lunedì 8 marzo 2010

Giampaolo Pansa rivisita la storia e fa strage della vulgata resistenzialista


Le “memorie condivise” sono per deficienti. Fascistissima sentenza di Piero Buscaroli, che non se ne vergogna. Oggi però il lurido castello di carte che ha mascherato eccidi ed efferatezze sta per crollare. Manca ancora poco. Poi tutto sarà compiuto

di Piero Buscaroli

Vincitori e vinti, il sangue dei vinti, i figli dei vinti. Guai ai vinti, solfeggia l’istruito, e ci mette il suggello, la cosi detta Storia.
«Un momento, bisogna distinguere…». Mi par di riudire Franz Pagliani, il chirurgo, già famoso a quarant’anni, il solo superstite generale delle Brigate Nere. I vincitori lo trovavano già davanti al muro del camposanto in un paese chiamato Concordia: «Subito mi rubarono gli stivali, il primo supplizio che m’imposero fu di trascinare i piedi in quella ghiaia tagliente. Poi, basta, una grossa jeep piena di americani si fermò lì davanti per caso, cacciarono gli eroi loro sciacalli, e si presero il generale fascista ora prigioniero”. Erano loro i vincitori. «Avevo sciolto la Brigata prima del Po. Feci distribuire le ultime paghe, salutai le ausiliarie, ammonii tutti: non passate il Po, non andate in quella Valtellina dove, senza nulla aver predisposto, vi chiamano gl’incoscienti del Partito per il macello finale, tutti insieme. Magari con Mussolini…E meno male che i suoi assassini, fossero questi o gli invitati da Churchill, lo fucilarono a Dongo. Se andava al processo, apriva le borse di cuoio, si metteva a leggere… e la guerra, l’avevano voluta Pagliani, Cacciari, tuo padre… Lui, non ne sapeva niente».

«Tra i vinti e i sedicenti vincitori, bisogna distinguere, durerà cent’anni. Vinti noi fummo perché il fronte tedesco non tenne. Ma intanto, i banditi, li avevano ridotti al brigantaggio sugli ultimi monti. Senza lo sfacelo tedesco, bastavamo noi, con la Gnr e la Decima. Il 1° novembre 1944, con un forte rastrellamento di 12 giorni, gli togliemmo Alba, la loro capitale. Ripulimmo la regione Bra-Alba-Canelli, le mitiche Langhe. Il 12 Novembre, Alexander li mandò a casa, congedo “ufficiale”, via radio, i lanci aerei costavano troppo e poco rendevano, se ne riparla a primavera. Se i vincitori non avessero spazzato via i tedeschi, gli sciacalli li facevamo a fettine…”.
Sciacalli, non soldati, se togli nuclei spauriti, ormai sottomessi. Non fu mai una “guerra civile”. Una decina d’anni or sono, ci fecero un “convegno”, a Rossano Veneto, due passi da Bassano. Vennero, i comunisti, a strepitare che era indecente concedere ai fascisti d’aver combattuto una “guerra civile”. Erano stranieri, peggio dei tedeschi, e loro servi.

Pochi anni, ed è chiaro l’opposto. Non fu guerra civile, le guerre civili hanno radici profonde. I “demoni famigliari” si scatenano dopo accumuli di secoli e decenni, lo chiarì bene il generalissimo Franco. Da noi, quei “demoni famigliari” non c’erano. S’era aperta una voragine di paure e smarrimenti, i comunisti la riempirono per farsi un posto nella storia d’Italia, non l’avevano mai avuto. L’Otto Settembre colsero l’occasione fuggitiva. Con astuzia e rapidità mafiose. Ricordo come se fosse oggi, dicevano i vecchi. Io c’ero. Avevo compiuto i 13 anni da due mesi, ero in calzoni corti, ma c’ero. La sera del 4 Novembre 1943 feci la scorta, per la prima volta, a mio padre, il latinista del Libro di Didone, delle Odi di Orazio, di Persio e Giovenale, nel salone della Casa del Fascio. Il suo ingresso fece grande effetto alla ribollente assemblea, due settimane dopo l’avrebbero eletto “reggente”, non so ancora cosa significasse. Tutti venivano stravolti, spontaneamente, alla voce subito corsa da una casa all’altra, che due, tre ore prima, sull’imbrunire avevano assassinato un ufficiale della Milizia, il seniore Gernando Barani. Chi è stato? gridavano. “I badogliani”, era una spiegazione evanescente.

Grazie Giampaolo
Due o tre mesi bastarono a capire, delitto dopo delitto. Il mite ufficiale fu simbolo e strumento. La sua morte doveva provocare arresti di presunti colpevoli, ostaggi che al prossimo assassinio sarebbero stati, alla loro volta, uccisi. Vidi e vissi, dai 13 ai 18 anni, imparai a difendere la pelle. Ecco perché dissi a il Foglio di Giuliano Ferrara, e ripetei alla sua televisione il 21 aprile scorso: «Mi considero un supersite, in territorio nemico». Al turbine d’urli e silenzi, alle mille lagrime che si levano dalle pagine di Sconosciuto 1945 di Giampaolo Pansa, rispondo grazie. Sapevo, aspettavo. Sapevo la catena, inutile e pur inevitabile, delle rappresaglie. Quando, alla successiva assemblea, dopo un altro delitto, il Babbo disse che il Duce non voleva rappresaglie, scoppiò un temporale di proteste: “Venga lui qua!”. Non si era più fascisti per Mussolini, ma per se stessi. Che i compagni arrestati dopo Barani dovessero pagare, due mesi più tardi, per l’assassinio di Eugenio Facchini, il giovane ufficiale eletto “federale” del nuovo partito, ammazzato a revolverate sui gradini d’accesso alla misera mensa universitaria di Bologna, gli assassini previdero e vollero.

Era la catena criminale di via Rasella e cento altri trionfi. Logica perversa, e vincente. Se, poi, dovettero rassegnarsi alla spartizione di Yalta, che lasciava l’estinta Italia nel bottino capitalista, i comunisti si aggiudicarono il monopolio della nuovo mitologia, resistenza, liberazione, punizione dei vinti. Nessuno gli rifiutò la complicità che pretesero, uccidendo militari, cattolici, e quanti gliela negassero.
Non tutti cattolici. A Novara un magistrato accusatore di nome Scalfaro, che il ministro Piero Pisenti aveva esentato dal giuramento di fedeltà con tutt’i simili suoi, chiese e ottenne la testa di Vezzalini, che aveva riverito quale prefetto pochi mesi prima. A Imola la feroce, c’era un commissario di P.S., Giovanni Perrino, che faceva un suo quadruplo giuoco: con la RSI che lo pagava, con gli industriali che anche lo pagavano, con le SS che gli davano utili suggerimenti, coi banditi ai quali organizzerà, alla fine del giuoco, la strage in piazza. “È un nostro nemico, fa il doppio gioco”, disse il Babbo. Nella mia logica, semplice ma concreta, gli chiesi: “Perché non lo fucilate?”, e mi rispose. “Non abbiamo prove, e poi il Duce vuole la legalità, a tutti i costi”. Mandai il signor Duce a farsi fottere, per una nuova volta.

Fu il commissario Perrino che accusò il Babbo di aver scelto, per la rappresaglia Facchini, gli arrestati dopo il delitto Barani. Risultò poi, in sede di “revisione del processo”, la mia prima revisione, che a designarli era stata una riunione di magistrati militari, a Bologna, presieduta da Alessandro Pavolini, venuto apposta. Negli atti del processo del Babbo trovai, dieci e più anni dopo, gli appunti che vedove comuniste avevano scritto sotto dettatura: “Ritengo colpevole della fucilazione Buscaroli Corso”. Sul rovescio, anzi sul diritto del foglio, c’era l’intestazione “Comune di Imola”. Li avevano fabbricati nelle sedi “istituzionali” conquistate.
Nel 1960 la Corte di Cassazione annullò “senza rinvio” l’immondo processo e le sue condanne, compresa la confisca dei beni che ci era stata inflitta ed eseguita: senza poter restituire la vita al Babbo che intanto era morto due mesi dopo essere uscito dal carcere.

Vincitori? Sciacalli
Ecco perché dico “Io c’ero”. Tutto mi divenne chiaro, giorno dopo giorno, e tutto si legò, più tardi, alla lettura. Non è vero. Non è vero che i vinti non abbiano scritto. La sola storiografia che valga qualcosa, in quei primi anni, dal Due anni di storia di Attilio Tamaro, a Una repubblica necessaria di Piero Pisenti, alla poderosa opera dell’intera vita di Giorgio Pisanò, è tutta dei vinti. Quelli che si proclamarono vincitori, e soltanto n’erano gli sciacalli, scrissero menzogne, vanterie, insulti, ciarpame. Ma leggere la stampa dei vinti era pericoloso e anche inutile, perché erano i vinti, il suo prestigio riconosciuto sol dalle vittime e congiunti. Il popolo bue non capì mai niente, non volle sapere niente.

Oh, se c’ero. Per un curioso azzardo che mi ha fortemente colpito, e non posso attribuire se non al caso (e non a chi gli ha narrato i fatti della città infame, ch’è persona serissima, mi conosce e me ne avrebbe avvertito, prima di porre, tra quei fatti, i miei personali), due volte, senza saperlo, Pansa, che mi ha mandato il suo libro “con stima”, mi costringe a venire all’aperto, come persona. Alle pp. 245 e seguenti, narra “la strage di Imola”, come è narrata nella lettera «di un testimone oculare che in quei tempi aveva 17 anni, molto preciso e convincente, Sergio Raffuzzi»: questi «rivela che non si trattò di un linciaggio» improvvisato, «bensì di un’esecuzione decisa per ordine dei comandi partigiani… nel chiuso della caserma dei carabinieri» (organizzata, aggiungo io, dal quadrigiochista commissario Perrino, che doveva coprire qualcosa). Alle vittime, in piazza, schiacciarono crani e toraci, fecero uscire gli occhi a colpi di manubri di ferro da ginnastica. «Quattro erano tra i 15 e i 17 anni». Raffuzzi non ha scritto come fui salvato io, perché m’è amico e sapeva che non desideravo esibirmi quale mancato martire neppure quindicenne. Quella domenica mattina, 25 Maggio 1945, benché mia madre, che temeva, mi tenesse, più che poteva, in casa, ero anch’io alla “messa dei belli” delle 11,30 nella Chiesa del Pio Suffragio. La messa era alla fine quando udimmo, anche Raffuzzi, che ancora non conoscevo, rumor di tumulto e urla strazianti. Noi, ch’eravamo accanto all’ingresso della chiesa affollata, scendemmo i tre gradini sulla piazza e restammo allibiti all’orribile sanguinoso groviglio che arrossava gli antichi ciottoli venti metri più in là.

Ora che scrivo, dopo 60 anni e 5 mesi precisi, faccio fatica a riassumere. Al mio apparire, si alzò un urlo, in quel bastardo dialetto, “E adesso, dopo i grandi, cominciamo coi piccoli!”, e fui afferrato da un figuro che di vista conoscevo, e si chiamava Tarabusi, detto Buchi. Impotente a resistere e a difendermi, mi trascinarono, sotto i primi colpi; mi meraviglia sempre, al ricordo, la chiarezza con cui sentivo che bisognava morire, quando il frastuono, che mi parve immenso, di un potente motore, sparpagliò il gruppo. Mi sentii afferrato da molte braccia, e issato su un gippone dell’Ottava Armata inglese, che partì come un bolide. Erano un ufficiale e due sottufficiali polacchi della divisione di Anders che aveva occupato la città. La sua unità medica s’era acquartierata nei grandi scantinati della nostra villa di via Petrarca 6. In quel mese, da che c’erano piombati in casa, mia madre, una Falorsi fiorentina, aveva fatto conoscenza e poi amicizia con la comandante medica, maggiore, una delle nobildonne fuggite a Londra ch’erano accorse e si fecero ausiliarie dei compatrioti quando i russi “regalarono” agli alleati inglesi i prigionieri presi dopo il 1939.

Si rivelò una contessa Paskowski, prima cugina di Stanislao, gran signore fiorentino e proprietario della famosa birreria Paskowski, davanti alle Giubbe Rosse: aveva sposato Viola la figlia di Giovanni Papini, ed era stato testimone di nozze di mia mamma nel 1929. Dopo che la mamma le ebbe confidato, fin dai primi giorni, la sua angoscia, il marito scomparso, il figlio minacciato, la nobile signora aveva ordinato, o pregato, alcuni dei suoi militari di tenermi d’occhio e seguirmi quando uscissi. Odiavano i tedeschi, i russi e i comunisti dovunque ne trovassero, nulla avevano contro di noi. Si divertivano a buttar giù le bandiere rosse appese agli alberi e mi protessero senza che io me ne accorgessi. Dopo otto mesi passati accanto al fronte, tutti i servizi pubblici erano morti, il telefono taceva. Ma la Contessa riuscì, coi mezzi militari, a parlare con Roma, e nella sera arrivò con la vecchia Augusta, per la via del Furlo lo zio Mario de Bernardi, il grande aviatore che aveva sposato la sorella della mia mamma. Passammo la notte in un albergo di Nocera Umbra, e il giorno dopo ero salvo a Roma. La fortuna, che gli dèi buoni mi conservavano, fece morire Buchi dopo alcuni mesi. Ormai all’ultimo stadio di un’infezione repellente che il popolaccio chiamava “scolo nero”, andò a spiaccicarsi contro un muro pilotando una motocicletta rubata. N’ebbi una sensazione trionfale.

Johann Sebastian Bach, ovvio
Quella fortuna, e quegli dèi, non erano dissolti tre anni più tardi. «A Imola», scrive Raffuzzi a Pansa, «l’ultimo assassino politico del dopoguerra avvenne il 15 Luglio 1948, il giorno successivo all’attentato a Togliatti. Fu l’omicidio di Giuseppe Cavulli, di 25 anni, di professione sarto. Era un giovane simpatizzante della Democrazia Cristiana, a conoscenza di fatti, ma soprattutto misfatti, che andava raccontando, con una certa dose di coraggio», leggo in Pansa, p. 253. «Quel giorno, forse in previsione della rivoluzione rossa, due individui si presentarono alla casa di Cavulli… Dopo alcune concitate parole, uno dei due lo uccise a colpi di rivoltella… I presunti assassini se la cavarono con un’insufficienza di prove…».

Torno a uscire all’aperto. Quel giorno ero, dalla prima mattina, al Liceo Rambaldi dove, tra baraonde e scioperi, ancor si protraevano gli esami di maturità. Avevo appena sostenuto la prova di filosofia con un professor Giovanni Pezzoli di Bologna, gran signore appassionato di musica, quando entrarono le squadracce, ci buttarono fuori, tra urli e spintoni, imponendo lo sciopero rituale. Ci ritrovammo, a mezza mattina, in via Garibaldi, tra la scuola e il Seminario diocesano. «E adesso, cosa facciamo?», domando Pezzoli. Risposi che si poteva andare in Duomo, 200 metri di lì, e suonare Bach all’organo.

Lasciato il pianoforte, m’ero messo, dapprima come “uditore” e poi allievo alla scuola di Ireneo Fuser, il grande organista morto di 101 anni, l’anno scorso. Siccome non avevo altri, i canonici del Duomo mi avevano concesso un incarico, non pagato e confidenziale, d’organista. Dov’era stato, mezzo secolo avanti, Lorenzo Perosi. La “confidenza” era tale che, nonostante la contrarietà di un monsignor Cappelli, mi portavo in tasca le chiavi dello strumento, il maggiore della città, alto e torreggiante, dipinto d’un bianco e celeste molto barocco, in mezzo alla vastissima tribuna cui si giungeva per una chiocciola interminabile. Suonai a Pezzoli come potevo e sapevo, e non vorrei risentirmi oggi, la Passacaglia in do minore e, Pezzoli, mi retribuì generosamente ai voti: più dei suoni, credo, che delle mie conoscenze di filosofia, materia che ho sempre capito poco.
Prima che da Cavulli, che conoscevo appena come il solo monarchico della città, i “presunti assassini” erano andati a casa mia, dove la mamma mi accolse, madida di pianto, dopo avermi fatto cercare, a scuola e in giro, da alcune amiche.
Il “territorio nemico” (macché patria, la patria è morta) era nemico davvero. In diverse guise, per me sempre rimase.

Non riesco a scegliere
C’ero, ci sono ancora, leggo: «La targhetta di metallo che veniva legata al petto degli uccisi, Giampaolo Pansa l’ha messa sulla copertina del libro, e ne costituisce il titolo: Sconosciuto 1945 (Sperling & Kupfer, pp. 476, €18). “Me l’ha data la figlia di un ucciso”. Dopo il successo del libro precedente Il sangue dei vinti (400mila copie vendute e molti strilli da parte delle vestali della Resistenza) Pansa è tornato a frugare nella tragedia negata dell’Italia sconfitta…».

Io non riesco a scegliere, lì dentro, c’ero troppo in mezzo. Trascrivo da il Giornale del 7 ottobre, dov’è apparso il più limpido e fermo degli scritti fin ora pubblicati sul nuovo libro. N’è autrice Domizia Carafoli, scrittrice che incide, figlia di un gentiluomo scrittore: «Se ne Il sangue dei vinti rievocava le oltre 20.000 vittime della sanguinosa vendetta consumata dopo la fine della guerra», in questo ultimo suo libro «Pansa fa parlare altre vittime, ancora più innocenti, i figli degli uccisi». Dice l’autore che «questo libro è figlio di qualcosa d’inaspettato che accade pochi giorni dopo l’uscita del Il sangue dei vinti e mi ha letteralmente travolto. Centinaia di lettere, di e-mail, di fax; erano i figli, i nipoti delle vittime, che volevano raccontare altre storie ancora ignorate, rivelare com’erano morti il padre, la madre, i nonni, la zia. Voci che volevano dire dell’altro, voci che uscivano da un silenzio imposto per 60 anni… Ho rifletto circa un anno e poi ho incominciato a radunare le storie, ho incontrato queste persone, ne ho raccolto le confidenze, spesso le lagrime di uno strazio ancora vivissimo…».

Questa gente, la sua compostezza, il suo pianto ignorato e vietato, hanno suscitato nell’onesto scrittore ammirazione, devozione, pensieri, mutamenti.
«Bella gente» l’ha chiamata, gente limpida, per bene. «Erano persone che per la prima volta raccontavano fuori della cerchia familiare. Ma spesso anche in famiglia si era taciuto». Tra gli esempi di raccapriccio, rammenta una signora, oggi professoressa di matematica, cui il nonno, presso il quale si era rifugiata con la mamma dopo l’uccisione del padre, impose loro di non parlarne mai più. «La bambina diceva che il padre era caduto in guerra», e quando, nel 1954, «si decise a scrivere la verità in un tema, il professore le consigliò di continuare a dire che era morto in Africa».

Cari amici, è l’Italia. Da quando ebbi un barlume di ragione, smisi di amarla coi suoi orribili italiani. Mi chiamo Italico, come ai tempi di Roma. Con quest’animo contemplo da decenni «un dolore consumato in assoluta solitudine, intorno a loro un paese monolitico celebrava la Guerra di Liberazione». E non se ne cambi una virgola, sbiascica e s’imbizzisce il Ciampi.
E invece tutto cambia, si muove una frana che non s’arresterà per decenni, non ci saranno abbracci, né quei Monopoli per deficienti che sono le “memorie condivise”. Se non i morti, si levano l’odio e sazietà delle memorie vietate e sepolte. Il lurido castello, o Ciampi, o Fini, va in pezzi.

La sera di mercoledì 19 ottobre, in un ricevimento di giuristi ed economisti, un signore triste, un quindici anni in meno di me, mi disse: «Sono suo lettore dai tempi del Borghese». Venne al mondo, nel Modenese, molti mesi dopo che suo padre, neppur fascista, era stato prelevato di casa e scomparve, ai primi di Maggio del 1945. Raccontò di un’infanzia mesta, sotto una cappa di silenzio. Ancora una volta entravo, da vivo, in un cimitero di sentimenti, la seconda stanza della ferocia comunista. Pansa la separa nettamente dalla prima. Qui non sono “vinti” perché non combatterono, non ebbero nemici.
Al macello dei fascisti doveva seguire il secondo, dei cattolici, dei possidenti, dei benestanti. Questa stanza fu sempre tenacemente confusa con la precedente, quasi una coda scapricciata, di certo esagerata, ma dopo tanti affanni, pur comprensibile. Quando il vigliaccume giornalistico doveva trattarne, faceva titoli con «le schegge impazzite dopo la Liberazione» (Resto del Carlino, 4 gennaio 2004).

Giampaolo Pansa, cui né Scalfaro né Ciampi, né Fini né D’Alema potran chiudere la bocca perché non è fascista, allarga, scava, distingue, accusa. Il secondo macello doveva ripulire l’Italia per farla comunista. Aveva cominciato Pisanò, nel 1992, con un libro monumentale, Il triangolo della morte, che resta, ancora una volta, la base fondamentale. Ma Pisanò era fascista, si poteva ignorarlo come non esistesse. Ora, chi potrà schiacciare le dita a Pansa per impedirgli di girare la chiave? Vedrete, vedrete, è appena cominciata.

tratto da: http://www.isses.it/

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