sabato 1 maggio 2010

"Il Sud nell'Unità d'Italia: inclusione o annessione?"










Le condizioni socio-economiche del Regno delle Due Sicilie al momento dell’unificazione

- di Ubaldo Sterlicchio -

In seguito all’unificazione territoriale dell’Italia nel 1860, la storia del risorgimento fu scritta ed adeguata in funzione dei nuovi padroni, i Savoia.
Il primo atto fu quello di giustificare l’invasione – avvenuta senza un motivo e senza dichiarazione di guerra – del Regno delle Due Sicilie, uno Stato in pace con tutti; in sostanza, quasi un tradimento. A tal fine, fu inventata e propagandata la più grande menzogna risorgimentale: quella del degrado e della miseria del Sud povero ed arretrato, a differenza del Nord, in particolare il Piemonte, ricco ed evoluto.
A questo punto, una domanda sorge spontanea: «Ma Vittorio Emanuele II e Cavour furono allora dei grandissimi fessi ad invadere e conquistare il Regno delle Due Sicilie? Furono degli autolesionisti, perché, così facendo, vennero a legarsi una simile “palla al piede” e ad accollarsi tutti nostri mali?»
Invece non fu così. I Savoia ed i loro compagni di merenda non erano né fessi, né autolesionisti, ma dei grandissimi furbacchioni!
Al momento dell’unità d’Italia, la ricchezza dello Stato meridionale, costituita dai depositi aurei esistenti presso le banche delle Due Sicilie, era di poco inferiore a mezzo miliardo di lire-oro ed in quantità doppia rispetto a quella di tutti gli altri Stati italiani messi assieme. A ciò si aggiungeva la solidità della stessa moneta circolante, tutta in metallo pregiato (niente carta) che, per il suo valore intrinseco, non si era mai svalutata (quindi, l’inflazione,
era un fenomeno sconosciuto!) nei 126 anni in cui regnò la dinastia borbonica.
Un’altra verità storica venne sapientemente occultata dalla storiografia risorgimentalista, e cioè che, subito dopo l’unità, fu combattuta una cruenta guerra civile, con centinaia dimigliaia di morti (1 milione di meridionali), passata alla storia come lotta al brigantaggio.
I Savoia hanno fatto credere di aver “liberato” il Sud dalle angherie e dalla fame. Ma dopo oltre 10 anni di dura repressione, iniziò un massiccio esodo di popolo dal Sud, ove prima erano sconosciute la disoccupazione e l’emigrazione (non meno di 26 milioni di emigranti).
In realtà, la Sardegna dei Savoia era ben più depressa della Sicilia dei Borbone e Napoli era ben più civile e moderna di Torino.
Nel 1861, il bilancio finanziario dello Stato italiano risultò essere il seguente:
MONETE DEGLI ANTICHI STATI ITALIANI AL MOMENTO DELL’ANNESSIONE (1861)
(in Lire Italiane del 1861)
Lombardia milioni 8,1
Ducato di Modena milioni 0,4
Parma e Piacenza milioni 1,2
Roma milioni 35,3
Romagna, Marche edUmbria milioni 55,3
Piemonte e Sardegna milioni 27,0
Toscana milioni 85,2
Venezia milioni 12,7
Regno delle
Due Sicilie milioni 443,2
Totale milioni 668,4

Questi dati sono relativi al PRIMO CENSIMENTO GENERALE del neonato Regno d’Italia, e sono stati tratti dal testo: “Scienza delle Finanze” di Francesco Saverio Nitti (grande economista e statista, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d'Italia dal 23 giugno 1919 al 15 giugno 1920), edito da Pierro nel 1903, pag. 292. Al patrimonio dello Stato napoletano si aggiungeva poi il patrimonio privato, in denaro, ori e preziosi, della Famiglia Reale Borbonica, fra le più ricche d’Europa, unica ad avere ben quattro Regge (Napoli, Capodimonte, Portici e Caserta). Alla morte di Ferdinando II nel 1859, il patrimonio dei Borbone fu quantificato in 6.000.795 ducati, pari a 25 milioni di lireoro italiane. Dopo l’arrivo dei Savoia a Napoli, di tale patrimonio non si è saputo più nulla.
Come le ricchezze finanziarie del Regno della Due Sicilie erano più consistenti di quelle piemontesi, così il debito pubblico era più modesto: A seguito della fusione, come ci riferisce Giacinto de’ Sivo ne “I Napoletani al cospetto delle Nazioni Civili”, i Meridionali dovettero pagare anche il debito pubblico piemontese, che era 4 volte superiore a quello delle Due Sicilie.
Ma, per meglio capire cosa avvenne e l’enorme danno che il Regno Sardo-Piemontese arrecò al Sud con la conquista del Regno delle Due Sicilie, vanno soprattutto evidenziati i primati (se ne contano oltre 50) raggiunti durante il periodo borbonico (Gennaro De Crescenzo: “Le industrie del Regno di Napoli”):

1735 - Prima Cattedra di Astronomia, in Italia, affidata a Napoli a Pietro De Martino
1754 - Prima Cattedra di Economia, nel mondo, affidata a Napoli ad Antonio Genovesi
1762 - Accademia di Architettura, una delle prime e più prestigiose in Europa
1763 - Primo Cimitero italiano per poveri (il "Cimitero delle 366 fosse", nei pressi di
Poggioreale a Napoli, su disegno di Ferdinando Fuga)
1781 - Primo Codice Marittimo nel mondo (opera di Michele Jorio)
1782 - Primo intervento in Italia di Profilassi Anti-tubercolare
1783 - Primo Cimitero in Europa ad uso di tutte le classi sociali (Palermo)
1789 - Prima assegnazione di "Case Popolari" in Italia (San Leucio presso Caserta)
1789 - Prima istituzione di assistenza sanitaria gratuita (San Leucio)
1792 - Primo Atlante Marittimo nel mondo (G Antonio Rizzi Zannoni, Atlante Marittimo
delle Due Sicilie.(vol. I) elaborato dalla prestigiosa Scuola di Cartografia napoletana)
1801 - Primo Museo Mineralogico del mondo
1807 - Primo "Orto Botanico" in Italia a Napoli
1812 - Prima Scuola di Ballo in Italia, annessa al San Carlo
1813 - Primo Ospedale Psichiatrico italiano (Reale Morotrofio di Aversa)
1818 - Prima nave a vapore nel mediterraneo "Ferdinando I"
1819 - Primo Osservatorio Astronomico in Italia a Capodimonte
1832 - Primo Ponte sospeso in ferro in Europa continentale ("Real Ferdinando" - sul
Garigliano, progettato dall’ing. Luigi Giura)
1833 - Prima Nave da crociera in Europa "Francesco I"
1835 - Primo istituto italiano per sordomuti
1836 - Prima Compagnia di Navigazione a vapore nel Mediterraneo
1839 - Prima Ferrovia italiana, seconda al mondo (la prima fu inglese), la Napoli-Portici
1839 - Prima Illuminazione a Gas di una città italiana Napoli (terza in Europa dopo Londra e Parigi) con 350 lampade
1840 - Prima Fabbrica Metalmeccanica d'Italia per numero di operai (1050 + 7000 nell’indotto) a Pietrarsa presso Napoli
1841 - Primo Centro Sismologico in Italia presso il Vesuvio
1841 - Primo sistema a fari lenticolari a luce costante in Italia
1843 - Prima Nave da guerra a vapore d'Italia (pirofregata "Ercole"), varata a Castellammare
1843 - Primo Periodico Psichiatrico italiano pubblicato presso il Reale Morotrofio di Aversa da Biagio Miraglia
1845 - Prima Locomotiva a Vapore costruita in Italia a Pietrarsa
1845 - Primo Osservatorio Meteorologico italiano (alle falde del Vesuvio)
1852 - Primo Telegrafo Elettrico in Italia (inaugurato il 31 Luglio) Capua-Caserta
1852 - Primo Bacino di Carenaggio in muratura in Italia (nel porto di Napoli)
1852 - Primo esperimento di Illuminazione Elettrica in Italia a Capodimonte
1853 - Primo Piroscafo nel Mediterraneo per l'America (Il "Sicilia" della Società Sicula Transatlantica del palermitano Salvatore De Pace: 26 i giorni impiegati)
1853 - Prima applicazione dei principi della Scuola Positiva Penale per il recupero dei malviventi
1856 - Primo Premio Internazionale per la Produzione di Pasta (Mostra Industriale di Parigi)
1856 - Primo Premio Internazionale per la Lavorazione di Coralli (Mostra Industriale di Parigi)
1856 - Primo Sismografo Elettromagnetico nel mondo costruito da Luigi Palmieri
1859 - Primo Stato Italiano in Europa, per produzione di Guanti (700.000 dozzine di paia ogni anno)
1860 - Prima Flotta Mercantile e prima Flotta Militare d'Italia (seconda nel mondo)
1860 - Prima nave ad elica (Monarca) in Italia varata a Castellammare
1860 La più grande Industria Navale d'Italia per numero di operai (Castellammare di Stabia, 2000 operai)
1860 - Primo tra gli Stati italiani per numero di Orfanotrofi, Ospizi, Collegi, Conservatori e strutture di Assistenza e Formazione
1860 - La più alta percentuale di medici per abitanti in Italia
1860 - La più bassa percentuale di mortalità infantile d'Italia
1860 - Prima città d'Italia per numero di Teatri (Napoli)
1860 - Prima città d'Italia per numero di Conservatori Musicali (Napoli)
1860 - Primo "Piano Regolatore" in Italia, per la Città di Napoli
1860 - Prima città d'Italia per numero di Tipografie (113, in Napoli)
1860 - Prima città d'Italia per numero di pubblicazioni di Giornali e Riviste (Napoli)
1860 - La più alta quotazione di rendita dei titoli di Stato (120% alla Borsa di Parigi)
1860 - Il Minore carico Tributario Erariale un Europa
1860 - Maggior quantità di Lire-oro conservata nei Banchi Nazionali.

I primi assegni bancari della storia furono emessi dalle banche delle Due Sicilie, chiamati
inizialmente con il nome di polizzini sulle fedi di credito.

Nel 1856, alla “Mostra dell’industria di Parigi”, il Regno delle Due Sicilie fu premiato quale Terza Nazione Industriale al mondo. Nessun altro Stato italiano fu menzionato (Vittorio Gleijeses “Storia di Napoli”, pag. 852, Ciano).
In campo tributario, l’erario napoletano era il più prosperoso d’Europa, quantunque a fronte di un sistema impositivo fiscale giudicato il più mite del continente; durante il regno
dei Borbone, infatti, la pressione fiscale non venne mai accresciuta. Questo sistema tributario era regolamentato da tre sole leggi e poneva il massimo rispetto per la proprietà e l’iniziativa privata, agevolando in ogni maniera la ricchezza di ognuno e, quindi, quella generale. L’unica imposta “diretta” esistente era la fondiaria (10%), mentre imposte “indirette” erano quella sulle dogane, sui tabacchi, sul sale, sulle polveri da sparo e sulle carte da gioco (in sostanza, tutte imposte di monopolio); poi quella sul registro, quella sulla lotteria e quella sulle poste.
Tra il 1815 ed il 1860, le aliquote di queste imposte non furono mai aumentate, né furono istituite nuove tasse. Tuttavia, le entrate erariali erano sempre in espansione.
Con il nuovo Stato unitario, vi fu l’imposizione di nuovi ordinamenti e di nuove leggi, nonché di nuove e più gravose tasse che, nel loro insieme, assunsero i connotati di vere e proprie confische; furono colpiti i patrimoni delle famiglie con sistematica rapacità, per ricavare denaro ovunque. Furono infatti introdotte: l’imposta personale; le tasse sulle successioni, sulle donazioni e sui mutui; quelle sull’emancipazione e sull’adozione; la
tassa sulle pensioni; la tassa sanitaria; la tassa sulle fabbriche, sull’industria e sulle società industriali; la tassa sui pesi e sulle misure; il diritto d’insinuazione; il diritto di esportazione sulla paglia, sul fieno e sull’avena; il diritto sul consumo delle carni, delle pelli, dell’acquavite e della birra; la tassa sulle “manimorte”; la tassa per la caccia; la tassa sulle vetture; tutti nuovi balzelli, questi, imposti al Sud immediatamente dopo la conquista piemontese.
La tassa più odiosa fu quella “sulla successione” che, di per sé, è un’assurdità: «perché
pagare per avere ciò che è già tuo?»
Negli anni seguenti, verrà applicata un’altra odiosa tassa, quella “sul macinato”, che
penalizzerà soprattutto le classi più povere; successivamente, verrà inventata addirittura la risibile tassa “sulle finestre”!
Ma c’è di più. La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu un caso di vero e proprio drenaggio di capitali che, dal Sud, andarono al Nord.
Fra le conquiste sociali conseguite nel Regno delle Due Sicilie, ricordiamo la Cassa Mutua Malattie: la prima forma al mondo di assistenza sanitaria pubblica si ebbe a San Leucio, laddove, a fine messa, i fedeli erano tenuti a versare un fiorino in una cassa custodita dal parroco, utilizzata per assicurare l’assistenza medica e farmaceutica ai bisognosi.
Il Diritto allo Studio: la prima esperienza italiana si ebbe con un Decreto Regio del 1758 di Ferdinando IV, ove veniva sancito l’obbligo, per ogni Comune, di avere almeno un corso gratuito in parallelo con i normali corsi scolastici a pagamento.
Il primo Sistema Pensionistico statale, con ritenuta del 2% (appena!) sugli stipendi.
Per le Terre Demaniali, ricordiamo gli usi civici e l’istituto dell’enfiteusi: la terra veniva data in uso a chi la lavorava, per il sostentamento della propria famiglia, dietro pagamento della c.d. decima; in sostanza, i contadini erano detentori ed usufruttuari dei terreni demaniali, che restavano sempre di proprietà pubblica.
L’abolizione degli “Usi civici” e le leggi sulla requisizione dei beni ecclesiastici (legge 7 luglio 1866 di soppressione degliOrdini e delle Corporazioni religiose e legge 15 agosto 1867 per la liquidazione dell’Asse ecclesiastico) provocarono un disastro. La vendita al miglior offerente di quei terreni, procurò molti quattrini ad un Piemonte fortemente indebitato, ma gettò sul lastrico migliaia e migliaia di famiglie. Non restò che la via per le Americhe.
I “galantuomini” liberali, che avevano spianato la strada ai nuovi conquistatori, detenendo il potere nei municipi, di quella “bella torta” fecero un ingordo banchetto. Nasce qui il grande latifondo e la “Questione Meridionale”. Prima di allora non ve n’era traccia alcuna.
Presso il setificio di San Leucio vi era stata la prima organizzazione sociale pre-industriale; si trattava di un paese costruito in funzione del lavoro, che si autogestiva autonomamente, in base allo Statuto emanato dal re Ferdinando IV nel 1789. In virtù del citato statuto, le giovani coppie ebbero diritto di prelazione per sistemarsi. Fu così costruito un vero e proprio stabilimento di moderna concezione, che richiamò gente da fuori e famiglie intere in cerca di lavoro e reddito garantito.
Lo statuto prevedeva un criterio retributivo, certamente parsimonioso, però in anticipo sui tempi, ed una specie di piano contro il pauperismo.
Tessuti finissimi, stoffe damascate, lampassi preziosi uscirono per decenni dalle fabbriche leuciane.
Due terzi della produzione totale erano destinati all’esportazione verso gli Stati Uniti d’America.

Sempre dal Censimento Generale del Regno d’Italia del 1861 risulta quanto segue:
POPOLAZIONE OCCUPATA al 1861
Compartimento
territoriale
Industria Agricoltura Commercio Piemonte eLiguria 345.563 1.341.867 110.477
Lombardia 465.003 1.086.028 103.543 Parma e Piacenza 66.325 186.677 10.915
Modena, Reggio e Massa 71.759 242.248 15.530
Romagna 130.062 357.867 28.360
Marche 16.344 381.966 18.747
Umbria 42.291 248.069 7.104
Toscana 266.698 571.409 59.057
Sardegna 31.392 159.239 8.645
Regno delleDue Sicilie1.595.359 3.133.261 272.069
per un totale di 5.000.689 occupati, su di una popolazione di 9.177.150 abitanti, pari al 54,49%.
Aggiungendo i liberi professionisti (534.485), gli impiegati nella pubblica amministrazione (130.597), l’esercito e le forze di polizia (240.044), i proprietari (604.437), i domestici (473.574), si deduce che, nelle “Due Sicilie”, erano attivamente occupate 6.983.826 persone, pari al 76,10% della popolazione. Vale a dire che il Regno godeva decisamente di una invidiabile situazione economica, impensabile ed inarrivabile per noi meridionali di
oggi, in tre parole: la piena occupazione.
Questo risultato fu raggiunto con la grande politica di investimenti e risanamento voluta da Ferdinando II, ma il Piemonte annullò del tutto lo “stato sociale” che i Borbone avevano eletto a patrimonio morale.
L’emigrazione dalle nostre terre era un fenomeno assolutamente sconosciuto; dopo l’unità d’Italia assumerà toni da “Esodo Biblico”.
Incredibile? No è la verità, a noi tutti abilmente occultata, ma soltanto la verità.
Il tracollo del Sud nasce dopo l’unità d’Italia ed aumenta in maniera esponenziale fino ai
giorni nostri, facendo fuggire i ragazzi da questa loro terra.
Prendiamone atto una volta per tutte e, dopo aver fatto studiare loro tante sciocchezze, cominciamo a raccontare ai nostri figli la verità.
Per questo e non per altro, i piemontesi occuparono il Regno o davvero qualcuno crede ancora alla bella favola risorgimentale? Nella drammatica situazione socio-economica in cui versiamo oggi, non l’avrebbero mai fatto, si sarebbero legati una palla al piede! Ma a Vittorio Emanuele II e Cavour – che fessi non erano – faceva molto gola un bel Regno, ricco ed opulento, una vera e propria California Europea; Napoli fu vista con invidia e cupidigia, in quanto appariva come una gallina dalle uova d’oro, da catturare e spogliare e, grazie anche all’aiuto di Inghilterra e Francia, per il Sud non ci fu scampo. Napoli, fino al 1860, era la terza capitale d’Europa per splendore e qualità della vita.
Oggi com’è ridotta?
Napoli era la città più popolosa d’Italia; era la capitale della cultura europea.
Napoli era anche la città più pulita d’Europa, grazie ad un decreto emanato il 3 maggio 1832 dal re Ferdinando II di Borbone, che analizzava e regolamentava l’intera situazione igienica e dei rifiuti nel Regno.
Le prime agenzie turistiche si ebbero nel Regno delle Due Sicilie, a seguito degli scavi di
Pompei e dell’attivazione dell’Accademia di Ercolano.
Eravamo lo Stato più ricco d’Italia (detentore del 66,3% della ricchezza, contro il 33,7% di
tutti gli altri Stati della penisola messi insieme), con il più elevato livello di occupazione, il minor numero di poveri, la maggiore densità di popolazione, il maggior numero di immigrati (dal Nord Italia e dall’estero: pensate l’ironia!) e tutti occupati; la prima normativa della storia sull’immigrazione fu la legge emanata il 17 dicembre 1817 dal re
Ferdinando I di Borbone). Insomma, eravamo uno dei tre Stati più potenti d’Europa, che a
quei tempi significava del mondo, mentre chi ci invase ed occupò era lo Stato più povero,
sull’orlo della bancarotta (ce lo riferisce il deputato piemontese Pier Carlo Boggio),
talmente indebitato che i Savoia dovettero cedere (rectius: vendere) la loro terra d’origine,
cioè la Savoia, alla Francia.
Il Regno, al momento dell’annessione, era nelle migliori condizioni per decollare. Già era
in atto un graduale passaggio dall’economia rurale a quella industriale. Il paese, primo in Italia, si stava dotando di moderne infrastrutture quali il telegrafo elettrico, le navi a vapore, le ferrovie.
Nel 1860 perdemmo l’indipendenza, ci azzerarono l’economia e la situazione è sempre peggiorata fino ai nostri giorni.
E il dubbio che, oggi, sorge un po’ dappertutto è questo: «Ma i “Fratelli d’Italia” furono spinti da nobili sentimenti patriottici o fu solo una guerra di conquista di uno Stato su un altro?» A farla breve, «il Sud è davvero unito al Nord o ne è praticamente una colonia?»
I documenti storici emersi negli ultimi decenni parlano chiaramente: fu un invasione!
La storia andrebbe riscritta basandosi sui documenti, ma i nostri libri di scuola e la tanta letteratura risorgimentalista, questo non l’hanno fatto e non lo fanno ancora: raccontano tante balle. Le balle utili a chi invase un pacifico, tranquillo Regno, conquistò, massacrò ed ebbe poi bisogno di costruirsi una verginità di fronte alle future generazioni.
Noi tutti ci siamo formati su questi testi. E’ una tecnica antica: ripeti mille volte una bugia e questa diventerà verità: il Sud è arretrato? colpa dei Borbone, come se gli ultimi 150 anni non avessero per nulla inciso sulla nostra vita. A Firenze, se qualcosa non va bene, non mi pare che se la prendano con il Granduca…
La Reggia di Caserta? Una cattedrale nel deserto. I primati tecnologici del Regno: il telegrafo, i ponti in ferro, le ferrovie? Fandonie raccontate dai nostalgici. Sì nostalgici, così vengono definite migliaia di persone che, amando la propria terra, cercano di recuperare l’orgoglio meridionale perduto, raccontando ogni giorno la verità storica, negata!
Ma la verità storica del Sud sta finalmente emergendo, in tutta la sua crudezza. Nessuno la potrà fermare. Per uno, che ancora si riempie la bocca con “l’eroica impresa dei 1000”, cento ne spuntano che vogliono sapere che cosa avvenne. Che cosa accadde davvero ai nostri bisnonni.
Nel tentativo poi di salvare la forma, ci fu la farsa del plebiscito del 21 ottobre 1860.
Gli stessi ambasciatori della Francia e dell’Inghilterra ne presero le distanze. Sir Henry Elliot, ministro inglese a Napoli, osservò che: «a Napoli vogliono l’autonomia, ma sono costretti a votare l’annessione». Giacinto de’ Sivo testimoniò che: «per tutta la città, garibaldini e camorristi prelevavano i cittadini e li portavano al voto. In ogni seggio vi erano due urne (una per il SI ed una per il NO) e, quando capitava che qualche impudente osava
preferire la cartella del NO, provava il bastone ed il coltello».
Con la burla del plebiscito, si concluse la plurisecolare storia del Regno delle Due Sicilie ed iniziò il processo di piemontesizzazione dell’Italia. La stessa farsa si ripeté in tutti gli altri Stati italiani; in particolare, a Roma nel 1870, ove si ebbe una maggioranza a favore dell’annessione del 99%, in quella occasione il Papa aveva vietato ai cattolici di votare (cioè quasi tutti i Romani).
Conseguenza della forzata unione fu il malessere e la disperazione del Sud, che alimentarono una guerra civile spietata e sanguinosa. La censura imposta dai Savoia ci ha privato dei dati ufficiali. I guerriglieri venivano tutti indicati con il termine di “briganti”. La guerra civile, con caratteristiche di guerriglia combattuta soprattutto nei boschi e nelle periferie, durò più di 10 anni ed i Piemontesi schierarono un esercito di oltre 120 mila uomini provenienti da varie regioni d’Italia (ai quali si aggiunsero quelli locali della Guardia Nazionale e delle Forze di Polizia). Fu una guerra «sciagurata ed ingloriosa» come la definì Aurelio Saffi «durante la quale gli Italiani del Nord e del Sud si conobbero attraverso il mirino del fucile».
Contro il saccheggio ed il massacro del Sud, operato dal nuovo governo, si schierarono
anche molti degli stessi artefici del risorgimento. Ricordiamo Nino Bixio che in Parlamento,
nell’aprile del 1863, si scagliò contro il nuovo governo, denunciando l’ingiusta «politica di sangue inaugurata nel Mezzogiorno d’Italia».
Lo stesso Giuseppe Garibaldi, alla fine del 1863, presentò le dimissioni dalla carica di deputato per protestare contro il governo italiano che «non mostrava alcun rispetto per il Meridione» (Denis Mack Smith ne “I Savoia re d’Italia”, pag. 34); nel 1868, il generale così scrisse all’attrice Adelaide Cairoli: «Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio».
Massimo D’Azeglio, in una lettera al senatore Carlo Matteucci (pubblicata dalla stampa francese ed inglese), scrisse: «a Napoli abbiamo cacciato il Sovrano, ma ora non bastano 60 battaglioni per tenere il Regno» e subito dopo, rispondendo al Ricasoli, scrisse: «è bene ricordare che più se ne fucileranno, più cresceranno le prove contro di noi».
Molti degli stessi liberali del Meridione, che avevano accolto i garibaldini come fratelli e li avevano portati da Messina a Napoli senza colpo ferire, presero le distanze dai nuovi eventi.
Il duca di Maddaloni, Francesco Proto, deputato di Casoria, il 20 novembre 1861, nella seduta del Senato a Torino, propose il distacco dell’ex Regno di Napoli dal Regno d’Italia, accusando apertamente il governo piemontese di aver invaso e depredato il Napoletano e la Sicilia. Nella stessa seduta, però, gli fu impedito di interpretare le insurrezioni nelle Due Sicilie come una “guerra civile” ed, in particolare, non gli fu fornita alcuna esauriente risposta. Pertanto, profondamente disgustato, egli si dimise e raggiunse Roma, ove divenne consigliere personale di Francesco II, ivi in esilio.
Un convinto unitarista meridionale, come Giustino Fortunato, ebbe a ricredersi e, nella lettera del 2 settembre 1899 a Pasquale Villari, affermò: «L’unità d’Italia… è stata, purtroppo, la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico, sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura maggiore che nelle
meridionali».
Gli fece eco Gaetano Salvemini (1900): «Se dall’unità d’Italia il Mezzogiorno è stato
rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata… è caduta in una crisi che ha tolto il pane
a migliaia e migliaia di persone».
I dati pubblicati da G.M. de Villefranche in “Pio IX” (tradotto dal francese in italiano a cura di Francesco Cricca – Bologna – 1877) riportano che solo in dieci mesi «dal gennaio all’ottobre del 1861, si contavano nel Regno delle Due Sicilie 9.860 uomini fucilati, 40 donne e 60 ragazzi uccisi, 10.604 feriti, 918 case arse, 6 paesi bruciati, 12 chiese devastate, 1.428 Comuni insorti in armi, 13.629 imprigionati».
Ancora Denis Mack Smith parla della «guerra più grave, sanguinosa e lunga del risorgimento, con un numero di morti superiore a quello di tutte le guerre del risorgimento messe insieme».
Il divario Nord-Sud, quindi, iniziò con l’unità d’Italia, aumentando anno dopo anno fino al dramma attuale; la situazione economica del Regno meridionale, nel 1861 anno dell’invasione, era assolutamente favorevole al decollo verso grandi prospettive.
Il risorgimento, pertanto, non unì l’Italia, ma la annesse al Piemonte. Esso fu un disastro storico per l’Italia ed uno "stupro" per il Sud e per il suo Popolo.
Quello che gli italiani venuti dal Nord ci fecero fu così spaventoso, che ancora oggi lo si tace nei libri di storia e nelle verità ufficiali; si tengono al buio molti documenti che lo raccontano. Lo scrittore contemporaneo Pino Aprile osserva: «Una parte dell’Italia (il Sud), in pieno sviluppo, fu condannata a regredire e fu depredata dall’altra (il Nord), che con il bottino finanziò la propria crescita e prese un vantaggio, poi difeso con ogni mezzo, incluse le leggi».
E quando il carnefice ti toglie tutto, l’unico punto di riferimento che ti rimane è il carnefice.
Lo imiti: la sindrome di Stoccolma è il complesso d’inferiorità dei meridionali.
Così prevalse la rassegnazione alla piemontesizzazione e le nuove generazioni, private della loro storia, si adattarono al nuovo corso. Con la morte degli ultimi testimoni, anno dopo anno, venne umiliata, distrutta e cancellata quella cultura che, per mille anni, si era imposta in Europa e nel Mondo.
Prendiamo, quindi, le distanze dalle commemorazioni dei 150 anni e non facciamoci coinvolgere nelle celebrazioni di quel funesto periodo storico le cui responsabilità risalgono tutte ai Savoia, interessati solo ad ingrandire il loro regno! Per oltre 10 anni hanno tenuto sotto assedio e saccheggiato il Sud, con centinaia di migliaia di persone sterminate.
Occorre, invece, far conoscere a tutti gli Italiani la verità – anche se scomoda – per togliere la cappa di menzogne che grava ancora sugli eventi che portarono alla conquista del Sud. Ai nostri giovani, soprattutto, si deve far conoscere la verità e non le bugie trasformate in verità: la Storia deve essere maestra di vita e non di falsità! Ingannare i nostri ragazzi (come lo siamo stati noi adulti quando eravamo studenti) con queste colossali fandonie è altamente diseducativo.
Si faccia, quindi, prevalere l’onestà intellettuale e si chiamino le cose con i loro veri nomi: una strage è una strage, un assassino è un assassino, un ladro è un ladro.
Perché, fino a quando non si riconoscerà ed ammetterà, coram populo, che i cc.dd. padri della patria hanno commesso dei veri e propri misfatti in danno del Sud, gli Italiani tutti non potranno essere veramente uniti da una storia condivisa.
Le bugie non portano da nessuna parte!
Un popolo non può prendersi in giro sulla propria storia: e noi non possiamo continuare a prenderci in giro con una storia farcita di menzogne.
Se vogliamo che l’Italia diventi finalmente un paese “normale”, dobbiamo partire proprio da qui.
Basta con la retorica e le bugie: il Sud ha bisogno di ritrovare quella Giustizia e quella Dignità che i vincitori del 1860-61 gli hanno negato per esaltare la corruzione, il tradimento, la falsità.
E la Giustizia verso il Sud deve cominciare proprio dalle Verità della Storia.
Ripartiamo allora dalla Storia d'Italia, ma da quella “vera”, cioè quella basata su documenti inoppugnabili, non sulle favolette inventate di sana pianta e raccontate fino alla noia, per ben 150 anni, da storiografi prezzolati e venduti al vincitore.
Che si dica la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità!
A tale riguardo, Berthold Brecht così ammoniva: «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente».
Ed aveva perfettamente ragione, perché senza verità non c’è giustizia.
A sua volta, Sant’Agostino affermava che: «Una società senza giustizia è un’associazione
per delinquere!»
E non credo che le persone per bene ed oneste gradiscano vivere in una società senza
giustizia!


Dal Convegno presso il Grand Hotel di Telese Terme, 10 aprile 2010
diramato da comitato@legittimisti.it



Nessun commento:

Posta un commento