sabato 23 gennaio 2010
Gli italiani di Nicola Zitara
di Nicola Zitara
La storia generale non avalla in alcun modo la proposizione risorgimentale secondo cui l’unità politica avrebbe messo assieme le membra disperse di una preesistente nazione. Sul versante politico, l’Italia fu unita soltanto durante la dominazione romana. Peraltro le notizie storiche attestano che neanche l’egemonia politica di Roma dette luogo a una società omogenea. E’ noto che il costo dell’espansione romana verso nord fu caricato sulla parte meridionale della penisola. Le orazioni di Cicerone descrivono il saccheggio romano in Sicilia e in Sardegna.
Plinio accenna alla rovina del sud agricolo. Altre fonti confermano le devastazioni romane. Il giardino mediterraneo e la piccola proprietà furono annientati per far posto al latifondo senatorio; il manto boschivo fu devastato per costruire Roma, le città minori e la flotta; le popolazioni magnogreche, sarde e siciliane furono spogliate; la miseria portò le classi colte a darsi spontaneamente in schiavitù ai romani ricchi; una società tecnologicamente e culturalmente più avanzata di Roma fu annientata, e solo dopo secoli le tutte popolazioni italiche ottennero la cittadinanza romana.
Una piena aggregazione culturale è attestata soltanto per l’area napoletana. Lo spostamento, da Taranto magnogreca, a Brindisi romana del porto per l’Oriente, la dice lunga sulla presunta romanizzazione degli italici.
Comunque sia, l’unità politica cosiddetta italiana ebbe soltanto qualche secolo di vita; ben poco rispetto ai trentotto secoli di civiltà che vengono attestati per la parte meridionale della penisola, che uscì dalla preistoria molto prima dell’ampollosa leggenda della fondazione di Roma.
Sicuramente l’unità politica non esisteva prima della conquista romana e altrettanto sicuramente si interruppe irreversibilmente parecchi decenni prima della caduta formale dell’Impero Romano d’Occidente. A partire da quel momento l’Italia rimase divisa per quindici secoli, cioè per tutto il Medioevo, per tutto l’Evo Moderno e per buona parte dell’Età contemporanea.
Anche l’affermazione secondo cui esisteva il sentimento nazionale anche prima della conquista toscopadana del Sud è un falso storico. La volontà di conquista e sopraffazione del Centronord non ha inizio con la fondazione del Regno sabaudo, ma risale a millenni lontani, a qualche secolo prima dell’assassinio di Archimede.
Mille e cinquecento anni dopo tale misfatto, la sconfitta di Manfredi, ad opera della coalizione tra Papato e Comuni toscopadani, rinnova la vecchia scena. E ancora: sei secoli dopo la morte di Manfredi la battaglia sul Volturno, la ripete per la terza volta in formato ridotto. Il risultato è sempre lo stesso, la conquista e il saccheggio del Sud.
Con un volo pindarico si può arrivare a immaginare quali sarebbero l’Italia e l’Europa se civilizzate da Archimede invece che da Cesare, e quale sarebbe stato il destino del Sud se l’esercito duosiciliano avesse sbaragliato Garibaldi.
In realtà la dinastia borbonica non c’entra in alcun modo con la divisione della penisola in due formazioni sociali. Se putacaso Gioacchino Murat fosse rimasto sul trono di Napoli e la restante Italia direttamente sotto Napoleone, la battaglia sul Volturno ci sarebbe stata lo stesso. Le due Italia risalgano quantomeno alle invasioni barbariche.
Il tentativo dell’Impero d’Oriente di ricacciarli dalla penisola dette luogo a una spaccatura incolmabile. Il Sud e Centronord rimasero divisi politicamente dalla caduta di Roma (476 d.C.) alla spedizione garibaldina (1860). Per tentare di riconquistare (o per non perdere definitivamente) l’Italia, i cosiddetti bizantini (più propriamente l’Impero Romano d’Oriente, i romani) rimasero in Italia seicento anni, fino alla conquista normanna (intorno al 1050).
In questi sei secoli, qual fu la nazione italiana? Quella feudale e barbarica della Corona di ferro o quella che in qualche modo si conservò nel solco del diritto civile (del cittadino titolare di diritti, in quanto uomo) e della cultura greco.romana? Quella che rimase dentro le logiche del Continente mediterraneo o quella che aderì alle logiche dell’Europa terragna?
E’ un dato di fatto che la rinascita della penisola non partì dalle aree infeudate ai barbari, ma dalle aree legate al Continente mediterraneo. Oltre alla reclamizzata conservazione dei testi classici e delle fonti romane del diritto, lo testimoniano cento cose, per esempio il fatto che a fondare e a operare nei primi centri accademici avviati dal Papato – le abbazie di Grottaferrata e di Montecassino – furono dei monaci arrivati dal Sud.
La centralità del Sud nella fornitura di manufatti, che venivano richiesti da re, imperatori, baroni e vescovi barbarici, è largamente attestata. Accanto alla splendida Palermo e alla altre città siciliane, fiorisscono Napoli, Amalfi, Bari, Otranto, Rossano, Reggio. In questa parte del paese (fisico) i centri portuali godevano di una considerevole autonomia politica. Non lo si dice, ma è nella logica del flusso culturale Sud →Nord: senza questo precedente politico e giuridico il libero comune toscano sarebbe inimmaginabile. I marmi che si importavano in Italia, per edificare cattedrali e palazzi, venivano trasportati su navi amalfitane. Una potenza economica del Sud, benché informe politicamente, si rivela in innumerevoli vicende.
Per esempio la flotta di Amalfi batté quella saracena nelle acque di Ostia. Il tarì arabo-siciliano fu la moneta che tutto il Continente mediterraneo e tutte le popolazioni dell’Europa barbarica conobbero e accettarono per secoli, a preferenza delle monete dei loro re. L’architettura e la scultura ritrovarono alimento nella ricchezza dei commerci. Chi dubita delle anticipazioni culturali e civili del Sud italiano può facilmente riorganizzare il suo giudizio leggendo qualche pagina del fiorentino Giovanni Boccaccio e, se non sa leggere, facendo un giro turistico per il Barisano e il Salento, per fortuna risparmiati dai terremoti.
Questo corso, se non propriamente grandioso, quantomeno promettente, venne annientato dall’altra Italia. L’operazione è connessa con le Crociate. Il Sud del tempo era una società aperta. La gente non faceva questione di pelle. Era tollerante in materia religiosa. I cattolici seguivano chi il rito ortodosso, chi il rito latino.
Le popolazioni commerciavano liberamente con gli arabi. In ciò, i re barbarici d’Europa e il papa videro una minaccia. Le crociate e l’occupazione normanna tagliarono il Sud fuori dal suo ambiente geografico, politico e culturale, dalla sua vocazione mediterranea. Il paese venne violentemente inserito nell’area barbarica e trasformato in una colonia delle dinastie europee e del Papato. Come osservano Croce e Nitti i normanni vi introducono il feudalesimo proprio quando nell’Italia restante il feudalesimo era al tramonto.
Le popolazioni vennero costrette a identificarsi attraverso una fede intollerante e la paura dei signori della guerra. Rinaldo, il mitico cavaliere con la croce sullo scudo, assurge a nuovo eroe dell’epos collettivo, prendendo il posto di Achille e di Ettore. Però la tradizione ha una sua potenza. I normanni si civilizzarono e si fecero interni al popolo soggiogato. L’aureola che circonda la figura di Federico II, figlio di una normanna, è la chiara testimonianza di tale evoluzione. E’ noto che l’Italia restante non tollerò il tentativo unitario federiciano.
Contro Manfredi, che si adoperava a portare a compimento il progetto paterno, l’Italia comunale e il papa di Roma invocarono l’aiuto francese, affinché il paese rimanesse diviso. A partire da Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, il Sud figura come la prima colonia dell’Europa dinastica e dello Stato Pontificio, e i troni di Napoli e di Palermo vengono usati come una posta di cruenti giochi di potere.
Nel corso dei sei secoli compresi tra la conquista del crociato Roberto il Guiscardo e il giorno in cui si spense a Napoli Gianbattista Vico, il Sud percorse un cammino a ritroso, taglieggiato dai baroni francesi e spagnoli, bloccato “tra l’acqua salata e l’acqua santa”, dissanguato dagli usurai genovesi e fiorentini.
I paesi erano due prima di Roma, due dopo la caduta dell’Impero romano, due al tempo del glorioso semianalfabeta Carlo Magno, due al tempo del Barbarossa e del Carroccio e restarono due durante il Rinascimento. Neanche Napoleone osò fare, di due Italie, una sola. Tra Sei e Settecento, i secoli della decadenza toscopadana, il Regno di Napoli si avviò alla rinascita. E’ questa la vera bilancia italiana: solo quando una parte scende, l’altra può salire.
Non so se a causa dello scarso peso che dopo l’unità si è dato alla storia del Sud (salvo che non ci siano francesi a civilizzarci), o se per offuscarne una realtà positiva, fatto è che, invece che parlare dei napoletani e dei siciliani, si preferisce parlare sempre e in ogni caso dei Borbone, i quali, indubbiamente, ebbero grandissimi meriti, ma che, arrivati a Napoli, non si mossero nel vuoto.
Il Sud tornò all’indipendenza nazionale nel 1734 per effetto di nuovi equilibri fra le potenze e le dinastie europee. Ma a partire dal regno di Carlo III, mentre gli Stati europei si dilaniavano in guerre costose, per definire i loro confini e per assicurasi rendite coloniali, il Sud godette di sessant’anni di pace e tranquillità interna. Tranquillità relativamente alle armi, e però di importanti, anche se non rumorosi cambiamenti sociali e di una vasta rivoluzione culturale.
La popolazione cresce. Più uomini al lavoro nei campi fanno crescere l’entità della rendita. L’area dei suoi percettori si allarga verso la borghesia emergente. Il paese è ricco di promesse per il futuro, Napoli splende di pensiero e d’arte quanto nessun’altra capitale europea. Bastano i giudizi di Rousseau e di Goethe ad attestarlo. Però la gente dei campi è sempre povera. Anche i ricchi possidenti sono meno ricchi che altrove. Infatti la produttività del lavoro è bassa se confrontata con quella dei tedeschi, dei francesi, degli inglesi, dei toscopadani.
La rinascita del paese meridionale fu preparata da un moto riformatore, di cui la dinastia borbonica accolse e fece proprie le istanze. I meriti del ministro Tanucci nella lotta al baronaggio e alla manomorta ecclesiastica vengono conclamati dalla posteriore storiografia liberale, in quanto la lotta contro il baronaggio e la manomorta ecclesiastica fu assonante con il liberalismo cavourrista. E ciò permette ai denigratori della storia meridionale di incriminare Ferdinando IV per il licenziamento di Tanucci.
Si afferma che il re si ricredette e interruppe la rivoluzione sociale in atto. Ma i baroni tornarono in auge? Se così fosse, non si spiegherebbe perché divennero dei gloriosi giacobini e gli artefici di una rivoluzione che invocò i francesi per cacciare da Napoli il re e la corte, e che proclamò la repubblica.
E’ il tema della reclamizzata antistoricità di Ferdinado & Carolina. In realtà Ferdinando, o chi per lui, si avvide che il processo di eversione e liberalizzazione delle terre comuni, su cui si esercitavano gli usi civici, puniva il popolo; che la rendita penetrava senza meriti negli spazi proprietari precedentemente impegnati (politicamente) nella tutela dei poveri, senza per altro accrescere decisivamente la produttività generale in agricoltura.
Il re non bloccò la naturale devoluzione delle terre private dal baronaggio alla rendita borghese (in cui la coltura dell’olivo ebbe un ruolo decisivo), ma tentò di salvaguardare le terre a proprietà promiscua, su cui si esercitavano gli usi civici, risolutivo sostegno all’esistenza del proletariato rurale. Ciò era coerente con il pensiero riformatore, anche se il fatto non piace ai posteri adoratori del privatismo cavourrista e liberale.
L’antistoricità del governo borbonico è solo retorica unitaria. Il riformismo napoletano non adottò in toto il modello dei i filosofi inglesi, che mirava alla formazione di un universo di proprietari esclusivi, e di un numero di esclusivi nullatenenti elevato all’ennesima potenza. La secolare fedeltà dei contadini verso i Borbone prova la giustezza del modello borbonico, ispirato alle riflessioni di Antonio Genovesi e Gaetano Filangieri.
La Repubblica Partenopea, il regno dei Napoleonidi e lo Stato italiano, rifiutando il riformismo, innescano uno dei fondamenti della Questione meridionale, quello che è costato più sangue e più lacrime, la povertà contadina.
Non v’è dubbio alcuno che l’unificazione politica della penisola italiana ha prodotto un risultato disastroso per le popolazioni del sud e delle isole. Il carattere coloniale dello Stato nazionale fu evidente sin dalla Dittatura di Garibaldi. Non lo vede soltanto chi ha la convenienza di camuffarsi da cieco.
La creazione di uno Stato borghese, fondato sulle eguaglianze economiche contemplate dal diritto civile può sembrare un passo avanti, ma, in mancanza dello sviluppo industriale, fu un passo indietro per l’equilibrio fra le classi sociali e per l’equa (o non troppo iniqua) divisione del prodotto interno.
L’eguaglianza giuridica dei cittadini, o meglio dei soggetti di diritto, la degradazione degli aristocratici a borghesi venne compensata economicamente, permettendo ai baroni di far passare (o di acquistare per pochi soldi, o per sgraffignare sottobanco) i beni assoggettati a diritti promiscui (con i contadini) come beni in piena proprietà (terre burgensatiche). Questo, per non parlare del passaggio in mano privata dei beni ecclesiastici.
Gli antichi diritti dei contadini non ebbero, invece, alcun compenso. A dirla succintamente si ebbe una versione meridionale della questione della povertà, alle cui origini stavano le enclusures, le recinzioni dei fondi nobiliari in Gran Bretagna, su cui si sofferma Marx, al fine di delineare la nascita del proletariato, dei nullatenenti, nella mirabolante liberazione dell’uomo-contadino feudale realizzata ad opera dello Stato di diritto.
Il ritardo storico del Sud, su cui si sbrodola il primo meridionalismo, quello che inaugura l’alibi della questione meridionale a sostegno e come legittimazione della colonizzazione del Sud, non so se sia una beffa o una truffa. Beffa o truffa, lo sa Iddio, è chiaro, però, che le masse contadine messe sul mercato dalla liberazione unitaria non trovarono lavoro nei settori extragricoli. Cosa che sarebbe stata il primo compito e dovere del ridente Stato nazionale.
Fin qui la storia, una storia, però, che è incapace di diventare politica. Nonostante le ininterrotte sopraffazioni, l’evidente inimicizia, la disoccupazione endemica, l’insulto razzistico, le popolazioni meridionali non rifiutano il sistema italiano e non si pongono il problema della liberazione nazionale.
Certamente peccherei di presunzione impancandomi a sociologo, tuttavia mi pare di poter spigare la contraddizione. Il popolo, in particolare la classe contadina, venne assoggettata contro la sua volontà allo Stato toscopadano, il quale rifiutava a livello filosofico e a livello pratico di prenderne in considerazione gli interessi; né ha, poi, mai veramente riveduto la sua posizione teorica e pratica. In centocinquanta anni di unità, lo Stato toscopadano ha pervicacemente negato all’esercito meridionale di riserva la possibilità di fluire verso il lavoro salariato e la condizione operaia.
Al contrario la classe della rendita fondiaria e la classe della piccola borghesia meridionale, che pur accettarono l’unità e lo Stato italiano malvolentieri, e soltanto in vista dell’offa che esso offriva di trasformare i beni assoggettati all’uso civico in proprietà privata da acquistare a un prezzo vile, quando non anche con gli imbrogli, hanno ricevuto e ricevono l’assistenza dello Stato italiano a ogni loro crisi.
Per giustificare sé stessa, la borghesia meridionale (di Stato) ha cancellato la storia del paese, o peggio ha trasformato in negativo ciò che era positivo (i Borbone, il Cardinale Ruffo, il cosiddetto brigantaggio, etc), ed essendo la classe addetta alla gestione del sapere e all’alfabetizzazione interclassista, è riuscita nell’opera di mettere sugli altari il nemico della nazione; ha costruito altresì dei miti autolesionisti, tipo quello che porta in cielo un incosciente e ambiguo artefice dell’unità, come Garibaldi, o come la Juventus, specchio di ogni imbroglio circa il primato torinese.
Soprattutto ha mitizzato l’inferiorità del Sud e reciprocamente la superiorità della Padana; una superiorità economica che ieri non era un fatto ma oggi lo è. Dice il sapere unitario che tale superiorità è modello da seguire per produttori meridionali. Portino le prove, gli illustri signori! Mi piacerebbe sbagliarmi, ma i fatti dicono il contrario.
Siderno, 7 Marzo 2006
tratto da: http://www.eleaml.org/nicola/storia/nz_gli_italiani.html
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