda o in occasione di spostamenti in auto, rifutando di riparare nei rifugi e confidando spesso di “attendere la bomba liberatrice”.

Della sua persona ha detto più volte, non fa questione ed infatti, rifiuta sempre, ostinatamente e con stizza, tutti i progetti di porlo in salvo in qualche modo (ancora il ricercatore Marino Viganò ha mirabilmente riassunto, nel suo articolo “ Quell'aereo per la Spagna”, Nuova Storia Contemporanea" N. 3 – maggio giugno 2001, alcuni dei vani tentativi fatti da uomini del suo entourage, personalità della RSI, di porlo in qualche modo in salvo, sempre rifiutati da Mussolini).

Fu certamente nel vero il capo di S.M. della GNR, Niccolo Nicchiarelli molti anni dopo, quando affermerà in una lettera ad A. M. Fortuna queste importanti osservazioni:

<< Impossibile che il Duce abbia chiesto una qualsiasi garanzia per la sua persona. Aveva fatto chiaramente intendere che mai e poi mai agli inglesi e agli americani si sarebbe consegnato, e neppure al CLNAI. Il che avrebbe significato, per bene che andasse, consegnarsi ai primi. Voleva la salvezza dei suoi e probabilmente guadagnare tempo per raggiungere la Valtellina dove, in un modo o nell'altro avrebbe posto fine ai suoi giorni>>.

Comunque sia egli vuol seguire il suo destino, tentando tutto quanto è ancora possibile fare, ma senza coinvolgere ulteriormente le popolazioni e le strutture delle città già di per sè stesse abbastanza disastrate e in questo intento deve anche guardarsi dai tedeschi e le loro minacce di far saltare ponti, acquedotti, impianti idroelettrici e industriali.

Gli obiettivi precedentemente indicati e che Mussolini si riproponeva o si illudeva, almeno in parte di conseguire, fanno già comprendere come essi siano inconciliabili con una intenzione di arrendersi e di consegnarsi agli, soprattutto senza aver prima esperito tutti i tentativi per realizzarli. E questo qualunque possa essere stata, per opportunità tattiche, il sondaggio per eventuali trattative che lo portarono a bussare a tutte le porte nella ricerca di una soluzione.

Il fatto è che le agibilità politiche e soprattutto materiali del governo di Mussolini, negli ultimi giorni di aprile, erano oramai ridotte al lumicino, gli avversari non volevano o non potevano intraprendere decisioni che fossero diverse da una resa incondizionata e oltretutto le defezioni nel campo della RSI si stavano allargando in ogni settore.

Racconta Rodolfo Graziani un episodio verificatosi il 24 aprile '45 negli uffici di Mussolini a Milano, presente Pavolini, arrivato mentre il maresciallo sta illustrando al Duce la situazione delle truppe anglo americane sfociate nella pianura padana. E' un episodio che da un idea della situazione e del clima del momento:

<< Pavolini disse: “Duce, ho ordinato a tutte le Brigate Nere della Liguria e del Piemonte di ripiegare sulla Lombardia, il ripiegamento è in corso...”.

Ebbi allora un impeto di indignazione e dissi testualmente: “E' una cosa ignobile mentire così fino all'ultimo momento”.

Pavolini reagì minaccioso: “Maresciallo” disse “il rispetto alla vostra persona ed all'età è una cosa, subire un insulto è un altra”.

“Ma se tutto è in rovina” replicai, “se oramai siamo al si salvi chi può perché ingannare ancora?”

Intervenne Mussolini che capì dove poteva andare a finire quel colloquio e pacatamente, come sapeva imporsi quando voleva, disse rivolto a me: “Dunque un secondo 8 settembre?”

“Assai peggio” risposi e Pavolini tacque . ....Era presente al colloquio il generale Montagna>> ( Rodolfo Graziani, “ Una vita per l'Italia ” Mursia 1986).

Certamente il Maresciallo Graziani era nel giusto nel descrivere la reale situazione alla vigilia del 25 aprile, ma quel che il Maresciallo non dice è il fatto che proprio tra le file dell'esercito la defezione, era più evidente. Per i Generali del resto gladi repubblicani o stellette non avevano un vero significato “ideologico” e come scrisse il giornalista storico Franco Bandini, questi generali:

<< ... improvvisamente si ricordano di essere dei militari, cosa ben diversa dai politici. Gladio o stellette l'uniforme è ancora quella di sempre, le greche hanno sempre lo stesso peso e le vecchie amicizie resistono a ben altro che ad un 25 aprile, (Franco Bandini, “ Le ultime 95 ore di Mussolini” Sugar 1959).

Era poi anche noto, come ricordarono Bruno Spampanato e il ricercatore storico Alessandro Zanella, che il capo della Polizia Renzo Montagna, interpretando a modo suo le disposizioni del Duce circa l'uso dell'applicazione di una certa clemenza, era venuto a mettere l'uniforme della polizia repubblicana a individui di ogni provenienza e perfino a partigiani con le conseguenze facili a immaginarsi quando venne a verificarsi il crollo della autorità del governo repubblicano (Vedi: B. Spampanato, “ Contromemoriale” Vol. 4, ristampa CEN Roma 1974 e A. Zanella, “ L'ora di Dongo ”, Rusconi 1993).

Nelle sue memorie l'italo inglese Massimo (Max) Salvadori-Paleotti (ufficiale di collegamento tra il Comando Alleato ed il CLNAI), descrisse, esagerando alquanto, quei momenti attorno il 25 aprile come un vuoto assoluto nelle Istituzioni repubblicane e un Duce oramai letteralmente abbandonato da tutti (Max Salvadori, “ La fine di Mussolini” Nuova Storia Contemporanea, N. 5, settembre, ottobre 2004).

Ed è così che Mussolini, esperito il fallito tentativo di mediazione in Arcivescovado che adesso andremo a considerare, partirà comunque la sera del 25 aprile '45 da Milano, al fine di trasferirsi in Valtellina, con l'illusione di tenere in piedi, almeno nominalmente, un troncone di Stato e portandosi dietro gli ultimi fascisti fedeli radunati da Pavolini, riservandosi poi di verificare e decidere cosa fare una volta arrivato sul posto. Ma queste sono altre storie.

Resa alla Resistenza o “trapasso dei poteri”?

Quasi tutta la letteratura in argomento riferendosi al famoso incontro all'Arcivescovado nel pomeriggio del 25 aprile '45, dal quale poi prendono il via tutta una serie di avvenimenti incontrollabili, tende a profferire affermazioni non dimostrate, in riferimento ad una presunta volontà di Mussolini di essersi recato a quell'incontro per offrire o trattare una resa con il CLN e magari una sua persnale consegna al nemico.

Tutto questo è però inesatto se ci riferiamo alla sostanza che il termine “resa” comporta, anche se la differenza tra una “resa” vera e propria e l'intento di Mussolini di lasciare totalmente il campo libero alle nuove autorità cielleniste, ritirandosi verso il nord senza combattere in virtù di determinate condizioni da trattare con il CLNAI, è sottile e si gioca sul filo delle parole.

Comunque una differenza c'è: in genere “resa” vuol dire cessazione di qualsiasi attività politica e militare, deporre le armi e, sia pure a determinate condizioni, consegnarsi o mettersi a disposizione dei vincitori e queste non erano certamente le intenzioni di Mussolini per impostare una trattativa con la Resistenza.

In realtà Mussolini era da tempo che, su più versanti, aveva incaricato uomini del suo entourage come Angelo Tarchi (ministro della Produzione Industriale e dell'Economia Corporativa), il prefetto Mario Bassi (capo provincia di Milano), Paolo Zerbino (ministro degli Interni), il capo della polizia Renzo Montagna, il figlio Vittorio, ecc., di sondare le possibilità che potevano offrirsi affinché ci fosse un “passaggio indolore dei poteri” tra la RSI che avrebbe lasciato il campo e con le sue milizie di partito si sarebbe ritirata più a nord e le nuove autorità subentranti del CLNAI. Questo era il senso della “resa” a cui Mussolini e i fascisti erano propensi e si auspicavano di conseguire, ed in questa ottica erano anche disponibili a trattare lo sciogliemento delle polizie e di altri reparti speciali della RSI ovvero a renderli disponibili per il mantenimento dell'ordine pubblico nella fase transitoria del passaggio dei poteri.

Per quanto riguarda poi le FF.AA. della Repubblica, ogni loro atteggiamento non avrebbe che potuto essere condizionato dal preavvertimento o da una prassi consensuale con i tedeschi.

Era una strategia moderata, disponibile a lasciare il campo alla Resistenza depotenziando l'imminente “insurrezione” e stemperare le vendette delle frange estremiste.

Le iniziative che negli ultimi tempi avevano assunto un carattere concreto e sembravano poter arrivare a compimento furono quelle di Angelo Tarchi e di Renzo Montagna. I contenuti e le prospettive di queste iniziative, condivise da Mussolini, erano abbastanza simili, cambiavano solo gli interlocutori.

Tarchi, ben addentro nelle conoscenze e amicizie del mondo industriale e cattolico, prese contatti con i cattolici del CLN attraverso l'avvocato Giuseppe Brusasca in questo senso delegato dal ciellenista democristiano Achille Marazza.

Montagna invece si orientava verso le componenti socialiste della resistenza ed attraverso l'avvocato Renzo Garbagni, tendeva ad arrivare a Corrado Bonfantini il comandante delle brigate “Matteotti”, notoriamente riottoso a tenere i socialisti subordinati ai comunisti.

Queste due iniziative (a cui poi volle partecipare anche il ministro dell'interno Zerbino) portarono a dei sondaggi nell'ottica di evitare il bagno di sangue finale e a preservare le infrastrutture del territorio da una eventuale ritirata distruttiva dei tedeschi o bombardamenti alleati.

Si cerca anche, nella eventualità di futuri sviluppi di una resa militare, una garanzia, tramite il riconoscimento come prigionieri di guerra per le Forze Armate della repubblica e se il caso per le formazioni fasciste, la rinuncia ai tribunali del popolo e la salvaguardia dei familiari dei fascisti ed altri argomenti simili.

L'iniziativa di Montagna prevede anche la costituzione di un corpo misto formato da partigiani, militi delle GNR e della X° Mas che concorrano insieme per il mantenimento dell'ordine pubblico fino all'arrivo delle truppe alleate.

Come “garanti” sembra che si possa contare su Coriolano Pagnozzi, commissario della Croce Rossa italiana e, sia pure fuori dell'ufficialità, sull'ufficiale inglese di collegamento con il CLN, Max Salvadori. Su una ventilata partecipazione, come garante, del Salvadori, nutramo però grossi dubbi, visto il ruolo inglese dello stesso e la sua nota determinazione nel pretendere esclusivamente una resa senza condizioni (come ben ricostrì lo storico Renzo De Felice, il Max Salvadori Paleotti, venuto a sapere il 27 aprile 1945 dell'arresto di Mussolini fece opportunamente notare ai ciellenisti, che il CLNAI aveva praticamente piena autorità fino all'arrivo delle truppe alleate e all'insediamento della loro amministrazione. Di fatto ispirò e diede mano libera a procedere alla svelta ad eliminare Mussolini).

In sostanza si può dire che queste iniziative fecero dei sensibili passi avanti e si arrivò a discutere di un progetto che prevedeva il passaggio dei poteri da Mussolini a Graziani, il quale avrebbe dovuto pilotare la resa delle Forze Armate della RSI (ovviamente al momento opportuno e in sintonia con tedeschi), mentre il CLN dava la garanzia per il riconoscimento dello stato di prigionieri di guerra eventualmente esteso anche alle milizie fasciste.

Non venne presa in considerazione, in questi sondaggi, la persona di Mussolini, ma del resto il Duce aveva sempre dato l'indicazione di non considerare la sua posizione personale e comunque i delegati RSI probabilmente presumevano che nello stato di prigionieri di guerra non poteva non entrarci anche la sua figura. Restava alquanto indefinita la situazione delle milizie del partito fascista che Mussolini desidera portare verso la Valtellina e che non avevano di certo alcuna intenzione di arrendersi al CLNAI.

In effetti per la RSI ci sono varie forze in gioco da considerare: Mussolini che ha gli intenti precedentemente da noi accenati, gli uomini delle Istituzioni e personalità varie della RSI che hanno altri compiti tra i quali la difesa del territorio e della vita dei cittadini e che sarebbero anche disposte ad una vera e propria trattativa di resa senza limitazioni, le Forze Armate che sono subordinate all'alleanza con i tedeschi e i fascisti che certamente non si arrenderebbero alla Resistenza.

Il punto debole di tutte queste trattative, però, sta nella mancata partecipazione delle componenti estremiste della resistenza ed in particolare quelle comuniste, del resto le sole che avevano una certa consistenza ed una effettiva struttura militare clandestina, fatto questo che avrebbe pregiudicato fortemente l'eventuale messa in opera delle condizioni eventualmente stabilite. Inoltre per Mussolini, in concreto, la definizione di queste trattative potrebbe portarlo ad essere consegnato agli Alleati rendendogli difficile esperire un ultimo disperato tentativo di far valere le sue documentazioni per forzare la concessione di condizioni il più mitigate possibile per la nazione. Resta, inoltre, sempre aperto il problema di concordare o preavvertire della resa i tedeschi.

Probabilmente proprio in considerazione di queste debolezze e contraddizioni e forse anche per il fatto che proprio negli ultimi giorni sembrava prendere corpo una iniziativa più diretta verso i socialisti, caldeggiata da Mussolini e portata avanti da Carlo Silvestri (di cui parleremo tra poco), il 22 aprile a mattina il Duce, ricevendo Coriolano Pagnozzi, gli disse che aveva ritenuto di soprassedere. Nonostante la sua sorpresa, visto che le trattative segrete di Tarchi e Zerbino con Brusasca erano giunte a buon punto, il commissario della Croce Rossa non potè che prenderne atto e riferire al CLN che gli farà subito sapere che per loro “ le trattative non erano mai avvenute”.

Anche le trattative di Montagna che negli uffici della polizia di via Vivaio si era ritrovato con al tavolo Garbagni e Zerbino (il ministro all'ultimo momento aveva voluto inserirsi quale delegato del Duce) subiscono poco dopo la stessa sorte nonostante che Montagna fosse riuscito ad inserire una clausola speciale riferita direttamente a Mussolini.

Montagna e Zerbino comunque non si arrenderanno e arriveranno a battere a macchina il testo di una trattativa di resa che sottoporranno a Mussolini la sera del 24 aprile, ma il Duce pur approvandolo nelle linee generali, lo lascerà nel cassetto. E' evidente che tutti quegli sforzi dei suoi collaboratori, per Mussolini hanno più che altro costituito dei “sondaggi” esplorativi, ma le sue intenzioni sono ben altre.

Tramonterà poi dopo il 22 aprile anche l'iniziativa pilotata da Carlo Silvestri e il Duce opterà decisamente per quella iniziativa, già avviata dall'industriale Riccardo Cella, che ruotava attorno alla mediazione del Cardinale Schuster. Evidentemente Mussolini aveva ritenuto più concreta una auorevole garanzia fornita dall'Arcivescovo ed inoltre, in questo caso, sarebbe stato egli stesso a scendere in campo nella definizione degli accordi, potendo così verificare la fattibilità dei suoi progetti.

L'attestazione, quindi, che il Duce, quel pomeriggio del 25 aprile non si stava recando in Arcivescovado per trattare una pura e semplice resa (tra l'altro incondizionata), non avviene in base a considerazioni di principio, che in quella situazione lasciano il tempo che trovano, ma proprio in base a considerazioni pratiche, logiche in quanto, affinché si fosse teoricamente potuto concepire una resa del genere, si sarebbe dovuta avere almeno la garanzia che il Cardinale Schuster avesse un mandato Alleato a trattare, cosa che non era, mentre la cosiddetta “Resistenza”, priva di una reale consistenza militare, oltretutto necessaria per mantenere fede agli accordi, risultava divisa tra “moderati possibilisti” e “irriducibili” sostenitori del fare tabula rasa del fascismo.

Rimaneva poi sempre in auge il particolare non indifferente che egli, in relazione ai suoi progetti che abbiamo precedentemente esposto, intendeva sganciarsi, assieme alle formazioni fasciste, dal territorio che stava per essere invaso dalle truppe Alleate, con la speranza di trattare la resa, questa si definitiva, in condizioni libere ed in un successivo momento.

Tutto questo Mussolini lo sapeva bene e non poteva non averlo soppesato.

La valutazione storica non può venir meno se, anche per opportunità tattiche in cui il Duce era maestro, egli stesso o i suoi uomini, trattavano nominalmente con i loro interlocutori sulle basi di una “resa” quando poi, invece, questa resa era solo parziale e subordinata dalla intenzione di defluire verso la Valtellina.

Comunque sia, in seguito alla caduta di Bologna, già preannunciata dal 20 aprile (gli Alleati vi entreranno la mattina successiva), tutti i settori e le personalità della RSI entrarono in fibrillazione e cercarono di stringere i tempi sulle trattative che da più parti erano in corso.

Il tentativo di Mussolini verso i socialisti

Come abbiamo accennato il Duce aveva anche coltivato l'illusione che fosse possibile tramandare in qualche modo le conquiste socializzatrici e repubblicane alle forze moderate della sinistra ciellenista, affinché gli occupanti anglo americani trovassero un fatto compiuto e qualcosa di quelle conquiste e innovazioni sociali si fosse conservata in futuro.

Una indiretta vittoria morale e politica del suo socialismo fascista, laddove, come ebbe spesso a dire, il suo più grande dolore sarebbe stato quello di veder l'italia invasa dagli anglo americani e ripristinata la monarchia e il liberismo capitalista.

Fu una iniziativa questa alquanto effimera e che tra l'altro tramontò quasi subito, ma per la portata storica che rappresenta e per le finalità politiche che la contraddistinguevano, merita di essere accennata anche perché Mussolini, conscio della inevitabile sconfitta bellica e della fine del fascismo, ritenne di tramandare i contenuti sociali del fascismo stesso attraverso questo trapasso delle conquiste sociali e istituzionali.

Comunque sia, dietro questi intenti di Mussolini, si arrivò alla sera del 22 aprile quando il Duce ricevette Carlo Silvestri. In quella occasione egli formalizzò una serie di appunti che consegnò al Silvestri pregandolo di inoltrarli alle forze moderate e socialiste della Resistenza:

<< Compagni socialisti. Benito Mussolini mi ha chiamato e mi ha dettato questa dichiarazione che mi ha autorizzato a ripetervi.

Poichè la successione è aperta in conseguenza all'invasione anglo americana, Mussolini desidera consegnare la Repubblica Sociale Italiana ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi. Della sua persona non fa questione.

Come contropartita chiede che l'esodo dei fascisti possa svolgersi tranquillamente. Nel proporre questa trasmissione dei poteri, egli si rivolge al partito Socialista, ma sarebbe lieto se l'idea fosse considerata ed accettata anche dal partito d'Azione nel quale, del resto, prevalgono le correnti socialiste.

...A quanto sopra sono autorizzato ad aggiungere che come contropartita Mussolini chiede:

a) garanzia per l'incolumità dei fascisti e dei fascisti isolati che resteranno nei luoghi di loro abituale domicilio con l'obbligo della consegna delle armi nei termini stabiliti;

b) indisturbato esodo delle formazioni militari fasciste, così come di quelle germaniche, nell'intento di evitare conflitti e disordine tra italiani e distruzione di impianti da parte dei tedeschi e nuove rovine e lutti nelle città e nelle campagne>> (in uno di questi appunti, Mussolini specificava anche che non si rivolgeva anche ai comunisti perché riteneva che nell'attuale situazione internazionale essi non potevano assumere in Italia atteggiamenti che sarebbero stati in contrasto con il riconoscimento dell'Italia come zona di influenza inglese).

Questo tentativo “politico” abortì subito per l'intransigenza di socialisti estremisti come Sandro Pertini e per la volontà e l'interesse di liquidare tutto il fascismo, comprese le sue conquiste sociali, in modo drastico e violento, ma questa è un altra storia, quello che qui preme sottolineare è l'intento di Mussolini che il 22 aprile, ancora ignaro che i tedeschi stanno raggiungendo un accordo di resa, parla espressamente di un “trapasso dei poteri” e di un ripiegamento delle formazioni militari fasciste. Quindi, ancora una volta, non di una “resa” vera e propria alla Resistenza, del resto assurda e improponibile.

Questi stessi intenti, sia pure elisi della possibilità, oramai tramontata, di consegnare le conquiste sociali della RSI ai socialisti, si ripresenteranno tre giorni dopo in Arcivescovado.

Come abbiamo più volte accennato, infatti, la strategia di Mussolini, in quelle ultime ore, precipitata per l'improvvisa resa trattata di nascosto dai tedeschi, era quella del “ripiegamento”, cercare cioè di spostarsi il più a Nord possibile.

La resa, seppure inevitabile, sarebbe stata l'ultima ratio ed in dipendenza sempre del comportamento dell'alleato germanico. Non solo una resa incondizionata alla Resistenza non era nelle sue intenzioni, ma sarebbe stata addirittura indefinita e problematica vista la inconsistenza delle forze a disposizione del CLNAI in Milano e le intenzioni ostili delle frange comuniste.

Le premesse all'incontro in Arcivescovado

Quella che Mussolini voleva configurare come una trattativa per un passaggio indolore dei poteri, tra la RSI e la Resistenza, mediatrice la Curia del cardinale Schuster che ne avrebbe fatto da garante, era dunque un qualcosa di ben diverso da una trattativa di resa vera e propria e addirittura incondizionata come cercarono poi di imporre i delegati del CLNAI in quell'incontro.

Disse giustamente Pino Romualdi, vicesegretario del Pfr, che Mussolini pensava di dover discutere, in quella sede, un calmo passaggio dei poteri, non di trattare i particolari, ammesso che potesse trattare almeno quelli, di una resa a discrezione. Di un ordinato passaggio dei poteri, aggiunse il vicesegretario, non si parlò neppure, ma solo di darsi, mani e piedi legati agli avversari.

In definitiva, arrivati al 25 aprile, sotto l'incalzare degli eventi, a Mussolini non rimaneva che il ripiegamento e una successiva prospettiva di capitolazione, ma affinché questo ripiegamento potesse realizzarsi nel massimo ordine e senza un oramai inutile spargimento di sangue, era opportuna una garanzia di una autorità al di sopra delle parti e di grande prestigio, che fosse in grado di mediare questo un trapasso indolore dei poteri.

Fu per questo che, tra le varie trattative in atto, Mussolini alla fine preferì accettare quella che era stata la proposta dell'industriale Gian Riccardo Cella ( un industriale del nord che si muoveva con disinvoltura tra il governo del Sud e quello della RSI e proprio in quei giorni aveva anche acquistato da Mussolini la proprietà del complesso editoriale del “ Il Popolo d'Italia” ), il quale avvalendosi dell'ingegner Gaetano Bruni, intermediario con il CLN e la Curia, proponeva un incontro con il CLN, sotto la mediazione del cardinale Schuster.

Per comprendere bene le intenzioni di Mussolini, quindi, circa un ordinato trapasso dei poteri da contrattare in Curia, dobbiamo partire dal presupposto che egli aveva da tempo deciso il percorso di sganciamento del governo repubblicano verso le località più a Nord.

Già dal 19 aprile Mussolini ricevendo Pavolini e il federale di Milano Vincenzo Costa ebbe a far presente: < >.

Quindi in seduta con il prefetto Mario Bassi, Vincenzo Costa e il comandante militare per la Lombardia generale Filippo Diamanti ed altri uomini dell'amministrazione repubblicana, come già aveva precedentemente deciso, scartò l'ipotesi di una difesa armata dentro Milano, optando per il trasferimento delle truppe in Valtellina.

Ci conferma poi l'agenda del maresciallo Graziani che Mussolini, due giorni dopo, il 21 aprile:

<< A Milano, alle 10 precise, tenne il Consiglio dei Ministri, l'ultimo, ed aprì la discussione sulla ritirata in Valtellina la cui preparazione e organizzazione era da tempo stata affidata al segretario del Partito>> (Rodolfo Graziani op. cit.).

Nel frattempo Mussolini aveva dato ordine di smobilitare i ministeri e di trasferirne i nuclei essenziali a Milano perchè fossero pronti a seguire il governo in Valtellina. Fece anche avvertire i suoi famigliari che dovevano lasciare il Garda e trasferirsi al più presto a Como.

La stessa mattina del 21 aprile all'albergo Regina, sede del comando della SS, si celebrava il gentliaco del F?hrer e Mussolini vi mandò a partecipare il prefetto Mario Bassi affinchè raccogliesse informazioni utili sull'atteggiamento dei tededschi. Il colonnello Rauff, alla presenza di tutti i comandati militari e dei settori economici, del corpo diplomatico, ecc., tenne un discorso in onore a Hitler, ma non fece alcun cenno sulla situazione militare, nè notizie confidenziali potè raccogliere Bassi.

Con la prematura presa di Bologna (ma anche Modena, Reggio Emilia e Mantova erano cadute) causata da un evidente disimpegno tedesco, tutti gli avvenimenti presero una certa caotica accelerazione e lo stesso ripiegamento in Valtellina assumerà, con il passare delle ore, un aspetto diverso, perché era ovvio che, a prescindere dai quasi inesistenti apprestamenti militari e logistici sul posto, finalizzati ad una estrema difesa dirimpetto alle frontiere del Reich, le subdole intenzioni di resa dei tedeschi, che si palesarono nelle ultime ore, rendevano impraticabili questi progetti. Il ripiegamento in Valtellina quindi venne forzatamente a configurarsi sempre più come una fase transitoria verso la capitolazione.

Anche per i preliminari che da tempo erano intercorsi nel tentativo di addivenire a questo incontro nell'Arcivescovado le versioni sono diverse, ma come detto, in genere, se ne attribuisce il merito, o il demerito a seconda dei punti di vista a Gian Riccardo Cella che riuscì ad agganciare Achille Marazza membro democristiano nel CNLAI.

Per la Curia l'incontro fu anche la conseguenza di un paziente lavorio addirittura iniziato dalla fine dell'anno precedente.

Dicesi che in questi sondaggi preliminari, con le forze moderate della Resistenza, si discuteva di “una resa sul campo” di tutte le forze delle Repubblica e su questo potremmo anche essere d'accordo, perché è infatti probabile che, nella forma, i sondaggi ruotassero attorno al problema di una “resa” che, in un modo o nell'altro, sarebbe stata la conclusione della vicenda bellica della RSI.

Varie ricostruzioni dell'epoca, anche dagli Alleati (per esempio, l'inglese sir Noel Charles, alto commissario per l'Italia ebbe modo di elaborare uno stringato rapporto) raccolsero presunte intenzioni di Mussolini di recarsi all'incontro con Schuster per arrendersi e consegnarsi prigioniero, cosa che poi, si dice, non ritenne più opportuno fare, avendo realizzato che sarebbe stato comunque passato per le armi per volontà delle frange estremiste.

In uno di questi rapporti (quello di Noel Charles), anche se molto approssimativamente, vi si affermerebbe che il CLNAI, dopo averne discusso al suo interno, fece recapitare al Duce un messaggio con il quale lo si invitava a recarsi dal Cardinale per arrendersi e mettersi a disposizione (Vedi Storia Illustrata N. 332 Luglio 1985).

Ma è questa una ricostruzione superficiale, che neppure tiene conto del fatto che poi Mussolini, arrivato all'incontro, approcciò i colloqui con i delegati ciellenisti chiedendo di sapere che cosa gli si proponeva e andando in collera quando gli venne detto che si voleva la resa incondizionata. La stessa ricostruzione del commissario inglese inoltre, contraddittoriamente, indicherebbe che i delegati ciellenisti si recarono alla riunione convinti di trovarvi il Duce arresosi incondizionatamente, ma trovarono invece un Mussolini che non era dello stesso parere e poneva un gran numero di condizioni.

Come vedesi, tutta la faccenda non è affatto chiara e merita di essere ulteriormente approfondita.

Nel frattempo è però interessante sapere che la mattina del 25 aprile si tenne la famosa riunione del CLNAI nella biblioteca del Collegio dei Salesiani di via Copernico 9.

Qui si riunirono cinque uomini: il democristiano avvocato Achille Marazza, il liberale Giustino Arpesani, il socialista Sandro Pertini, il comunista Emilio Sereni, e l'azionista Leo Valiani (questi ultimi tre facevano parte del Comitato Insurrezionale unitario antifascista lo strumento dell'insurrezione).

Sono assenti Ferruccio Parri, vice comandante del CVL, il presidente del CLNAI Alfredo Pizzoni (uno degli elementi più importanti nella storia di questo comitato, visto il suo ruolo di collegamento con l'Alta Finanza e gli Alleati). Assenti anche il comandante del CVL Luigi Cadorna e l'altro vice comandante, il comunista Luigi Longo che aveva anche il comando delle Brigate Garibaldi.

I presenti votarono un decreto che attribuiva al CLNAI tutti i poteri di amministrazione e di governo per l'Italia occupata. Un altro decreto, che poi condizionò il comportamento delle parti in campo, si pronunciava sull' Amministrazione della giustizia , all'art. 5 affermava:

<>.

Infine viene approvato, su proposta dei membri del Comitato Insurrezionale, un proclama che invita i cittadini allo sciopero generale e all'insurrezione e terminava ponendo ai tedeschi ed ai fascisti il dilemma “ arrendersi o perire! ”.

In questo clima, sembra verso la fine della riunione, Marazza rivela agli altri il suo incontro con Riccardo Cella e li informa che Mussolini vorrebbe trattare.

La risposta è brusca ed eloquente: “ trattare cosa?”. Evidentemente però poi si deciderà di procedere in questa iniziativa e di accettare l'incontro subordinandolo però alla richiesta di una resa incondizionata.

Forse verso le 11 don Luigi Corbella parroco di Sant'Ambrogio che curava i collegamenti tra la Curia e la Prefettura si reca dal prefetto Mario Bassi e gli comunica che il CLNAI si è pronunciato per l'insurrezione che però sembra sia per ora rimandata ed ha proclamato lo sciopero generale, in ogni caso la strada per la trattativa è aperta.

Mussolini viene informato da Bassi e Pavolini, in quel momento presente, dice al Duce che comunque sarà difeso dai fascisti. Mussolini non si scompone e chiede al Prefetto di convocare Riccardo Cella, mettendolo al corrente che è disposto a recarsi in Arcivescovado.

Bassi al mattino era anche dovuto intervenire per impedire che i tedeschi minassero le quattro centrali elettriche.

Il Cella sembra che giunse in Prefettura verso le 14 (altre ricostruzioni anticipano questo orario di un paio di ore), e Mussolini gli conferma che si recherà in Arcivescovado “ a trattare ”. Il Cella evidentemente consapevole delle posizioni rigide del CLNAI, risponderà ed è tutto un programma, “... già a trattare ”.

Più o meno in quelle ore un fischio di sirena segnalava il fermo della circolazione dei tranvai e intanto si apprendava che da Sesto S. Giovanni le maestranze avevano occupato le fabbriche.

Quindi Mussolini chiamò Bassi e lo mise al corrente delle proposte del Cella il quale aveva anche raccontato che prima di venire in Prefettura si era fermato a pregare la Madonna di S. Babila perchè ispirasse la decisione del Duce.

Mussolini informò il prefetto della sua decisione di aderire alla proposta della Curia, ma desidera farlo senza avere i soliti tedeschi alle costole. Bassi gli propone di uscire da una apertura secondaria del muro di cinta del palazzo di governo che da su via Mozart. Il prefetto osserva anche che, così stando le cose, non poteva che esserci una decisione immediata e nessuno poteva rimproverare il Duce di essere andato in Curia ad ascoltare eventuali proposte di resa. Durante quel colloquio sembra che Mussolini disse a Bassi:

<< Non sarò mai il prigioniero di Churchill o di Truman, vorrebbero portarmi in giro per il mondo per mostrarmi nei baracconi. No, non mi avranno, nè essi, nè altri>>.

In ogni caso Mussolini, ignaro del fatto che i delegati ciellenisti che verranno all'incontro non hanno alcun mandato per trattare, al di fuori di una resa incondizionata, incontra i generali Montagna e Graziani e li informa che il cardinale Schuster lo ha invitato per una riunione alle ore 17, alla quale sarà presente anche il generale Cadorna. Montagna si dichiara scettico e insiste ancora per le sue trattative con l'avvocato Garbagni che erano arrivate a buon punto. Graziani invece si dichiara favorevole e si da appuntamento con il Duce per le 17.

Precedentemente, quello stesso mattino, nell'ufficio del prefetto Luigi Gatti, segretario particolare del Duce, si tenne una riunione alla quale parteciparono Vincenzo Costa, ultimo commissario della federazione fascista di Milano, Franco Colombo comandante della “Muti”, i membri del governo Francesco Maria Barracu, medaglia d'oro, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Paolo Zerbino ministro degli interni, Ferdinando Mezzasoma ministro della cultura popolare, Alessandro Pavolini segretario del PFR, il capo della provincia Mario Bassi, il questore Secondo Larice, il colonnello Vito Casalinuovo ufficiale di ordinanza di Mussolini, il colonnello Giuseppe Gelormini comandante provinciale della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) ed altri ufficiali. Secondo i ricordi di Vincenzo Costa Pavolini riassunse così la situazione:

<< Che cosa stia accadendo sul Po non lo sappiamo. Di conseguenza, piaccia o non piaccia al Maresciallo Graziani, le nostre formazioni debbono subito essere indirizzate verso la Valtellina.>>.

Verso il termine di questa riunione, sembra che apparve il generale Filippo Diamanti che da una settimana aveva assunto il comando militare regionale. Disse:

<< Signori, noi militari abbiamo concluso un accordo con il comando delle forze partigiane. Attueremo il passaggio dei poteri e l'ordine pubblico sarà garantito da pattuglie miste di partigiani e di nostri soldati. E tu (rivolgendosi a Pavolini) se vuoi che le brigate nere si salvino fai togliere subito ai fascisti le camicie nere, fagli indossare quelle grigioverdi con le stellette e mettile ai nostri ordini>>.

Al chè Pavolini saltò su e inveendo urlò:

<< Gli ordini li deve dare solo il Duce, solo Lui, lo avete dimenticato?... Che schifo!>>

E uscì per andare a informare Mussolini (vedesi: G. Pisanò: Storia della guerra civile in Italia , Edizioni FPE Milano 1966).

Non è chiaro se prima, ma molto più probabilmente dopo, questa riunione ce ne fu un altra con Mussolini che vale la pena riportare con i ricordi di Filippo Diamanti comandante della piazza di Milano. L'importanza di questa testimonianza sta nel fatto che si ha l'ulteriore dimostrazione che Mussolini si muoveva nell'ottica di conseguire una resa, quale un trapasso indolore dei poteri, che gli consentisse di sganciare le formazioni fasciste verso la Valtellina. Una intenzione questa che si ripropose nel pomeriggio in Arcivescovado.

Annoterà Diamanti:

<< 1) Alle ore 13 del giorno 25 aprile 1945 fummo convocati dal Duce in uno degli uffici della Prefettura di Milano S.E. Graziani, il Ministro degli Interni Zerbino, il Gen. Montagna, quale capo della Polizia, il Prefetto di Milano e lo scrivente. Dopo alcuni minuti intervenne al colloquio anche il Ministro Pavolini segretario del Partito Fascista.

2) Il colloquio ebbe per oggetto lo studio della situazione di emergenza venuta a crearsi in seguito alla incalzante avanzata delle truppe Anglo Americane verso il Nord. La conversazione assunse, in certi momenti, carattere di drammaticità per i discordanti pareri espressi da S.E. Graziani e da S.E. Pavolini. L'argomento principale si riferiva ad una specie di patto di resa che era stato accordato non in via definitiva tra il Ministro degli Interni Zerbino ed il capo della Polizia Montagna con il Comitato di Liberazione e ciò con l'autorizzazione del Duce.

3) Dato che la richiesta principale del Comitato di Liberazione verteva sulle necessità di far uscire da Milano tutte le formazioni militari o paramilitari non identificabili con le Forze Armate dello Stato fu stabilito dal Duce che fossero date immediate disposizioni affinché venissero subito instradate per Como la "Muti", formazione autonoma e non facente parte della polizia, gli appartenenti alle Brigate Nere, e a tutte le varie formazioni di polizia Ausiliaria >> (Vedesi: Archivio Centrale dello Stato, Roma, carte Diamanti, b. 3, f. "Salò". Dichiarazione del generale Filippo Diamanti , s.d.).

Alle 13,30 Vincenzo Costa emanò l'ordine “ Riservata 197 ” già previsto, rivolto a tutti i Capi zona e ai loro segretari dei Fasci, a tutti i comandi dei battaglioni della BN “Resega”, a tutti i comandi di Compagnia presidio, a tutti i fiduciari dei gruppi rionali. L'ordine stabilisce che entro le ore 17 tutti i fascisti dovranno trasferirsi in Piazza S. Sepolcro in Milano requisendo ogni automezzo necessario per trasportare scorte di viveri e munizioni e dopo aver bruciato ogni documento e tutti gli schedari.

Arriviamo quindi al pomeriggio del 25 aprile 1945, quando Mussolini decide di recarsi all'Arcivescovado e forse ci andrà, nonostante il suo desiderio contrario, con una sia pure discreta, ma inevitabile presenza tedesca che in qualche modo lo seguirà.

In una intervista di Mussolini, rilasciata al giornalista di Alessandria, Gian Gaetano Gabella forse il 20 aprile del 1945, e pubblicata poi dopo la morte del Duce, si legge:

« “Duce, non sarebbe bello formare un quadrato attorno a voi e al gagliardetto dei Fasci e aspettare, con le armi in pugno, i nemici? Siamo in tanti, fedeli, armati...”.

“Certo, sarebbe la fine più desiderabile... ma non è possibile fare sempre ciò che si vuole.

Ho in corso delle trattative. Il cardinale Schuster fa da intermediario. Ho l'assicurazione che non sarà versata una goccia di sangue... Un trapasso di poteri. Per il Governo, il passaggio fino in Valtellina, dove Onori (generale, comandante di una Brigata Nera e della piazza di Sondrio, n.d.r.) sta preparando gli alloggiamenti. Andremo anche noi in montagna per un po' di tempo”.

Osai interromperlo: “Vi fidate, Duce, del cardinale?”.

Mussolini alzò gli occhi e fece un gesto vago con le mani. “E' viscido. Ma non posso dubitare della parola di un Ministro di Dio. E' la sola strada che debbo prendere. Per me è, comunque, finita. Non ho più il diritto di esigere sacrifici dagli italiani” » ( Il testo integrale è reperibile telematicamente nel sito: www.controstoria.it/download/ Document ).

E così con queste speranze, amarezze e rassegnazione, ma ben deciso e determinato a conseguire quel minimo di obiettivi che si era prefisso e abbiamo precedentemente illustrato, Mussolini si recò all'appuntamento in Arcivescovado.

E' indubbio che il Capo della RSI, ignaro dello stato avanzato delle trattative dei tedeschi, di cui conosceva i movimenti al confine svizzero e i probabili intendimenti, ma ignorava le intenzioni di Wolff finalizzate ad un vero e proprio tradimento e presumendo che, in ogni caso, se i tedeschi riuscivano a concretizzare una trattava ne avrebbero informato gli alleati italiani, riteneva di potersi recare a trattare con il CLNAI, tramite la Curia, un “passaggio indolore dei poteri” pur sempre da una posizione di forza e quindi ritirarsi verso la Valtellina. Ma a causa del tradimento tedesco questa “posizione di forza”, oramai non l'aveva più.

Il Cardinale, infine, su cui aveva fatto tanto affidamento, di tutto si preoccupava meno che della sorte di migliaia di fascisti che di li a poco sarebbero andati incontro ad una mattanza.

25 APRILE 1945: L'INCONTRO IN ARCIVESCOVADO

Racconta ancora Vincenzo Costa, che nel primo pomeriggio, dai giardini della villa di via Mozart, che comunicava con il retro della Prefettura, udirono passare Mussolini, proveniente dal Palazzo del Governo. Si avvicinarono Costa, Pavolini e il federale di Mantova Stefano Motta (comandante della XIII BN “Marcello Turchetti”).

Il Duce disse:

<< Il cardinale Schuster mi ha invitato in Arcivescovado. Avete ragione non sembra che i tedeschi abbiano intenzione di schierarsi a difesa della sponda lombarda del Po.

Tra qualche ora la decisione definitiva >> (G. Pisanò: op.. cit.).

Nell'occasione alcune decine di fascisti, in gran parte forlivesi, si accalcarono attorno al Duce. Un pezzo d'uomo abbracciò Mussolini dicendogli in dialetto forlivese: << Finalmente dopo venti anni riesco a vederti. Duce sei tutti noi>>.

Riccardo Cella confermerà poi che la decisione finale, era stata presa da Mussolini la mattina del 25 aprile intorno alle 10,30.

Sembra quindi che prima delle 17 di mercoledì 25 aprile ‘45 Mussolini, forse a bordo della sua Alfa Romeo, guidata dall'autista Giuseppe Cesarotti (Costa indicò invece una vecchia macchina nera della Curia, altri dicono che utilizzò la grossa auto di Riccardo Cella), fece le poche centinaia di metri per raggiungere il palazzo Arcivescovile e recarsi all'incontro con il CLNAI, sotto la mediazione del cardinale Schuster (altre testimonianze, compresa quella di V. Costa, retrodatano questo orario più o meno verso le 16. Non è possibile stabilire con certezza l'esatta tempistica. Carlo Silvestri, parlando di altre questioni, scrisse, che fin verso le 17 Mussolini, prima che si recasse in Arcivescovado, aiutato da lui, aveva provveduto a raccogliere e chiudere in valigia i più importanti documenti del suo archivio che avrebbe portato con sè nell'ultimo viaggio. A nostro avviso, se l'appuntamento in Curia era per le 17, spezzando l'orario a metà, probabilmente il Duce prese a muoversi intorno alle 16,30, ma è solo una supposizione).

Sono in macchina con lui il colonnello Francesco Maria Barracu e il prefetto Mario Bassi, oltre all'attendente del Duce, il brigadiere di PS Pietro Carradori.

Si racconta che entrò in macchina anche il tenente Fritz Birzer capo della scorta tedesca del Duce. Si sostenne che il Birzer intercettò Mussolini all'uscita da via Mozart chiedendogli dove stesse andando, ma il Duce gli avrebbe fatto notare che lui può andare dove vuole. “ Non senza la mia scorta”, ribatterebbe l'altro, ma tutto questo aneddoto sembra inventato di sana pianta. Comunque Birzer lo ritroveremo poi, al ritorno di Mussolini, nel cortile della Prefettura.

Su un altra macchina, partita subito dopo, c'erano invece Paolo Zerbino e l'industriale Gian Riccardo Cella, ma anche qui qualcuno afferma che Zerbino era già anche lui nella macchina con il Duce. Sottigliezze.

Sono tutti in borghese (tranne forse Barracu) mentre il Duce porta la sua solita divisa.

Il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro delle Forze Armate, li vede andar via da una finestra degli uffici di Mussolini che da sul cortile. Si picca per essere stato dimenticato, ma poco dopo un motociclista lo viene ad avvisare che anche lui è atteso in Arcivescovado.

Graziani arriverà quindi per conto suo in auto scoperta e con il generale Sorrentino, nella massima tranquillità , come ebbe in seguito a far rilevare. Varie rievocazioni dicono che giunse scortato da quattro tedeschi che poi sembra rimasero nei pressi dell'ingresso del palazzo ubicato in piazza Fontana, ma anche questo particolare non è accertato.

Riportare la cronaca fedele di quell'incontro è pressoché impossibile visto che le testimonianze in proposito divergono non solo su aspetti importanti, ma anche su particolari insignificanti, fatto questo che lascia veramente sconcertati, visto che stiamo parlando di racconti resi da personalità di un certo rilievo e di elevata cultura. Si può comunque ricostruire la sostanza dei fatti salienti.

Noi, epurandola da ogni faziosità o propaganda possiamo riassumerla partendo dai momenti seguenti all'arrivo dei rappresentanti della RSI. i quali visto che erano arrivati prima, si intrattennero nel frattempo in anticamera in colloqui di varia natura con l'ambiente della Curia tra cui don Corbella, monsignor Giuseppe Bicchierai (incaricato dei rapporti tra la Curia e il CLNAI e i tedeschi), monsignor Ecclesio Terraneo, segretario dell'Arcivescovo, ecc., mentre il Duce si apparterrà con il cardinale Ildefonso Schuster il quale lascerà poi ai posteri alcuni melliflui ricordi di quel colloquio per i quali non c'è da fidarsi troppo circa la loro attendibilità.

Scrisse A. M. Fortuna, nel suo “ Incontro all'Arcivescovado” Ed. Sansoni 1971:

<< Quello che avvenne nella stanzetta rossa si conosce soltanto dalla versione data da Schuster, che per essere almeno inesatta nella parte che narra il convegno tra partigiani e fascisti, non è propriamente vangelo>>.

Certo è che il Cardinale, che per l'occasione non indossava il vestito di porpora, pur conoscendo le trattative per la resa intessute con i tedeschi e le loro conseguenze per i fascisti, si guardò bene dal renderle note prima del tempo a Mussolini e lo pregava invece affinché accettasse una capitolazione, magari anche una sua consegna in Curia (il cardinale disse poi di non aver ritenuto opportuno informare il Duce in anticipo circa le trattative di resa dei tedeschi, per “ non rovinare le sue buone intenzioni” ).

Egli raccontò poi che intendeva far preparare una cameretta per accogliere il “prigioniero” e sembra che nei pressi dell'Arcivescovado stava attendendo la consegna di Mussolini, l'ufficiale italo inglese Max Salvadori, ufficiale di collegamento tra il Comando Alleato ed il CLNAI, dicesi per prendere in consegna il Duce per conto degli Alleati (il Savaldori però nelle sue memorie dirà che lui non condivideva quelle trattative e fu lieto della notizia del loro fallimento per cui, quel giorno, l'esatta posizione del Salvadori resta dubbia).

In ogni caso, una ipotetica sua consegna, come giustamente scrisse A. M. Fortuna nel suo appena citato “ Incontro al'Arcivescovado”, non era neppure lontanamente nei pensieri di Mussolini.

E' significativo che il Duce, in questa specie di colloquio confidenziale, durante il quale si dice che il cardinale offrì al suo interlocutore un bicchierino di rosolio e un biscotto, forse appena assaggiati, considerasse finita la RSI ed esprimesse il desiderio di ritirarsi in Valtellina con i fascisti che avessero voluto seguirlo. Disse Mussolini, parlando evidentemente in termini generici, intenzionali e comunque subordinati dagli eventuali futuri avvenimenti:

<< Il mio programma comprende due parti e due tempi diversi. In un primo tempo, domani [26 aprile] l'esercito e la GNR saranno sciolti. In quanto a me, ho deciso di ritirarmi in Valtellina con una schiera di tremila Camice Nere >>.

Schuster avrebbe replicato:

<< Non illudetevi, Duce, io so che le Camice nere che vi seguiranno non sono che trecento e non tremila come vi si fa credere >> .

Sorridendo mestamente Mussolini sottolineò:

<< Forse saranno un pò di più, ma non di molto. Non mi faccio illusioni ">> ( Vedere: A. M. Fortuna, op. cit.).

Questa uscita del Cardinale, potrebbe sembrare un semplice passaggio dialettico del discorso, ma è invece altamente indicativa di tutti i tradimenti e le defezioni verso il Duce e la Rsi di cui Schuster, per l'autorità e il ruolo giocato fino ad allora, era perfettamente a conoscenza.

Sibillinamente il Duce, ad una domanda del Cardinale, rispose:

<< Purtroppo gli uomini si conoscono troppo tardi>>, ed in risposta al Cardinale che gli parlava della Storia e del suo giudizio, disse anche:

<< Ella mi parla della Storia. Io credo solo alla storia antica, quella cioè che viene redatta senza passione e tanto tempo dopo>>.

E così via, tra osservazioni e frasi quasi tutte di scarsa importanza.

Forse tutto il colloquio confidenziale, in cui si parlò di Re Totila che fu ospite di S. Benedetto, di Montecassino, di Napoleone a S. Elena, ecc., era durato quasi un ora. Una melliflua tattica tutta pretesca per “ammorbidire” l'interlocutore che già si sognava di avere “impacchettato”.

Finite queste “confidenze” tra il Duce e il Cardinale, Mussolini raccolse il regalo avuto dall'alto prelato: un suo libro su la “ Storia di San Benedetto” che mise in una busta e che non leggerà mai.

Nel frattempo il maresciallo Graziani, dall'Arcivescovado, aveva scritto un biglietto alla moglie, la marchesa Ines, ospite delle “Suorine di Maria Bambina” che accudiscono il Cardinale:

<< Scrivo qui dall'Arcivescovado, dove mi trovo con il Duce presso il Cardinale. Si stanno trattando questioni di eccezionale importanza, alle quali non è estranea l'azione decisa da me svolta su Mussolini in questi giorni . ... Forse è vicino il momento che un raggio di sole possa risplendere finalmente sulle tenebre che ci hanno avvolto in questo tremendo periodo>> (Vedere A. Zanella, op. cit).

Ma ancor più importante è il fatto che, durante l'attesa dei delegati ciellenisti, sembra che monsignor Bicchierai (altri diranno il Cella o Don Corbella) si lasciò scappare (non può essere che intenzionalmente) la notizia che si stava attendendo in Curia l'arrivo del generale Wolff per firmare la resa dei tedeschi, al che un allarmatissimo prefetto Bassi avvertì immediatamente il maresciallo Graziani.

Il particolare trova alcuni riscontri in altre testimonianze ed anche Graziani lo confermò nel suo libro di memorie. Chissà perché la faccenda non venne subito riportata alle orecchie di Mussolini, quando i delegati fascisti entrarono nel salotto di Schuster dove era il Duce, e questi la verrà a conoscere in modo drammatico poco dopo in piena riunione.

Scrisse Graziani:

<< Pochi istanti prima che giungessero i delegati del CLNAI il prefetto Bassi mi informò che seduta stante aveva appreso dai segretari dell'Arcivescovo come, pel di lui tramite, i tedeschi stessero da due mesi trattando la resa delle loro truppe in Italia. Al mio sbalordimento si avvicinò l'industriale Cella: “animo Maresciallo! Oggi è una grande giornata! Ora giungerà qui anche il generale Wolff e sarà firmato l'armistizio”. Mi domandavo se non si assisteva a una tragica parodia>> (R. Graziani, “ Ho difeso la Patria”, op. cit.).

Giunsero alfine (con un sostanziale ritardo rispetto all'appuntamento delle 17) da una entrata secondaria del palazzo, Raffaele Cadorna comandante (più che altro nominale) del CVL (Corpo Volontari della libertà), l'avvocato Achille Marazza esponente della Democrazia Cristiana nel CLNAI, Riccardo Lombardi del partito d'Azione e già prefigurato Prefetto di Milano. Giustino Arpesani (liberale nel CLNAI) arriverà invece a riunione in corso introdotto da don Bicchierai. Mancano i socialisti e i comunisti. Per i socialisti, Sandro Pertini (che non era stato trovato dagli altri) non era venuto e stessa cosa, probabilmente, era accaduta con il comunista Emilio Sereni.

Riccardo Lombardi comunque raccontò in seguito che lui aveva un mandato di rappresentanza anche per costoro.

Racconterà Marazza che nei pressi del palazzo c'era Max Salvadori, il quale era venuto per prendere in consegna il Duce e nel cortile di piazza Fontana, oltre a fascisti e tedeschi armati, c'era anche un gran via vai di automobili e gruppetti di curiosi che, chissà come, avevano saputo che dentro c'era Mussolini.

Questo ricordo del Marazza però, porta sicuramente delle esagerazioni, sia perché non sembra che ci furono tutte queste presenze di tedeschi e fascisti (chi li aveva pre informati?) e sia perché appare strano che si siano lasciati formare grossi assembramenti di persone. Non è azzardato pensare che i delegati ciellenisti vollero, a posteriori, ostentare un loro “coraggioso” andivenire tra le presenze di un nemico potentemente armato.

Una volta arrivati, gli uomini della Resistenza salirono al primo piano dove, ricorda il Marazza, videro militi fascisti e tedeschi (ancora?!). Fu don Bicchierai che li introdusse nello studio di Schuster dove trovarono il solo Mussolini. Seguirono le presentazioni di rito e qualcuno sostiene, altri no, che ci furono strette di mano con l'odiato tiranno. Il maresciallo Graziani invece affermerà esplicitamente:

<< Nessuna stretta di mano da parte di Mussolini al Marazza o a chiunque altro dei presenti>> (R. Graziani, op. cit. ).

Sempre il Marazza fornisce una descrizione di Mussolini, sostenendo che lo vide con una brutta cera ed un abbigliamento logoro e stinto. Lombardi dirà che, malgrado tutto, provava sentimenti di pietà. Si intuisce però palesemente l'intenzionalità della controparte nel dipingere un Duce oramai alla disperazione il che, se pur vero sul piano della realtà oggettiva, non trova riscontri nel comportamento di Mussolini che rimase sempre lucido e deciso anche nelle ore successive.

Il Duce quindi si sedette e chiese di far entrare Graziani, dietro cui vennero anche Zerbino e Barracu. Sembra che il prefetto Bassi aspettò fuori ed entrò poi successivamente.

Iniziò così quella inverosimile “trattativa” dove entrambi gli schieramenti si sedettero presupponendo nell'altra parte intenzioni che invece non avevano o non potevano avere:

i ciellenisti, al corrente della imminente resa dei tedeschi, che Mussolini oramai alla disperazione, fosse disposto ad arrendersi alla Resistenza dietro condizioni non troppo dure e magari consegnarsi al CLNAI, dietro promessa della sua incolumità, garante il cardinale Schuster; i fascisti invece, ignari del tradimento tedesco e convinti che questi, che pur si stavano ritirando a quanto sembrava senza combattere, avrebbero comunque consentito ai fascisti di apprestare un ultimo baluardo difensivo in Valtellina, presupponevano che i delegati ciellenisti arrivati in Curia, fossero disposti a trattare un trapasso dei poteri garantendo, nonostante il parere contrario, anzi l'assenza dei comunisti, un tranquillo defluire dei fascisti verso il nord.

La “trattativa”

Le parti presero posto sedendosi una di fronte all'altra, e così anche Mussolini e il cardinale Schuster (che sembra venne invitato a presenziare personalmente alle trattative) con ai loro lati i due schieramenti. L'avvocato Marazza venne a trovarsi quasi di fronte a Mussolini. Come detto Arpesani sembra che arrivò a riunione in corso.

Vediamo qualche passo significativo della “trattativa”.

Iniziata la riunione con Mussolini che, forse rivolgendosi a Cadorna, chiede quali novità e condizioni gli si vuol far conoscere, occorre sottolineare che, dopo aver rigirato la stessa domanda al Duce, cambiando le carte in tavola rispetto alle premesse che avevano portato all'incontro, i delegati del CLN, con il tacito assenso del Cardinale, per bocca di Marazza, chiedono subito la resa incondizionata dei fascisti, determinando immediatamente un impasse per eventuali trattative.

Sembra, infine, che così si espresse il Marazza:

<>.

Mussolini: << Non è questo che mi è stato detto!>>.

Cadorna (o forse Lombardi o Marazza, i ricordi sono tutti contraddittori): <>.

Mussolini: << Mi avevano detto che avremmo discusso della sorte dei gerarchi e delle loro famiglie. Che la milizia fascista si sarebbe concentrata in Valtellina dove si sarebbe arresa agli anglo americani>>.

Marazza: << Questi sono particolari che si potranno studiare in seguito. L'importante è ora la resa>>.

Lombardi: <>.

Mussolini: << Il problema adesso e subito è quello della ritirata in Valtellina>>.

Infine Mussolini, su queste basi, sembra pronto a trattare (Vedere anche: A. M. Fortuna op. cit. e: U. Uboldi: “ 25 aprile 1945” Mondadori 2004).

Già qui c'è da rilevare il non indifferente particolare che Mussolini premette ad una condizione di resa la ritirata in Valtellina ed il fatto, di non poco conto, che i rappresentanti ciellenisti erano privi dei delegati socialisti e comunisti (oltre che di importanti esponenti della Resistenza come Longo, Mattei, Parri, ecc.) e se guardiamo bene, questi rappresentanti “moderati” della Resistenza, in termini militari, rappresentavano più che altro se stessi e avevano avuto fino ad allora un certo ruolo solo in virtù di una loro legittima funzione politico militare e delle coperture concessegli dagli Alleati.

Quando il Marazza rispose a Mussolini chiedendo la resa, secondo condizioni che sarebbero state dettate dal CLNAI, aggiunse che non c'era molto tempo da perdere e così dicendo estrasse l'orologio, controllò l'ora e disse: “ siamo già in ritardo, e alle ore diciotto avrebbe dovuto avere l'inizio dell'insurrezione partigiana”.

Quindi specificò che i fascisti, qualora avessero accettato la resa, potevano riunirsi in una zona da delimitarsi, più o meno, nel triangolo Milano, Como, Lecco e qui avere l'incolumità a patto che cedano le armi. Successivamente si sarebbero vagliate singole responsabilità di ordine criminale.

Mussolini non poteva non rilevare e soppesare, la sceneggiata dell'orologio (una insurrezione non si minaccia con l'orologio alla mano!) e il fatto che prima si era chiesta la resa incondizionata e poi ci si era mostrati disposti a varie concessione, ma soprattutto egli dovette avvertire la carenza di rappresentatività nei suoi interlocutori. Non a caso è stato da più parti fatto notare che se, ipoteticamente, Mussolini avesse anche accettato una resa incondizionata, non si capisce come le autorità cielleniste avrebbero potuto, in quel momento totalmente prive di qualsiasi consistenza militare in città, prendere possesso dei palazzi governativi e delle migliaia di fascisti e militi della RSI che si sarebbero dovuti consegnare, senza patteggiare “condizioni” e richieste a Mussolini per l'utilizzo delle forze armate della RSI (come noto la Prefettura la si dovette far occupare, prima delle 6 del mattino successivo, dalla Guardia di Finanza passata dalla parte della Resistenza, mentre le formazioni fasciste evacuavano indisturbate da Milano).

Ma altresì chiunque avrebbe compreso, e tanto più un uomo dell'esperienza e dell'intuito di Mussolini, che qualunque condizione si fosse sottoscritta, non poteva esserci alcuna garanzia per l'incolumità dei fascisti arresisi quando, dopo aver deposto le armi, l'insurrezione sarebbe sicuramente esplosa e avrebbe dilagato con sviluppi incontrollabili.

Come si vede quindi, nelle varie rievocazioni di parte, tutto il contesto di quella vicenda lo si è voluto dipingere sotto una luce che non è proprio quella che si ebbe nella realtà.

Mussolini che era arrivato a quella riunione senza alcuna preclusione ideologica, del resto assurda data la situazione, e con l'intento di lasciare il campo ed il potere al CLN purchè sia consentito un deflusso incruento delle forze fasciste verso la Valtellina, ed in questo disponibile anche a lasciare forze militari della Repubblica in funzione di ordine pubblico, come abbiamo visto di fronte ad una richiesta di resa incondizionata si mostra meravigliato e ribadisce che lui non è lì per concedere tanto.

Abbiamo anche visto che egli chiede comunque di conoscere i termini precisi dell'accordo.

Racconta Ezio Bacino, in una delle prime ricostruzioni dell'incontro, abbastanza in linea con i dialoghi precedentemente riportati, che il Duce così dicendo, si raddrizza sul busto, gonfia il petto e con mano ad artiglio avvinghia il bracciolo del divano :

<< Mi era stato detto che avrei ottenuto la salvaguardia dei fascisti e delle loro famiglie e la resa onorevole per le truppe>> dice Mussolini.

Gli si risponde che, comunque, tale configurazione di resa offrirebbe garanzie personali agli sconfitti ed in particolare alle loro famiglie, ma come abbiamo già fatto rilevare erano queste tutte garanzie aleatorie. In pratica il progetto che il cardinale Schuster avrebbe sperato, beato lui, di far approvare verteva più o meno su tre punti:

1. l'esercito e tutte le formazioni fasciste, deposte le armi, avrebbero ottenuto, quali prigionieri, gli onori militari a norma della convenzione dell'Aja e gli ufficiali il mantenimento dell'arma;

2. ai familiari dei fascisti sarebbe stata garantita l'incolumità fisica e la protezione degli averi e si sarebbero stabilite località di eventuale concentrazione;

3. il corpo diplomatico verrebbe trattato a norma del diritto internazionale e il Duce, non se ne parlò, ma era sottointeso che sarebbe stato considerato prigioniero di guerra e consegnato agli Alleati.

Si immagini la vacuità e impraticabilità di questi tre punti, sui quali si voleva imporre la discussione e a cui, per la mancanza dei rappresentanti socialisti e comunisti, non si poteva fare alcun affidamento, tanto più che quella mattina era stato emanato dal CLNAI il famoso decreto sulla amministrazione della giustizia che poneva i fascisti con le spalle al muro.

Per i delegati ciellenisti, modalità di una eventuale intesa potevano essere concordate, ma prima bisognava firmare. E' un prendere o lasciare. Di fatto la fine di una trattativa che, tutto sommato e nonostante si sia discusso per un certo tempo, non si comprende come sarebbe potuta andare in porto.

Sembra poi che ci furono o c'erano stati vivaci alterchi tra Graziani e Cadorna, con la discussione che si spostava sul senso dell'onore militare, sull'aver mantenuto fede al giuramento e argomenti simili.

In ogni caso preciserà subito Graziani, a scanso di equivoci:

<< Duce non si può trattare una resa in questo modo, dobbiamo avvertire i camerati tedeschi. La fedeltà verso di loro è la causa e la giustificazione della mia linea di condotta>>.

Marazza nei suoi ricordi dirà che gli pareva di sognare:

<< Quelli si impuntavano sulla leatà verso i tedeschi e ignoravano che i tedeschi trattavano da settimane la resa con gli Alleati senza essersi curati di metterli mai da parte>> (Vedi: R. Uboldi, op. cit.).

E' forse a questo punto che qualcuno, probabilmente con il nascosto fine di ammorbidire le posizioni dei fascisti. accennò alle trattative di resa intraprese in segreto dai tedeschi con la Curia, particolare, come abbiamo accennato, che era già sfuggito precedentemente in anticamera.

Ancora Marazza dirà che fu lui, vista la piega che aveva preso l'incontro, a ritenere opportuno informare Mussolini delle trattative dei tedeschi. Altri diranno che fu Cadorna.

Si racconta anche che di fronte allo sconcerto che subentrò tra i fascisti il ministro Zerbino, altri dicono Graziani, interverrà per segnalare quanto già conosceva:

<< Duce, Bassi conosce fatti nuovi ed eccezionali, che noi non sappiamo>>.

Viene quindi ascoltato Bassi che rivela quanto precedentemente appreso in anticamera circa le trattative segrete per una resa intraprese dai tedeschi all'insaputa degli italiani.

Altra versione narra invece che fu il maresciallo Graziani ad avvisare Mussolini il quale, sorpreso, guardò interrogativamente il cardinale Schuster che gli confermò la notizia, aggiungendo che però i tedeschi non avevano ancora firmato, ma avevano promesso di farlo entro 24 ore (come sappiamo, invece, i tedeschi avevano finalizzato le loro trattative direttamente con gli Alleati in Svizzera). Il Cardinale Schuster scrisse:

<< Siccome era inutile e dannoso conservare più oltre quel segreto di guerra, ammisi che il generale Wolff era meco in trattative per mezzo del console generale germanico e del colonnello Rauff. A questo punto venne introdotto Don Bicchierai il quale disse espressamente: “Si, i tedeschi hanno confermato l'accettazione della resa, ma non hanno ancora firmato, promettendo il perfezionamento della firma entro 24 ore”>> (I. Schuster, “ Gli ultimi tempi di un regime”, Daverio 1960).

Comunque sia il cardinale Schuster, dichiarandosi dispiaciuto che certe informazioni erano trapelate, decise di andare a prendere i suoi appunti in merito che poi leggerà agli astanti, sembra che faccia anche osservare che oramai da mezzogiorno le truppe tedesche si erano rinchiuse nelle loro caserme, secondo lui, in pratica, deponendo simbolicamente le armi nelle mani dell'Arcivescovo.

Si vennero quindi a conoscere i vari passi fatti dai tedeschi, tra i quali anche la loro proposta, effettivamente poco simpatica, per usare un eufemismo, di disarmare le Brigate Nere.

L'effetto di quella rivelazione, se finalizzato a disorientare ed ammorbidire i fascisti, fu però diverso, perché i fascisti e soprattutto Mussolini ebbero una reazione indignata ed istintiva che rese definitivamente impossibile proseguire nelle trattative.

Le memorie di Cadorna, Marazza, Lombardi, Graziani, ecc., e le varie ricostruzioni storiche, danno tutte una diversa sequenza temporale e mettono in bocca, ora a questo, ora a quest'altro personaggio e con parole diverse, il fatto di aver reso note le trattative in atto dei tedeschi e le successive reazioni, ma il quadro d'insieme comunque è abbastanza intuibile.

Racconta Marazza che Mussolini, fuori di sé per la collera e per lo sdegno, balzò in piedi, esplodendo in una furibonda invettiva contro i tedeschi, enumerando i torti e le umiliazioni subite e Graziani rincarò la dose chiedendosi dove era finito l'onore e la dignità, ricordando che migliaia di giovani erano caduti nel nome di questi sentimenti.

Mussolini, ma non è chiaro quando, sembra che disse << E' un nuovo e più grave 25 luglio>>, <>.

Qualcuno del CLN, forse Cadorna, fece notare che se i tedeschi non avevano sentito il dovere di avvertire i loro alleati, la preoccupazione della parte fascista era eccessiva.

A questi ribatté Graziani sottolineando che nonostante la inadempienza dei tedeschi, loro non potevano prestarsi allo stesso gioco facendo ricadere sugli italiani un altra accusa di tradimento. Si parla quindi di questioni d'onore e anche l'avvocato Marazza rivendica che loro sono scesi in campo per l'onore.

Lombardi, rivolgendosi al Cardinale, fa notare che l'eccezione mossa dal maresciallo Graziani mette tutti in condizioni di non poter procedere nella trattativa.

Il cardinale Schuster dice di comprendere questa valutazione, ma condivide anche il rilievo fatto forse da Cadorna ed insiste perché la trattativa non venga interrotta.

Sembra che prese vita una discussione tra il prefetto Bassi e il ministro Zerbino con l'avvocato Marazza, circa l'applicazione pratica di quanto il Marazza stesso aveva proposto, ma sono strascichi che, oltre a non potersi attestare ad un preciso momento della trattativa, non indicano una eventuale volontà dei fascisti (o meglio, escluso Mussolini, degli uomini di governo RSI) che, nonostante tutto, fossero intenzionati ad arrivare a chiudere le trattative.

Nel frattempo Mussolini, riavutosi dalla sorpresa, come raccontò il maresciallo Graziani (che disse di ricordare perfettamente ogni particolare), misurati i termini della questione, dichiarò che il gesto sleale commesso dai tedeschi metteva in condizioni di potersi sganciare da loro e che rientrando al Palazzo di governo avrebbe denunciato alla radio la loro slealtà.

L'Arcivescovo lo scongiurò di non farlo per evitare reazioni inconsulte e gravi ritardi alle stesse trattative in corso con i tedeschi. Mussolini non rispose direttamente.

Non ci sono verbali scritti della riunioni e quindi non è chiaro se, sia pure confusamente, si riprese a “trattare” visto che oramai Mussolini, in un certo senso, poteva moralmente sentirsi sganciato da qualsiasi impegno verso i tedeschi.

Ma la cosa è illogica e sembra che comunque il Duce scambiò qualche parere con i suoi e Bassi gli disse che loro avrebbero potuto firmare una resa politica, concernente la sorte dei fascisti e dei loro famigliari, ma potrà avvenire un minuto dopo quella militare già predisposta dai tedeschi. Allora Mussolini si alzò e disse “ Non c'è altro da dire, andiamo”.

“ Quando darete la risposta al Comitato?” chiese l'Arcivescovo.

“ Tra un ora” rispose Mussolini ( vedi: R. Graziani, op. cit.; Cadorna ricordò che Mussolini rispose: “ alle otto ”. Vedi A. Fortuna, op. cit.)

Nelle sue memorie Pietro Carradori aggiungerà, ed è significativo, di aver sentito che il Duce venendo via disse:

<< Alle otto di questa sera lasceremo Milano, non voglio che per causa mia sia sparso altro sangue>>.

Sembra che si era arrivati verso le 19 e la trattativa che già era tramontata dopo la pregiudiziale posta dai rappresentanti del CLNAI di una resa a discrezione, per la quale comunque poi avevano dato l'impressione di aprire spiragli di discussione, in realtà alquanto aleatori, naufragò del tutto dopo l'annuncio delle trattative unilaterali e segrete per una resa tedesca.

Bassi riferì che tutta la trattative era durata circa 35 minuti e non dovrebbe sbagliare di molto anche se, con annessi e connessi si arrivò a quasi un ora.

Per riassumere, quindi, Mussolini, invitato il 25 aprile pomeriggio in Arcivescovado per trattare quello che sperava un possibile ed incruento passaggio dei poteri o comunque una “resa” condizionata, che lo lasci libero di ritirarsi verso la Valtellina, si era trovato invece di fronte ad una richiesta di resa incondizionata, con tanto di sua consegna al nemico venendo, per giunta, a conoscere dell'esistenza di segrete trattative di resa da parte dei tedeschi.

Ed è proprio la presenza di Graziani, non solo ministro della Difesa del Governo repubblicano, ma anche Comandante dell'Armata “Liguria”, a sua volta dipendente dal Comando Superiore Germanico, che smentisce ogni intenzione di resa da parte di Mussolini. Nel caso di una resa tedesca infatti, si doveva arrendere anche Graziani e tuttte le FF.AA. della RSI, ma una resa di Graziani, di nascosto dei tedeschi, sarebbe stata non solo infamante, ma in un certo senso anche impossibile.

Ed anche il fatto che in Curia sia stata resa nota una segreta trattativa di resa dei tedeschi, non cambiava le cose e non autorizzava i fascisti a procedere per conto loro.

In sostanza, non solo la strategia mussoliniana prima accennata, esclude una sua qualsiasi intenzione di resa al CLN, intesa come fine di ogni suo agire politico e militare e magari una sua consegna al nemico, ma è ulteriormente ridicolo pensare che Mussolini avrebbe potuto arrendersi a questi capi non comunisti della Resistenza mostratisi in pubblico all'ultimo minuto. Nonostante che a posteriori una certa agiografia resistenziale abbia voluto ingigantire le consistenze di un loro seguito di partigiani, in effetti avevano sempre avuto un “esercito” di scarso valore milatare ai loro ordini (in Arcivescovado, a Cadorna che minacciava di avere 50.000 uomini armati, Graziani battendo il pugno sul tavolo rispose: “ tu hai 50.000 c...!” ).

Mussolini quindi sapeva perfettamente che questi “capi” (tra l'altro tutti individuati nei giorni precedenti dalla polizia fascista nei loro nascondigli, ma da lui lasciati indisturbati sotto le tonache dei preti), poco o nulla contavano (lo stesso comandante del CVL Raffaele Cadorna, di fatto, deteneva un comando militare più che altro nominale) ed il loro seguito in Lombardia in quel momento era militarmente scarso (alcune discrete divisioni partigiane erano ancora lontane) e comunque inferiore al sia pur esiguo potenziale militare dei fascisti ancora in armi.

Mussolini e gli altri esponenti della RSI potevano essere disperati per la loro situazione senza vie di uscita, ma non erano degli ingenui o dei pazzi, e certamente non avrebbero mai definito una resa del genere con questo effimero CLN che, oltretutto, visto che la sola e reale consistenza militare clandestina era quella comunista, neppure poteva garantire l'esecuzione degli accordi e la sicurezza di chi si sarebbe arreso. Arrendersi a questa Resistenza sarebbe stato assurdo, ma oggi questo non lo si fa rilevare per non inficiare l'immagine coreografica di una mai avvenuta “insurrezione” del 25 aprile.

Per la cronaca storica, infatti, è bene precisare che Il 25 aprile 1945 non ci fu alcuna insurrezione, tranne degli scioperi e qualche incidente nelle periferie o fuori da qualche fabbrica. Solo il giorno dopo verso le 6 del mattino, quando i fascisti inquadrati da Pavolini, presero a lasciare Milano per andare a Como, la Guardia di Finanza, passata ufficialmente dalla parte della resistenza, prese possesso della Prefettura. I primi, timidi, gruppetti e auto di partigiani si cominciarono a vedere alquanto più tardi, nelle prime ore della giornata del 26 aprile 1945.

Se Mussolini avesse voluto arrendersi in quel momento e salvarsi in qualche modo, in definitiva consegnandosi agli Alleati, non aveva senso cercare di farlo tramite il CLNAI, per giunta orbo delle frange comuniste, ma lo avrebbe fatto direttamente, trincerandosi in città e attendendo il loro imminente arrivo, più o meno quello che fecero i tedeschi, cge si chiusero nei loro acquartieramenti, dopo aver contrattato in Svizzera la resa relativa alle loro forze armate stanziate in Italia che poi misero quasi subito in atto e formalmente la firmarono i primi di maggio.

Mussolini sapeva perfettamente che stava andando verso la sconfitta e quindi verso una resa che gli Alleati gli avevano ben fatto capire doveva essere incondizionata.

Era solo questione di giorni, se non di ore, ma quelle ore il Duce voleva utilizzarle per giocarsi qualche carta in virtù delle sue esplosive documentazioni e nella speranza di un qualsiasi spiraglio che potesse aprirsi all'ultimo minuto e cambiasse i termini della resa.

Era anche sensibile ad evitare ulteriori distruzioni e un probabile bagno di sangue, sapendo bene che a rimorchio delle armate Alleate e in conseguenza del rifluire delle formazioni fasciste le strade e le piazze si sarebbero riempite di “partigiani dell'ultim'ora” e di elementi incontrollabili e assetati di vendette.

Ed è per questo che aveva cercato il “contatto” con le componenti della Resistenza ed alla fine aveva privilegiato la mediazione della Curia, proprio per trattare il trapasso dei poteri e spuntare qualche garanzia che questo trapasso fosse “indolore”.

E' normale quindi che in Arcivescovado Mussolini, di fronte ad una richiesta unilaterale di resa, ne esce infuriato e per di più spiazzato dalla informativa, appresa in quella sede, sugli accordi segreti per una imminente resa tedesca che rendeva ora veramente problematico lo sganciamento finale dei fascisti.

In Curia quindi, prima minaccia di denunciare la scorrettezza tedesca alla radio, cosa che getta preoccupazione per gli eventuali contraccolpi di un annuncio del genere (sembra che Graziani promise di farlo desistere da questa iniziativa), poi lascia detto “diplomaticamente” che farà sapere le sue decisioni entro un ora, in realtà già prese e se ne viene via tornando in Prefettura a Corso Monforte.

Alcuni hanno sostenuto che il Duce, oramai un uomo finito, era forse intenzionato ad accettare le condizioni postigli, ma voleva andare prima a parlare con i tedeschi ed in questo senso chiese anche che uno dei delegati ciellenisti lo accompagnasse in Prefettura. Una storiella veramente un pò grossa da credere come scrisse A. M. Fortuna nel suo “ Incontro in Arcivescovado”.

Scriverà Graziani:

<< Egli dominò la riunione dal primo all'ultimo momento, quando si alzò di scatto per uscire, come se fosse stato in una delle tante riunioni di Palazzo Venezia>> (Rodolfo Graziani op. cit.).

Famose resteranno le parole del Duce, riferite ai tedeschi:

<< Ci hanno sempre trattato da servi, ora ci pugnalano alle spalle. Mi hanno tradito. Sin da questo momento dichiaro di riprendere nei confronti della Germania la mia libertà d'azione>>.

Testimonierà Pietro Carradori, il suo attendente, che si trovava in quei frangenti nei pressi del Duce che questi, venuto a conoscenza della imminente resa tedesca :

<<...Mussolini si mostrò non soltanto sorpreso, ma palesemente indignato, e dopo momenti di pesante tensione e di un silenzio che si poteva tagliare a fette, annunciò al Cardinale la sua decisione: “Alle otto di stasera lasceremo Milano. Non voglio che per causa mia sia sparso altro sangue”>> (Vedi Luciano Garibaldi “ Vita col Duce - Pietro Carradori racconta ” Effedieffe edizioni 2001).

Se effettivamente Mussolini ha detto questa frase al Cardinale, cambiano tutte le ricostruzioni, del resto di parte e poco attendibili, che vertono su una presunta riserva di Mussolini a voler tornare in Arcivescovado per accettare le condizioni di resa).

Una indiretta ed ulteriore conferma, di come stanno esattamente le cose, oltretutto, l'abbiamo dal successivo ed immediato comportamento del Duce, venuto via dall'Arcivescovado, quando si scagliò violentemente contro l'industriale e factotum Gian Riccardo Cella che aveva svolto la prassi mediatrice proprio per realizzare l'incontro dal cardinale Schuster. Lo accusò e con lui la Curia e i cosiddetti capi della resistenza, di volerlo fare arrendere ed ingabbiare quella sera stessa in città.

Ma in quelle ore si scagliò anche contro i tedeschi rei di aver intrapreso trattative di resa all'insaputa degli italiani, mettendo in crisi tutto il ripiegamento militare della repubblica e riferì anche di sentirsi almeno moralmente “libero” da ogni impegno verso di loro, tutti fatti questi che smentiscono qualsiasi supposizione che egli, uscito dall'Arcivescovado, voleva comunque concludere quella fantomatica trattativa.

In ogni caso, se vogliamo dirla tutta, possiamo considerare il fatto che il Duce, anche se ignorava i particolari delle trattative di resa dei tedeschi, non poteva non sapere, attraverso varie informazioni che sicuramente gli erano pervenute, che costoro stavano tramando qualcosa e che probabilmente sarebbero arrivati ad una resa e quindi, in buona parte, la sua reazione contro di essi fu anche calcolata, nell'ottica di potersi riappropriare, sull'onda emotiva di una denuncia del loro grave inadempimento, di ogni sua libertà di azione.

Ma come già accennato è altrettanto plausibile che egli era certo che se i tedeschi avessero concretizzato quelle trattative lo avrebbero informato ed invece il venirlo a sapere all'improvviso, il quel frangente ed in quella riunione, lo sconvolse e gli scombinò tutti i programmi che si era prefissato nelle prossime ore.

E' sintomatico, infatti, quando il Marazza o Graziani accennò che i tedeschi avevano trattative in corso, Mussolini rimase ad ascoltare seppure alquanto perplesso, mentre poi invece scattò in piedi come una furia ed in preda alla collera, quando Schuster o don Bicchierai dissero chiaramente che i tedeschi avevano accettato la resa ed erano attesi in Curia per la firma.

Il Duce poi, non mancò neppure di accennare ad un imminente e peggior 25 luglio, riferendosi evidentemente a quanto aveva ben percepito in quelle ore, ovvero che le Istituzioni e le varie strutture della repubblica stavano oramai defilandosi per passare armi e bagagli dalla parte dei vincitori (Guardia di Finanza in testa). Un atteggiamento, quindi, quello di Mussolini, che indica chiaramente che lo stesso si era recato a quella riunione con ben altri intenti di quelli di voler trattare una capitolazione.

L'intervento di Pertini

Un altro stravolgimento della realtà si ha poi quando si viene a sostenere che fu Sandro Pertini oltretutto giunto in Arcivescovado mentre Mussolini se ne stava andando, che fece saltare le presunte “intenzioni di arrendersi di Mussolini”.

E' questo un equivoco che si gioca tutto su la differenza, che sembra piccola, ma è profonda, tra una trattativa per un “trapasso dei poteri” ed invece una “resa incondizionata al nemico” con tanto di consegna del Duce al CLNAI, che farà millantare al Pertini meriti che non ha mai avuto.

Intanto, cominciamo con il dire che sono decisamente da relegarsi nel campo della fantasia gli aneddoti (del resto poi smentiti) che vogliono il Pertini sopraggiunto in Curia che sale le scale con la pistola in pugno, proprio mentre Mussolini ne sta uscendo, e dicesi che se lo avesse riconosciuto gli avrebbe sparato. Non è neppure ipotizzabile per scherzo, che quel pomeriggio, in una città in ogni caso ancora presidiata dai fascisti e dai tedeschi, senza alcuna presenza militare partigiana, Pertini o altri, arrivati in Curia potessero, armi in pugno, tentare qualcosa contro Mussolini.

Era accaduto, infatti, che uscito Mussolini, ara arrivato in Arcivescovado un irascibile Pertini, alquanto infuriato, seguito poi dal comunista Emilio Sereni:

<< Dove sono andati? Dov'è Mussolini? Perché lo avete lasciato andar via? Bisognava trattenerlo, prenderlo!>>.

E giù una filippica di Pertini contro il Cardinale e contro i delegati ciellenisti rei a suo dire di aver voluto “trattare” con Mussolini, garantendogli una consegna agli Alleati, mentre invece questi doveva essere processato subito (di fatto si chiedeva l'immediata esecuzione di Mussolini) .

In Curia sopraggiunse anche il console tedesco Gerhard Wolff (da non confondere con il generale Wolff che in quel momento si trovava fuori dell'Italia) per giustificare i ritardi delle notificazioni dei tedeschi circa le trattative di resa (in realtà i tedeschi avevano oramai tagliato fuori la mediazione della Curia trattando direttamente con gli Alleati in Svizzera).

Sarà l'ex prefetto Carlo Tiengo, già prefetto di Milano durante il ventennio e legato alla massoneria (sarà fucilato dai partigiani il 3 maggio successivo), che poco dopo avvertirà Mussolini delle intenzioni omicide nei suoi confronti.

Questi i fatti da cui, una storiografia veramente superficiale, oltre a presumere o dare per scontato un intento di Mussolini di consegnarsi al CLNAI, tramite la Curia, cosa non affatto vera, gratifica anche il Pertini del “merito” di aver impedito che Mussolini se la cavasse a buon mercato. Come al solito gli sforzi per ricostruire gli esatti termini della vicenda sono complicati dal fatto, che le fonti ecclesiastiche, come per esempio le testimonianze di don Bicchierai, e quelle degli altri esponenti ciellenisti, compreso Pertini, sono alquanto in contraddizione tra di loro.

Spendiamo qualche parola su quest'ultima questione riportando un ricordo di Marazza ed uno di Pertini che tra l'altro cita proprio il Marazza, il quale, ricordando l'arrivo di Pertini in Arcivescovado, rilasciò al giornalista storico Silvio Bertoldi il seguente resoconto, pubblicato sul settimanale “ Oggi” dell'aprile 1962:

<< Pertini cominciò a parlare vibratamente, sostenendo la tesi che anche se Mussolini si fosse arreso, lo si sarebbe dovuto custodire per due o tre giorni e poi, anzichè consegnarlo agli Alleati, lo si sarebbe dovuto portare in giudizio. Mentre io e Lombardi combattevamo questa tesi, rivendicando l'impegno preso, Tiengo che aveva udito ogni cosa, si alzò e scivolò fuori dalla stanza.... Aspettammo a lungo, telefonammo in Prefettura, rispose il prefetto Bassi, comunicandoci che Mussolini era partito. Non c'era altro da attendere. Per parte mia, provvidi ad avvertire Max Salvadori, capo della missione inglese, che Mussolini non si sarebbe più arreso al CLNAI>>.

Da parte sua Sandro Pertini con un articolo sull' Avanti del 16 aprile 1965 (in polemica con il comunista Pietro Secchia che aveva insinuato una volontà socialista contraria all'insurrezione ad ogni costo, scrisse, riferendosi ai momenti susseguenti il suo arrivo in Arcivescovado:

<<1) Il mio colloquio con il Cardinale Schuster fu seguito con attenzione dai miei amici presenti. Peraltro, piccola era la saletta, in cui la riunione si svolgeva.

Ma che la mia ferma risposta al cardinale sia stata chiaramente intesa dai presenti è confermato dalla intervista, mai rettificata o smentita, data dall'amico carissimo Achille Marazza nell'aprile del 1962 al giornalista Silvio Bertoldi. Dice Marazza: “Pertini cominciò a parlare vibratamente, sostenendo la tesi che anche se Mussolini si fosse arreso, lo si sarebbe dovuto custodire per due o tre giorni e poi, anziché consegnarlo agli alleati, lo si sarebbe dovuto portare in giudizio”. Mentre io e Lombardi combattevamo questa tesi, rivendicando l'impegno preso, Tiengo, che aveva udito ogni cosa, si alzò e scivolò fuori dalla stanza.

2) E che Tiengo in modo determinante abbia influito sulla decisione di Mussolini di non arrendersi più lo ha confermato, sempre nel 1962 al giornalista Bertoldi il generale Montagna, che sino all'ultimo restò vicino al capo del fascismo.

“L'ex prefetto Tiengo, afferma Montagna, aveva distintamente udito il socialista Pertini…”. Tiengo naturalmente aveva subito avvertito Mussolini che la sua vita era in pericolo e “ciò spiega tutto il resto”.

3) Achille Marazza in detta intervista (la cui sostanza è ripetuta in modo preciso in uno scritto di Paolo Monelli apparso sull'ultimo numero di “Storia illustrata” riferì una illuminante circostanza. Dice Marazza: “In arcivescovado aspettammo a lungo… telefonammo in prefettura. Rispose il prefetto Bassi, comunicandoci che Mussolini era partito. Non c'era altro da attendere. Uscimmo insieme (Marazza e Lombardi)… Per parte mia, provvidi ad avvertire Max Salvadori, capo della missione inglese, che Mussolini non si sarebbe più arreso al Clnai. Salvadori aveva infatti atteso nei pressi dell'arcivescovado che il capo del fascismo si arrendesse, per prenderlo in consegna e condurlo al sicuro. A tale scopo avevamo stabilito che dovesse essere ospitato presso la caserma “Muti”, in Via Rovello; o meglio presso l'arcivescovado stesso.

L'amico Achille Marazza stamani qui ha confermato per telefono codesta circostanza.

Da tutto questo appare chiaro che il mio intervento presso il cardinale (intervento appoggiato solo dal compagno Emilio Sereni, ma con molta energia) spinse Mussolini a non arrendersi.

E soprattutto appare chiaro che la sera del 25 aprile il compagno Sereni ed io non fossimo andati all'arcivescovado e se quindi Mussolini si fosse arreso al Clnai sarebbe stato consegnato al colonnello inglese Max Salvadori, il che voleva dire consegnarlo di fatto agli alleati (ed oggi sarebbe qui, a Montecitorio…)>> (S. Pertini: “ Resistenza: patrimonio di tutti ” Avanti 16 aprile 1965).

Come si deduce da quanto sopra, il Pertini si riferisce alla testimonianza del generale Renzo Montagna, capo delle polizia repubblicana, che raccontò il particolare dell'ex prefetto Tiengo il quale aveva avvertito Mussolini (probabilmente poco dopo che questi era arrivato in Corso Monforte in Prefettura) delle decisioni estremiste nei suoi confronti circolate in Arcivescovado.

Che il Pertini arrivato in Arcivescovado ed appreso che si era cercato di intavolare una trattativa e che Mussolini se ne era andato dicendo che avrebbe fatto conoscere la sua decisione, possa arrivare alla conclusione che fu proprio grazie al suo drastico e minaccioso intervento, riferito poi a Mussolini, che questi non si arrese più, è una grossa sciocchezza.

La faccenda, infatti, non sta nè in cielo nè in terra, perché dovremmo pensare che Mussolini, tornando in Prefettura, aveva già pensato di riunire i suoi, comunicargli i termini improponibili di una resa incondizionata, scavalcare i tedeschi nella ufficializzazione della resa e quindi farsi venire a prendere legato mani e piedi per essere consegnato agli Alleati (sempre che ci fosse arrivato vivo).

In realtà Mussolini aveva considerata chiusa la “pratica Arcivescovado” e la sua affermazione nel venir via da quell'incontro, quella cioè che “avrebbe dato una risposta entro un ora”, che doveva sentire i tedeschi, ecc. (e quant'altro gli venne messo in bocca), ammesso che fosse vera, fu solo un pro forma proferito anche per prendere tempo ed attuare le sue decisioni di trasferimento. Non può essere che così, per tanti semplici ed ovvi motivi:

1. Mussolini già prima di arrivare in Arcivescovado non aveva alcuna intenzione di arrendersi e consegnarsi al nemico senza, al limite, averne trattato le condizioni direttamente con gli emissari Alleati, e tanto meno ne aveva adesso, dopo che gli erano state presentate richieste di resa incondizionata che oltretutto non impegnavano le frange socialiste e comuniste del CLNAI e quindi la messa in pratica delle garanzie di incolumità promesse non avevano alcuna possibilità di essere rispettate. Solo uno pazzo o uno sprovveduto avrebbe potuto fidarsi degli accordi presi e deporre le armi scatenando reazioni incontrollabili.

Una resa incondizionata oltretutto che, posta in questi termini, pur con tutto il suo carisma, a Mussolini non sarebbe stato facile farla accettare alle milizie fasciste. Del resto egli aveva sempre avuto in mente la strategia di sganciamento verso il nord, attuata con una tattica temporizzatrice e finalizzata a “trattare” la resa con gli Alleati al momento opportuno e con qualche carta in mano. Anzi, proprio adesso, per il fatto di aver appreso che i tedeschi si sarebbero arresi, gli era stata concessa l'opportunità di attendere l'ufficializzazione di questa resa, per riscattare così, in un colpo solo, il peso del tradimento badogliano e riappropriarsi di ogni libertà di azione.

2. In ogni caso, pur avendo appreso in Curia, che i tedeschi avevano trattato una loro resa unilaterale, Mussolini non poteva comunque arrendersi altrettanto unilateralmente, per il semplice fatto che i tedeschi ancora non avevano ufficializzato questa resa (oltretutto la trattativa conclusiva si era trasferita in Svizzera). Egli poteva quindi denunciare l'operato infido dei tedeschi, ma non scavalcarli firmando lui stesso una resa unilaterale.

3. Non c'è nessuna attestazione che indichi un Mussolini arrivato in Prefettura e prima di ricevere l'avviso di Tiengo avesse mostrato intenzioni di accettare le condizioni che gli erano state poste dai delegati ciellenisti. Anzi tutt'altro. Il comportamento del Duce e le frasi da lui dette, immediatamente dopo essere uscito dall'Arcivescovado, attestano chiaramente che Mussolini non solo era esasperato e incattivito da quanto era accaduto in quella riunione, ma oltretutto egli respinse ostinatamente ogni consiglio di barricarsi in Milano per attendere gli Alleati. Mussolini volle in poche ore attuare una sola decisione, da tempo presa: sganciarsi verso Como.

L'informativa che gli pervenne da parte dell'ex prefetto Tiengo, può al massimo averlo ulteriormente indignato, rafforzandolo sulle sue decisioni, ma non più di tanto.

Appresso riporteremo tutti gli avvenimenti e le testimonianze susseguenti l'uscita di Mussolini dall'Arcivescovado, proprio per dimostrare quanto appena sostenuto.

Ombre in Arcivescovado

Prendendo invece a considerare un altro argomento, dobbiamo dire che la presenza del Tiengo in Curia, pone grossi interrogativi sul ruolo giocato dalla massoneria americana in quei frangenti. Interrogativi che riguardano le documentazioni che erano in possesso di Mussolini (quelle con Churchill e quelle con Roosevelt) che facevano gola agli Alleati e che videro all'opera, oltre le varie intelligence straniere, anche quelle che erano dirette da G. B. Maria Montini (il futuro Papa) in stretta collusione con l'Oss e ambienti finanziari statunitensi.

Non possiamo sapere e quindi provare, visti i pochi riferimenti e documenti (che se ci sono sono chiusi negli inaccessibili archivi Vaticani) fino a che punto questi sospetti di strani “maneggi” in Arcivescovado sono reali, certo è che non bisogna scartare nulla e il ruolo, nefasto per il fascismo, Mussolini e la RSI, di Montini è abbastanza accertato.

Altrettanto grossi interrogativi li sollevano comunque la presenza nello stesso luogo di “agenti dell'Oss americano” quali quel Giuseppe Cancarini Ghisetti, fiduciario di Dollmann, definito il “partigiano combattente dei servizi segreti”, entrato a far parte della “formazione spionistica Nemo” e già artefice, fin dall'ottobre del 1944 della collusione con gli Alleati del colonnello delle SS Eugen Dollmann e in seguito impegnato nelle trattative di resa tra il generale delle SS Karl Wolff e il cardinale Ildefonso Schuster.

E Ghisetti, oltre a riportarci alla “missione Nemo”, braccio segreto americano che agiva anche nelle fila della RSI, ci porta anche all'ingegner Giovanni Nadotti, tenente segretario e braccio destro di Romualdi che da Parma lo seguirà a Milano quando Romualdi diverrà vice segretario del PFR, ponendo seri dubbi sullo svolgersi dei futuri avvenimenti.

Tutto questo, tanto per dare il senso di quel “nido di serpi”, di quella equivocità di ambienti e situazioni con cui dovette confrontarsi il Duce nelle sue ultime ore di vita (quella sera stessa, arrivato poi a Como, Mussolini trovò le strutture della sua repubblica che erano da tempo impegnate a contrattare con il CLN locale un loro defilarsi dalle cariche. Il prefetto Renato Celio e il questore Lorenzo Pozzoli, interpretando a modo loro le direttive di Mussolini, tese ad esperire qualsiasi tentativo per decruentizzare la fase finale della guerra, in pratica stavano trattando con gli elementi delle resistenza, anche qui privi di qualsiasi consistenza militare o seguito di partigiani armati, un trapasso indolore dei poteri. Il comandante della piazza Ferdinando Vanini, comandante provinciale della GNR, si era ovviamente adeguato all'andazzo in corso. Tutti costoro prospetteranno al Duce l'impossibilità di trattenersi in sul posto, a causa della minaccia di migliaia di partigiani (in realtà inesistenti) pronti a calare in città e di possibili bombardamenti Alleati. Fu questo ambiguo operato che fece intuire a Mussolini il crollo improvviso della sua amministrazione e il timore di un coinvolgimento della popolazione, che lo spinse ad abbandonare Como verso l'alba senza aspettare le formazioni dei fascisti in arrivo da Milano. Formazioni che poi non arrivarono più in soccorso del Duce, decretandone la fine).

Al termine di quell'incontro scriverà il maresciallo Graziani:

<< Così si chiuse la riunione presso l'Arcivescovado poggiata sull'equivoco di voler occultare fino all'ultimo momento un fatto così importante come la resa tedesca e considerare quella fascista indipendente da essa. Sia precisato che non poteva trattarsi se non delle formazioni del partito (tra l'altro quelle che avrebbero voluto arrendersi, perché le altre avrebbero seguito il Duce in ripiegamento, n.d.r.) ; non già delle Divisioni le quali inserite com'erano nello schieramento avanzato, avrebbero dovuto seguire la sorte delle truppe tedesche. Mussolini ritenne e lo disse al ritorno al palazzo del governo che “si trattava di un espediente inscenato per incapsularlo quella notte in Milano con tutto il governo >> ( R. Graziani, op. cit.).

Tra le tante interpretazioni di quell'incontro e le tante sue ricostruzioni, tutte difformi una dall'altra, colui che forse colse in pieno la realtà delle cose è stato l'avvocato Alessandro Zanella che, parlando di Mussolini, ebbe a scrivere:

<<... non vuole salvarsi sotto le sottane di Schuster, così come teme di finire rinchiuso nella torre di Londra o al Madison Square Garden, zimbello dei nuovi potenti del mondo. Evita anche una edizione italiana del processo di Norimberga, come dirà anche Churchill,... perché vuole ad ogni costo che la sua vicenda politica ed umana vada a concludersi con il rispetto che merita e non in un circo con la folla vociante e impazzita dall'odio>> ( A. Zanella, op. cit.).

Per comprendere o meglio veder confermate ancor meglio, tutte le vere intenzioni di Mussolini, rispetto a quell'incontro, dobbiamo considerare ora quanto accadde al rientro del Duce in Prefettura.

Il ritorno di Mussolini in Prefettura

Torniamo qualche ora indietro, a Milano il 25 aprile, quando fin dal mattino si stavano manifestando, un pò dappertutto, i soliti sintomi di squagliamento tipici di queste situazioni. Ci sono militi e addetti a funzioni di natura militare o di polizia che non tornano nei reparti di appartenenza, vari funzionari e impiegati negli uffici governativi che preferiscono non presentarsi al lavoro, uffici pubblici che presentano l'aspetto dello sgombero, con squagliamento degli impiegati, sparizioni di macchine da scrivere, radio, ecc., ed infine scioperi, il fermo dei tram, e così via. Nel primo pomeriggio le sirene annunciarono l'inizio dello sciopero generale. I cittadini in genere si tenevano al largo dai reparti militari o di partito che passavano per le strade, molti negozi abbassavano le saracinesche e cinema e teatri risulteranno deserti.

Ricorda il federale di Milano Vincenzo Costa altri avvenimenti di quella giornata, anche se fornisce quale riferimento l'orario delle 16 come successivo alla partenza di Mussolini per l'Arcivescovado, cronologia questa un pò diversa da altri riscontri, ma comunque accettabile:

<<... appena Mussolini si diresse verso l'Arcivescovado, io tornai in piazza San Sepolcro. Notai che la circolazione tranviaria era completamente arrestata. Una calma apparente gravava sul centro cittadino. In Galleria, padre Eusebio stava parlando a qualche centinaia di fascisti, che lo ascoltavano silenziosi con le armi al fianco....

Alle 16, improvvisamente, incominciarono a suonare le sirene di tutti gli stabilimenti e del dispositivo antiaereo. Intuimmo subito che quel segnale annunciava l'insurrezione antifascista. Il lugubre ululato durò circa dieci minuti. Le vie si fecero deserte, la popolazione si chiuse nelle case. Ma i partigiani non apparivano... non accadde nulla, cominciarono invece ad arrivare dai rioni cittadini e dalla provincia i reparti della Brigata Nera che obbedivano alle direttive impartite con la “riservata 197” (...)

La città presentava un aspetto allucinante, da fine del mondo. I rari passanti passavano rasente i muri, diretti alle loro abitazioni.... Saranno state le 18 quando decisi di tornare in Prefettura. Il portone del palazzo di Governo era socchiuso... Nel vano di una finestra, solo e triste, vidi il cieco di guerra, medaglia d'oro, Borsani>> (vedesi: G. Pisanò, op. cit.) .

Costa ricorderà anche che in viale Toscana alcuni operai della OM spararono contro automezzi militari tedeschi, mentre invece, verso le 17, un ufficiale della “Muti”, uno della “Decima” e alcuni tedeschi erano stati catturati in Piazza della Stazione da alcuni operai asserragliati negli stabilimenti Pirelli. Una compagnia della “Muti” rinforzata da un plotone tedesco prese d'assalto l'edificio, fece uscire i circa 600 operai e liberarono i prigionieri, alquanto malconci, ma vivi.

Insomma si stava creando in città un clima surreale, ma esclusa qualche revolverata in periferia o nei pressi di qualche stabilimento industriale, questa storica insurrezione del 25 aprile nessuno l'ha vista e nè la vedrà fino al giorno dopo e dopo l'evacuazione dei fascisti.

Le sorti della Repubblica in ogni caso erano, di fatto, legate a quelle della guerra e, come scrisse nel suo Contromemoriale , Bruno Spampanato, improvvisamente non si ebbero più notizie proprio della guerra, mentre nessun piano era stato predisposto per queste emergenze.

Racconta il questore Secondo Larice:

<< Poco prima di mezzogiorno si era cominciato a parlare di una probabile partenza, ma nulla sembrava deciso non essendo pervenute le notizie che si attendevano dalla Valtellina, dal generale Onori>>.

Per inquadrare bene le intenzioni di Mussolini di lasciare Milano, prima ancora dell'incontro pomeridiano in Arcivescovado, è anche utile leggere quanto riportato da M. Viganò nel suo “ Mussolini, i gerarchi e la in Svizzera ” già citato:

<< In effetti, ancora in un colloquio a Milano il 25 aprile mattina con Garobbio, il funzionario originario del Canton Ticino, il Duce esclude la scappatoia della Svizzera e annuncia il ripiegamento su Como :

“ Fra qualche giorno andremo a Como. In prefettura vi diranno dove mi potrete trovare. Poi proseguiremo per la Valtellina. Perché non venite anche voi?".

"Potrei ben venire", gli dico un'altra volta traducendo dal dialetto. "Gli svizzeri mi hanno offerto questa volta l'ospitalità". Una pausa: "Ho risposto che non vado in Svizzera […] cosa avete intenzione di fare?".

"Non ho ancora deciso ma, dovendo lasciare Milano, pensavo di rientrare a casa mia...".

"Dove?". "A Moltrasio". "Sulla sponda occidentale del lago", precisa e, dopo una pausa: "Rientrate in seno alla vostra famiglia e, dopo due o tre giorni, venite da me a Como. Ho dato disposizioni che i fascisti si concentrino nel triangolo Milano-Lecco-Como. Poi proseguiremo per la Valtellina. In Valtellina potreste essere utile, conoscete la terra, la gente". >> (Vedi: Aurelio Garobbio, “ A colloquio con il Duce” ).

Fernando Feliciani, già vice comandante della GIL, ora alla Divisione Italia, come capitano dei bersaglieri, amicissimo del ministro Mezzasoma, racconterà:

<< Mi incontrai con Mezzasoma alle 12 circa, dopo che alla sede del partito (in via Mozart) avevo riscontrato confusione e disorientamento ... Mezzasoma (che era sereno, pur non nascondendo la drammaticità del momento) mi comunicò che nel pomeriggio tutti i membri del governo si sarebbero ritrovati in Prefettura per poi trasferirsi a Como>>.

Mussolini che come si vede, anche, ma non solo, dalla testimonianza di Feliciani aveva deciso di lasciare Milano prima ancora di recarsi da Schuster, tornato in Prefettura a Corso Monforte, dopo l'incontro all'Arcivescovado, decide quindi di lasciare Milano a sera intorno alle 20, in coerenza con la sua intenzione di decruentizzare la fase finale della guerra e per avere ancora mano libera nel da farsi visto che ora, i tedeschi con la loro intenzione di firmare una resa, trattata unilateralmente e di nascosto, lo dovranno giocoforza liberare moralmente .

In ogni caso Mussolini, ancor più dopo quell'incontro vuole uscire da Milano ed in questa ottica diventa applicabile il piano di ritirata che ruota nel triangolo Milano-Como-Lecco. Marino Viganò ricorderà nel suo saggio “ Mussolini i gerarchi e la in Svizzera ”, già citato:

<< Lo stesso Mussolini, secondo una memoria di Mario Bassi, capo della provincia di Milano, avrebbe subito chiarito la destinazione di Como prima della riunione con i gerarchi al sottocapo di stato maggiore della Guardia nazionale repubblicana, Asvero Gravelli; e l'avrebbe ribadita a ogni interlocutore nell'ora seguente>> .

E tutto questo in contrasto con coloro, Graziani (che pur precedentemente era contrario) e Borghese in testa, che preferirebbero arroccarsi, magari nel Castello Sforzesco che considerano difendibile fino all'arrivo degli Alleati.

Sarebbe una soluzione di difficile messa in pratica, ma che probabilmente consentirebbe di salvare la pelle e qualcuno forse spera anche parte delle proprie posizioni personali in base alle condizioni di resa con gli Alleati.

I fascisti per lo più preferirebbero ripiegare in Valtellina dove si era cercato di predisporre il R.A.R. (Ridotto Alpino Repubblicano), ma oramai con la defezione tedesca anche questa ipotesi, quale ultimo “ridotto”, caldeggiata da Pavolini e dal federale Costa, intesa come estremo baluardo e arroccamento armato, a prescindere dal fatto che ben poco si era predisposto militarmente in questo senso, sembra difficilmente praticabile.

Mussolini, conformemente alle sue precedenti decisioni e alle ultime situazioni si indirizza comunque verso il ripiegamento su Como, pre tappa verso la Valtellina, a prescindere da quello che poi, sul posto, si potrà militarmente mettere in atto (molto poco visto lo stato delle cose) ed in questo senso da a tutti appuntamento a Como.

L'uscita di Mussolini da Milano, quindi, con i rischi e le incertezze che comporta, contro il parere di molti seguaci e personalità ivi presenti, smonta totalmente qualsiasi ipotesi che egli in quel momento già voleva arrendersi agli Alleati, come invece era nei desiderata di molti.

Per Mussolini, se resa ci dovrà essere, essa dovrà avvenire a certe condizioni, a tempo debito e facendo anche pesare le importanti documentazioni in suo possesso.

Ma torniamo all'Arcivescovado, al rientro in Prefettura di Mussolini e il suo seguito, reduci dall'incontro in Curia. L'industriale Cella gli domanda se devono rientrare da via Mozart, e il Duce quasi gli urla: << Si entri dalla porta grande!>>.

Poco dopo, racconterà Graziani, che intanto aveva persuaso Mussolini a non parlare alla radio, come questi aveva minacciato in Arcivescovado, per denunciare il comportamento dei tedeschi, il Duce ebbe un altro scatto d'ira con il comandante tedesco di piazza, Heinz Wening.

Con una ricostruzione frutto del vaglio di decine di testimonianze e pubblicazioni in proposito, scriverà A. Zanella nel suo “ L'ora di Dongo ”, op. cit.:

<< Mussolini scende, pallido come la morte, il viso contratto, le labbra affilate, stringe in una mano la busta con il libro di Schuster. Tutti scattano sull'attenti, applaudono, non risponde. Sosta, chiama forte due ufficiali tedeschi della scorta.

Parla con loro concitato, scandendo le parole in tedesco.

E' il momento fissato forse nella foto più famosa di quel giorno, nella quale si vede Birzer preoccupato a fianco del Duce che lo sta investendo con una serie di accuse

Ai piedi della scala incontra Asvero Gravelli (sotto capo di Stato maggiore della Guardia, n.d.r) e gli dice impetuosamente:

”Sapete cosa mi ha detto il Cardinale? Pentitevi dei vostri peccati! E sapete perché? Perché non l'ho aiutato a diventare Papa!” E' amaro, Gravelli chiede ordini. “Voi mi raggiungerete dopodomani a Como. ...e con irruenza rabbiosa si avvia per le scale...”

Gli va incontro il guardasigilli (Piero Pisenti, n.d.r.) :

“Pisenti, siamo stati traditi dai tedeschi e dagli italiani”, lo apostrofa. E' eccitatissimo, il disgusto gli si legge in viso. “Era fuori di sè” dirà il figlio Vittorio.

Renzo Montagna (generale, capo della Polizia, nd.r.) lo vede arrivare come un turbine...

“Gli andai incontro e mi accorsi che era incredibilmente eccitato, addirittura sconvolto, Più che parlare gridava: “Sono dei criminali, degli assassini! Non è possibile trattare con loro”....

Mussolini grida anche: “Siamo stati traditi da tutti. Non c'è da fidarsi di quella gente. Sospendete anche le vostre trattative”. Tutti i ministri e i gerarchi gli si fanno incontro. Tutti vogliono dire qualcosa. Ci sono Pisenti, Montagna, Tarchi, Mezzasoma, Liverani, Zerbino, Barracu, Bassi e Cella. Chiamati espressamente arrivano anche Graziani e Pavolini. La porta viene chiusa.

“Intanto” scrive Secondo Larice (questore, tenente colonnello della Forestale, nd.r.) “si diramano ordini urgentissimi tra cui quello di far venire subito un reparto della “Muti” con carri armati al comando del tenente Rovetta e lo stesso comandante Colombo, per scortare la colonna.

Si telefona a Como al prefetto Celio, al federale Porta, al questore. Tutti i ministri, il seguito e molti altri si preparano a partire. L'unica persona tranquilla che avevo notato in anticamera era stato Nicola Bombacci....”.

Nel grande studio di Mussolini si è sui carboni ardenti. La frase di Mussolini rompe il silenzio: “Bisogna agire, qui vogliono fare un altro 25 luglio. Mi vogliono arrestare. Siamo caduti in un tranello. Ma questa volta non mi avranno”....

Quando si accorge che Cella lo ha seguito fin nel suo studio diviene furioso e lo aggredisce:

“Mi avete ingannato, mi avete condotto dove mi è stata richiesta la resa senza condizioni. Ora Cella me ne risponderete con la vostra vita” >>.

Interrompiamo un momento la ricostruzione degli avvenimenti di quelle ore fatta da A. Zanella, che già da sola evidenzia come il Duce uscì dall'Arcivescovado senza alcuna intenzione di ripensare ad una accettazione delle assurde condizioni di resa postegli, per riportare un passo di un rapporto americano, che si rifà anche ad un articolo (probabilmente scritto dall'industriale Cella) su “ Il Popolo ” del 2 Maggio 1945, vi si leggono queste frasi di Mussolini che più o meno trovano riscontri in altri testi:

<>.

Riprendiamo dal libro di A. Zanella:

<
Graziani è contrario allo spostamento del governo. Sono d'accordo con lui i generali che non intendono muoversi da Milano. Buffarini e Tarchi sono decisi a passare in Svizzera.

Pavolini propone di finirla con una bella morte in Valtellina e con quest'ultimo altri.

La discussione dura parecchio con un Graziani sempre più inferocito. Ma il Duce non cambia minimamente parere. Mussolini a Milano non vuole restare. Prevede delle stragi e dice: “Non voglio che per causa mia sia sparso del sangue”.

Dopo qualche minuto ricompare Graziani che dice:

“Gli americani hanno passato l'Adige. I tedeschi sono irrimediabilmente sconfitti e le avanguardie nemiche possono arrivare a Milano da un ora all'altra”.

“Bisogna andare, bisogna andare a Como. La notte la passo a Como” dice il Duce a Mario Bassi (capo della Provincia di Milano, n.d.r.). ..>>.

Abbastanza simile la ricostruzione di quelle ore fatta dal ricercatore storico Marino Viganò, anche se si indica un orario delle 18,30 quale momento in cui il Duce lascia la Prefettura d Milano, che appare un orario troppo anticipato:

<< Nel suo studio, Mussolini prendeva le ultime decisioni. C'erano Graziani, Pavolini, Romano, Liverani, Mezzasoma, Barracu, Pisenti, Bassi, Silvestri e qualche altro.

Cella era scomparso, vista la pessima luce che i suoi uffici avevan gettato nello spirito del duce. A un certo momento, ascoltati i più vari pareri, disse: - “È necessario partire per la Valtellina. Comunque, cerchiamo di andare a Como”. Graziani ribatté: - “Duce, non vi garantisco la libertà delle strade, di notte”. Mussolini, determinatissimo, insisté: - “Bisogna andare a Como”. Anche Borghese fu tra coloro che lo sconsigliarono.

Narrò d'aver proposto, non si sa se a questo punto, che si restasse in città e che ci si consegnasse da militari a militari. Poiché il maresciallo Graziani insisteva, il duce si ritirò con lui e col prefetto di Milano nel vano di una finestra. Il maresciallo ribadì che, a suo avviso, era un errore lasciare in quel momento la città;

Bassi assicurò che non erano ancora svanite le speranze di trattative onorevoli e che, in ogni modo, il tempo non stringeva. Stanco di quell'inutile schermaglia il duce aprì senz'altro la finestra e, rivolto agli uomini della sua scorta che sostavano nel cortile lì sotto, con voce sonora gridò di prepararsi alla partenza. Fra questi c'erano i soldati del battaglione contraereo tedesco che l'avevano seguito da Gargnano e che attendevano in un loro autocarro. Fu questione di una mezz'ora: il tempo di raccogliere i bagagli di Mussolini. Tra le 18 e le 18 e 30 al massimo, scese nel cortile. Aveva una borsa e la portava personalmente. Indossava il cappotto.

... Una volta di più il "colloquio in arcivescovado" si rivelerebbe per ciò che è stato nella realtà: intermezzo del tutto casuale - significativo se si fossero in effetti raggiunti accordi; ininfluente se non avesse prodotto nulla, come non fosse avvenuto - entro una strategia già delineata da mesi e resa esecutiva in pochi minuti, constatato che, nelle trattative con la controparte ciellenistica, possibilità di conseguire l'approvazione unanime del CLNAI non esistono.

"Mussolini aveva deciso di raggiungere Como in serata", annoterà l'allora vicesegretario del PFR, Pino Romualdi: "Tutti - disse -, tutti dovete venire a Como". E credeva che a Como potesse essere rimesso in piedi, anche per un giorno soltanto, ciò che stava in quel momento crollando a Milano [...] Mi guardò con un affettuoso sorriso: "Romualdi, a domattina a Como " >>.

E ancora Viganò riporterà una testimonianza del giornalista Pino Rolandino:

<>.

Ma come sappiamo Valerio Borghese restò a Milano al comando della sua X Mas e venne poi prelevato dagli americani su disposizione di Jesus J. Angleton, dirigente dell'Oss in Italia, che lo misero in salvo per utilizzarlo in seguito nei loro scopi di colonizzazione e controllo del paese anche in un ottica anticomunsita.

Mussolini incontrerà anche la moglie di Bassi alla quale dirà queste significative parole:

<>.

L'attendente del Duce Carradori, racconterà questo significativo aneddoto:

<< Rientrai in Prefettura, ci fu la nota sfuriata di Mussolini al tenente Birzer, che gli scodinzolava attorno. Quindi si chiusero tutti nel suo ufficio. Graziani non voleva saperne di lasciare Milano e insisteva sulla necessità di trincerarsi tutti all'interno del Castello Sforzesco, che egli riteneva facilmente difendibile, e qui attendere gli anglo americani. Ma Mussolini al solo nominare gli inglesi, andò su tutte le furie, facendo capire che mai e poi mai si sarebbe consegnato nelle loro mani. Ben presto la decisione di lasciare Milano alle ore 20 fu ufficializzata e comunicata a tutti gli uffici competenti>>.

Ancora Feliciani ricorderà:

<< Mezzasoma alla fine mi raggiunse dicendo: “Partiamo, il Duce si è deciso, cercavano di farlo restare, ma si è convinto che trasferirsi a Como è la cosa migliore, del resto rimaniamo in territorio italiano>>.

Anche Larice ricorda:

<< Bombacci con una valigetta di levatrice, mi saluta: “Dove va lui, vado io”. Approfitto di un attimo che ha meno gente attorno e prendendo il coraggio a due mani, gli dico: “Duce, partite?! Non lasciate Milano... “. Si volta di scatto, mi risponde: “ Anche tu raggiungerai Como, pre campo”.

Mentre nel cortile della Prefettura sono già pronte le autovetture per la partenza, si moltiplicano le invocazioni di restare in città, alcuni piangono, altri come Carlo Borsani, l'eroico cieco di guerra, lo implorano, qualcuno vorrebbe trattenerlo con la forza.

Il Duce è però irremovibile, si congeda ripetendo a Bassi:

<< Dovete tutti venire a Como, resta solo Pisenti (ministro di Grazia e Giustizia, n.d.r) , ci potrebbe essere qualcosa da fare>>.

E l'altro: “ per il generale della Polizia, per il generale Montagna quali ordini?” “Ditegli che lo aspetto domani mattina a Como”.

Sale in macchina con Nicola Bombacci e parte, davanti l'autista Salvati e dietro Carradori di scorta.

E così Mussolini andò incontro al suo destino che lo portò a Piazzale Loreto.


http://www.corrierecaraibi.com/FIRME_MBarozzi_100722_La-Trattativa-in-Arcivescovado.htm

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