venerdì 11 dicembre 2009

Storia, resistenza e guerra civile - L’insufficiente storicizzazione e le sue conseguenze


GIUSEPPE PARLATO

Una delle caratteristiche più strane della vicenda della “guerra civile” è il rapporto tra storiografia e memorialistica. A fronte di una sterminata produzione memorialistica prodotta dal movimento partigiano, la storiografia sulla Resistenza è ancora ferma – lo rilevava Zunino nel suo ultimo libro – a pochi autori classici che hanno saputo ricostruire una vicenda storiografica completa e non solo settoriale e o locale1: dal classico e antico Battaglia al non recente Pavone si dipana una produzione non amplissima, non particolarmente innovativa, qualche volta ripetitiva2.
Ciò è avvenuto, in questo dopoguerra, nonostante la presenza di un Istituto nazionale per la storia del Movimento di Liberazione e di una serie numerosa di istituzioni locali preposte alla memoria della Resistenza e alla ricostruzione della sua storia. A fronte di ciò, invece, la produzione memorialistica non conosce soste o appannamenti, nonostante il dato anagrafico che dovrebbe portare a un naturale affievolirsi, con il procedere degli anni, della memoria: è sufficiente osservare i volumi o i saggi usciti in occasione degli ultimi anniversari – il cinquantenario, nel 1995 e il sessantennio, nel 2005 – per vedere come la proporzione sia nettamente in favore della memorialistica.
Anche il fascismo repubblicano ha avuto una notevole – anche se meno nota – produzione memorialistica: nei primissimi anni dopo la fine della guerra sono intervenuti molti dei capi politici della Rsi; negli ultimi anni si assiste a una ripresa di produzione memorialistica, soprattutto legata a due case editrici, Settimo Sigillo di Roma e Lo Scarabeo di Bologna, che svolgono una importante funzione di scavo nella memoria di chi ha militato nella Rsi, con particolare attenzione alla componente militare. Occorre dire che, anche per la Rsi, alla discreta produzione memorialistica non fa riscontro una altrettanto ampia produzione storiografica. Dopo il classico De Felice, vanno ricordati i volumi di Lepre, Ganapini, Gagliani, Chiarini e Rossi, nonché la fondamentale pubblicazione dei verbali del Consiglio dei Ministri della Rsi, a cura di Scardaccione e Ricci3; da
Degli Espinosa, considerato un testo storico per la precisione con la quale è redatto ma in realtà testo memorialistico5.
Il Regno del Sud, in fondo, fu il vero vincitore della partita in termini di continuità, anche se poi la monarchia risultò sconfitta; gli uomini che ressero lo Stato italiano non dovettero, per molto tempo, “giustificarsi” di fronte agli avversari: non ci fu, al Sud, guerra civile, non ci fu quindi la violenza che caratterizzò il nord; ci fu solo il difficile tentativo di mettere in piedi uno Stato nonostante la pessima gestione dell’armistizio. Tuttavia, le polemiche contro le modalità dell’armistizio, fino a una decina d’anni fa, costituivano uno dei principali argomenti polemici del neofascismo, che su giornali quali “Meridiano d’Italia” e “Rivolta Ideale” iniziò immediatamente, tra il 1945 e il 1946, a sottolineare il “tradimento” monarchico e la disfatta dello Stato. Soltanto recentemente, con Galli della Loggia, De Felice e Elena Aga Rossi6 si è affrontato storicamente il problema. Ciò non dovrebbe comunque avere impedito ai protagonisti del Regno del Sud di parlare della propria esperienza.
Per spiegare questa strana assenza, occorre, forse, rifarsi a un altro caso quasi esemplare, relativo ai soldati italiani prigionieri degli Alleati. Com’è noto, tra coloro che furono catturati dagli americani e dagli inglesi, si pose, dopo l’8 settembre, il problema della scelta di campo: a coloro i quali si riconobbero con le scelte del Re e di Badoglio fu possibile essere considerati “cooperatori” dagli stesi Alleati; coloro i quali, invece, continuarono a considerarsi prigionieri dei nemici – anche non aderendo formalmente alla Rsi – furono considerati “non cooperatori”, il che ebbe non poche ripercussioni nel trattamento di prigionia.
Il dato significativo è rappresentato dal fatto che mentre coloro che cooperarono non hanno lasciato praticamente notizia della propria esperienza, i “non”, come si chiamano tra loro, hanno lasciato fior di memorialistica: da Gaetano Tumiati e Giuseppe Berto, tanto per ricordare i più significativi7.
Come dire che la memoria, la necessità di costruire la memoria, nasce dal dolore e dalla sconfitta; nasce dalla necessità di testimoniare qualcosa che non è stato ma avrebbe dovuto essere.
In questo senso il mito della Resistenza (più o meno tradita) o il mito della Rsi sono due miti perdenti, o sono percepiti come tali: il secondo per evidenti motivi storici; il primo perché sicuramente la società che nasce dopo il 25 aprile, e soprattutto dopo il 1948, non è la società per la quale si sono battuti i partigiani di sinistra. Un tasso così alto di idealità, anzi, ha inciso assai più profondamente in termini di frustrazione rispetto agli sconfitti per eccellenza, i fascisti, per i quali ogni momento di inserimento o, soltanto, di allentamento della emarginazione poteva diventare in qualche modo gratificante.
Che nell’immediato dopoguerra si sia voluto “negare” politicamente e moralmente l’esistenza della Rsi è abbastanza evidente ed è anche abbastanza normale. In tutte le guerre civili, la storia immediata la scrivono i vincitori, mentre gli altri debbono subire i contraccolpi della vicenda che li ha visti soccombere.
Il problema della negazione della Rsi riguarda il tasso di storicizzazione che successivamente si è voluto dare a quelle vicende e parte, in primo luogo, dalla storicizzazione della stessa Resistenza. In realtà, il tasso di spinta ideale che la guerra partigiana ha dato alla vicenda della guerra civile è stato molto alto: non soltanto è stato pagato con un forte sacrificio di vite umane ma ha coinvolto, soprattutto nella fase finale, molte persone, ovviamente soprattutto nella Valle Padana. Non si è trattato di “un popolo alla macchia”, come titolava retoricamente il libro di Luigi Longo8, ma certamente si è trattato di una popolazione di decine di migliaia di persone che, pur debitamente considerando la “zona grigia” di chi non ne voleva sapere di schierarsi, rappresentò pur sempre una porzione significativa della popolazione dell’Italia settentrionale.
Di fronte a queste persone, di fronte a tutti coloro che, in un modo o nell’altro, furono coinvolti, i governi dell’Italia del dopoguerra hanno in buona misura dovuto dare conto dell’avvenuta vittoria. Vittoria che non si concretizzò come i partigiani di sinistra (le brigate Garibaldi) avrebbero voluto, tanto è vero che proprio costoro erano stati i fautori della cosiddetta “seconda ondata”, quella cioè che avrebbe fatto continuare la terza delle tre guerre di cui parla Pavone, la guerra di classe, chiudendo così il conto non soltanto contro i tedeschi e i loro alleati italiani, ma anche contro coloro che avrebbero sicuramente ostacolato, a vittoria avvenuta, l’avanzata del Pci e il suo progetto di conquista del potere.
Allo stesso modo, il mondo azionista vide con disincanto e con delusione la fine del sogno di rigenerazione italiana attraverso la cultura gobettiana e amendoliana, preparandosi a una sterile quanto dignitosa opposizione con il piccolo Partito d’azione, vaso di coccio tra partiti di massa, che rivendicava la bandiera del Risorgimento e della laicità.
A fronte di tutto questo, quale fu la sorte della Resistenza? Se si fosse scelta la strada della storicizzazione, in primo luogo se ne dichiarava ufficialmente la morte: si storicizza quello che non è più vivo, quello che consegniamo al giudizio postumo, non quello che è ancora vivo e che opera effettivamente. In secondo luogo, se si fosse storicizzata la Resistenza, sarebbe emerso già allora un problema di tipo politico: quante Resistenze? E gli scontri interni alla Resistenza, i Moranino della situazione, come si sarebbero giustificati? E se poi, ad una analisi storica, fossero emersi imbarazzanti questioni sul reale contributo degli Alleati alla liberazione della penisola, ovvero, ancora peggio, fossero emerse complesse problematiche legate ad alcuni episodi ancora oggi poco chiari. Ogni storicizzazione costituisce di per sé un fatto positivo; ma quando si intraprende la storicizzazione di un fenomeno, lo stesso viene scomposto, analizzato, sezionato. Alla fine, l’uso politico di quel fenomeno può essere compromesso.
Occorreva, invece, che la Resistenza restasse un punto di riferimento politico, fondante l’idealità nuova del nuovo Stato. Che poi questo Stato non fosse come la Resistenza avrebbe voluto, poco importava. Era comunque importante mettere la Resistenza nella teca, renderla oggetto di culto, sostenere che la Resistenza era effettivamente il fondamento politico e morale del nuovo Stato: il che, per certi versi, era effettivamente vero: nessuno dei partiti – salvo l’U.Q. o il Msi – volle mai mettere in discussione questo contesto etico prima che politico; né pensò di contestare la legittimazione antifascista del nuovo Stato e della nuova società. La condizione essenziale era comunque che questo messaggio fosse inteso come mitico e liturgico, in grado di non essere attaccato pena la delegittimazione politica e morale e in grado di determinare una svolta politica in termini di “antifascismo militante”. Un mito, per essere tale, non deve assolutamente essere messo in discussione dall’interno, né analizzato: questo spiega perché il mito dell’antifascismo volle essere unificante nel paese ma soprattutto pretese di essere unito: sottolineare la presenza di varie correnti all’interno dello schema antifascista, ne avrebbe vanificato la potenzialità mitica e liturgica.
Di qui la sofferenza di molti esponenti della Resistenza che hanno dovuto accettare questa patina di unanimismo per molti anni: da poco tempo si è incominciato a parlare di una Resistenza dell’esercito, degli internati in Germania, gli IMI, di una Resistenza cattolica non esattamente in sintonia con quella garibaldina, ecc.
L’insufficiente (per molto tempo, addirittura mancata) storicizzazione della Resistenza ha avuto come contraccolpo la mancata storicizzazione della Rsi. Anche in questo caso la repubblica di Mussolini è diventata “mito”. Il Msi e i neofascisti hanno assunto la Rsi come mito rivendicativo e identitario, insieme con l’assassinio di Gentile e insieme con la socializzazione delle imprese, un mito mai sconfitto dalla realtà perché di fatto mai entrata in vigore. Il mito inespresso, quindi immacolato e valido per costruire una politica altro rispetto alla realtà. Per sostenere il mito della “riserva indiana” e anche per potere occasionalmente trattare con quel potere che aveva permesso la nascita e l’esistenza del Msi a dispetto (apparente) del quadro antifascista.
Dico “apparente” perché come avrebbe potuto alimentarsi di sacro sdegno il mito antifascista se non ci fosse stata, impudicamente presente, quella fiamma a ricordare quotidianamente il pericolo fascista, il rigurgito costante, il “male assoluto” periodicamente presente?
E, nel contempo, come avrebbe fatto il neofascismo a sottolineare in continuo la propria identità dolente e ferita, se il dopoguerra avesse superato il dilemma fascismo-antifascismo come alcuni intellettuali chiedevano (come, ad esempio, Augusto De Noce9)?: come sarebbe stato possibile un fascismo durato vent’anni in grado di proiettare un cono d’ombra nel futuro che durerà più del doppio della propria esistenza? Un neofascismo che dura fino a Fiuggi (1995) non è forse un’anomalia del sistema politico italiano altrettanto curiosa quanto il fatto che in Italia nasca un partito neofascista a 20 mesi dalla fine della guerra civile?
La mancata storicizzazione dei due elementi, ha impedito una effettiva razionalizzazione del problema fascismo e ha consentito la permanenza di frammenti di intolleranza (neofascista e neoantifascista) non sufficientemente metabolizzati dal sistema politico italiano. Per questi motivi, una nuova stagione di studi storici sul periodo della guerra civile è auspicabile sia scientificamente, sia civilmente.

Il ruolo della Resistenza

Si può partire, nella interpretazione del fenomeno resistenziale, dalla già ricordata riflessione di Claudio Pavone circa l’esistenza di tre guerre tra il 1943 e il 1945: la guerra patriottica, combattuta dai partigiani per cacciare l’invasore tedesco; la guerra civile che contrappose partigiani e fascisti, e infine la guerra di classe, quella combattuta dalle formazioni comuniste contro il fascismo e contro tutti coloro, anche partigiani, che in qualche modo erano ritenuti elementi reazionari e che in diversa misura avrebbero potuto impedire il radicale rinnovamento della società italiana. La lettura di Pavone è interessante essenzialmente per due motivi. Da un lato è il primo studioso, a sinistra, ad utilizzare il termine di “guerra civile”: è noto infatti che la definizione di guerra civile – con la quale Pisanò titolò i tre volumi di una delle più documentate e interessanti letture da destra della guerra civile10 – risultava inaccettabile ad una interpretazione militante e mitica del fenomeno resistenziale, in quanto poteva indurre a porre in qualche modo sullo stesso piano, come combattenti e come italiani, sia fascisti che partigiani11. Dall’altro perché ammette uno dei tabù più radicati nell’ambito della memorialistica partigiana: il silenzio sulle vendette e sugli scontri interni alla resistenza, spesso condotti per portare a termine un disegno ideologico di stampo comunista, sul quale altre correnti della Resistenza (badogliani, cattolici, ecc.) non potevano essere certamente d’accordo.
Un altro elemento sul quale andrebbe compiuta una riflessione è la consueta e consolidata identità tra antifascismo e Resistenza, termini spesso sovrapposti e confusi. Vi sono, in realtà, elementi comuni e fattori di diversità fra i due momenti dell’opposizione al fascismo.
L’antifascismo è molteplice e sostanzialmente equilibrato nella sua molteplicità; nell’antifascismo forte è la componente prefascista, una componente per lo più moderata, di tradizione liberale e democratica, legata al messaggio risorgimentale, con forti perplessità sugli obiettivi del Partito Comunista; anche nella emigrazione politica a Parigi, all’interno della Concentrazione, i rapporti fra questo antifascismo e il Pci non furono mai idilliaci e soltanto con la guerra di Spagna si verificò un avvicinamento tattico; lo stesso antifascismo democratico imputava al Pci la disinvoltura con la quale intratteneva rapporti con esponenti del fascismo di sinistra attraverso gli “appelli ai fratelli in camicia nera”. La Resistenza appare immediatamente un fenomeno diverso: è un movimento organizzato, dotato di una forte struttura territoriale, anch’esso composito tra le varie “anime” politiche ma la prevalenza militare, organizzativa, ideologica e infine anche numerica delle Brigate
Garibaldi sulle altre formazioni fu sempre e costantemente evidente e decisiva ai fini dell’esito della guerra civile. Se si possono individuare due elementi comuni – l’assenza, in entrambi, di una comune base ideologica, prevalendo l’elemento “anti” su quello propositivo; il fatto di essere, entrambi, fenomeni di élite, non avendo mai raggiunto, se non dopo il 25 aprile, le dimensioni di massa – un terzo elemento è, a nostro avviso, decisivo per stabilire una non sempre evidente continuità fra antifascismo e Resistenza. Se coloro che animarono l’antifascismo, sia durante l’avvento del regime di Mussolini, sia negli anni del fuoriuscitismo, erano, lo si è già detto, anagraficamente e culturalmente di formazione prefascista, coloro i quali, invece, parteciparono alla Resistenza erano in buona misura giovani di leva, per sfuggire alla quale si erano rifugiati sullemontagne. Costoro avevano avuto un’educazione sostanzialmente fascista e i più preparati di loro erano passati attraverso i Gruppi universitari fascisti (Guf), attraverso le Scuole di preparazione politica del Pnf o addirittura attraverso i corsi della Scuola di Mistica fascista. In altri termini, costoro si erano preparati alla politica attraverso le strutture fasciste negli anni successivi alla guerra di Etiopia e avevano percorso, ciascuno, il proprio “lungo viaggio” attraverso il fascismo, viaggio che partiva, generalmente, dalle rive della sinistra fascista per giungere al Pci: ciò che caratterizzava tale trasmigrazione considerata frettolosamente, da parte fascista, frutto di mero opportunismo e di calcolo, fu proprio la comune propensione per la svolta totalitaria che accomunava fascisti di sinistra e comunisti. Nonostante la guerra civile, fu la sinistra fascista – dopo e nonostante Salò – a fornire alla struttura organizzativa e culturale del Pci la maggior parte della classe dirigente12.
In questa essenziale e non trascurabile trasmutazione genetica dell’antifascismo – da democratico a totalitario, con l’immissione dei giovani ex fascisti – sta una delle chiavi di lettura della evoluzione della storia dell’Italia postbellica, della centralità rivoluzionaria acquisita dalla Resistenza, interpretata sempre più in chiave palingenetica e morale, e, infine, della questione circa la continuità o la discontinuità dello Stato italiano tra fascismo e postfascismo.
Vi sono alcuni dati che apparvero acquisiti nel cinquantennio repubblicano a proposito del rapporto fra l’antifascismo e la caduta del regime. Significativa, a tale proposito, la funzione determinante, secondo molti storici a cominciare da Paolo Spriano13, degli scioperi del 1943 per segnare e determinare la fine del regime. I fatti sono noti. A Torino e a Milano, tra il marzo e l’aprile 1943, in molte fabbriche si determinarono interruzioni dal lavoro: un fatto certamente
inusuale e clamoroso, perché, come è altrettanto noto, il regime proibiva sia lo sciopero che la serrata. Pochi comunisti, organizzati in termini elementari ed embrionali, riuscirono a mettere in scacco quel che restava del sistema produttivo fascista e a costringere il regime a concedere quegli aumenti salariali che erano già stati promessi dal regime alla fine del 1942, in occasione del
Ventennale della Marcia su Roma. Questo episodio, enfatizzato dalla storiografia di scuola marxista, avrebbe determinato la stessa caduta del regime, trasformando l’adesione allo sciopero in protesta attiva contro la guerra e il fascismo. In questa ricostruzione tuttavia qualcosa non funziona: intanto gli scioperi non si svolsero soltanto a Torino e a Milano ma si estesero a molte microaziende, da Palermo a Viareggio, dall’Emilia al triangolo industriale (Novara, Vercelli, ecc.). Gli scioperi si verificarono, cioè, anche in zone diverse da quelle dove l’attivismo comunista era operante, mentre in una città dove i nuclei comunisti erano forti, Genova, grazie ad una accorta politica di aumenti salariali operata dalla Ansaldo, l’astensione dal lavoro non si verificò14. In realtà, si trattò di scioperi di carattere essenzialmente economico che ebbero una importante valenza politica per almeno tre ragioni: perché mettevano in evidenza la crisi di struttura del regime, incapace di fare fronte allo stillicidio dei bombardamenti delle aziende e alla
conseguente insicurezza dei lavoratori; perché furono i primi scioperi da vent’anni, dopo che il regime aveva dimostrato che era possibile realizzare una certa dinamica sociale anche senza il ricorso allo sciopero; perché i nuclei comunisti si inserirono in questa situazione e la sfruttarono alla meglio per dimostrare come un pugno di uomini determinati fosse riuscito a piegare il regime ponendo le premesse per la sua caduta. Evidentemente non riuscirono a trasformare quell’episodio
nella spallata finale al regime agonizzante, perché il crollo del fascismo si verificò tre mesi più tardi e del tutto indipendentemente dalle pressioni popolari, meno che mai riconducibili agli scioperi.
Tuttavia, per molti anni, la tesi “ufficiale” di buona parte della storiografia ha messo in stretta relazione le astensioni dal lavoro con la fine del regime, sottacendo – o riducendo di importanza – il ruolo dei militari, del Sovrano e degli ambienti di corte nella caduta di Mussolini.
Si ponevano così le basi, per la storiografia marxista, di un progetto di ricostruzione storica degli eventi finali del regime nel quale non già il Palazzo con i militari e con il Re avevano fatto cadere il Duce, bensì la spinta popolare, la sollevazione della opinione pubblica, la nascita di un
antifascismo preresistenziale che in realtà, avendo determinato la caduta del regime, poteva avanzare pretese e legittimazioni nel vedersi affidare il potere dopo la fine della guerra. La Resistenza, così, non era più un fatto isolato, ma si saldava con l’antifascismo fuoriuscito e con quello che contrastò il fascismo negli anni Venti, acquisendo piena giustificazione storica e morale. Nasceva, con l’episodio degli scioperi, il modello riproposto nel dopoguerra, di una
Resistenza, cioè, liturgica e completamente saldata con la storia precedente, tendenzialmente operaistica.
La necessità di valorizzare oltre misura gli scioperi del 1943 dipendeva anche da un altro fattore: le modalità con cui cadde il fascismo. Nonostante il progressivo scollamento del fronte interno, nonostante l’andamento sempre più disastroso del conflitto, nonostante il distacco sempre più evidente tra il regime e la popolazione, sottoposta a privazioni, a incursioni aeree, a mancanza
di lavoro, il regime fascista non cadde su iniziativa popolare ma in seguito a una strategia seguita dagli ambienti militari e dalla corona finalizzata a liquidare Mussolini e fare uscire l’Italia dal conflitto. Trovato un appiglio costituzionale (il Gran Consiglio), il Re riuscì a fare leva sul sincero atteggiamento costruttivo di Grandi e di altri gerarchi fascisti, i quali volevano un fascismo moderato, conservatore, in grado di lasciarsi presto alle spalle dittatura, stato totalitario e partito unico, per avere soprattutto un fascismo senza Mussolini. Dopo la seduta del 24-25 luglio 1943, nella quale l’ordine del giorno Grandi – che prevedeva il ripristino delle prerogative statutarie e il ritorno al Re del comando delle forze armate – il Re liquidò Mussolini, facendolo arrestare a Villa Savoia, lo sostituì con Badoglio e gettò, nei 45 giorni, le basi per la capitolazione dell’8 settembre.
In tutto ciò, il popolo, l’insurrezione popolare, lo sdegno di un popolo da vent’anni in catene non ci furono. Ci fu, il giorno dopo, la folla che si riversò nelle strade per manifestare soddisfazione per la fine della dittatura, ma soprattutto certezza che la guerra fosse agli sgoccioli. La volontà di pace si sommava alla sfiducia nel fascismo: che tuttavia quello del 25 luglio dovesse essere un passaggio costituzionale e non una camuffata insurrezione, era chiaro a Grandi che infatti si preoccupò non poco e capì che tutto era compromesso non appena gli giunsero le notizie delle prime manifestazioni di piazza e dei primi atti di giustizia sommaria nel confronti del fascisti15.
La stessa scelta a favore della Resistenza da parte di molti giovani è stata ampiamente mitizzata, sia in termini quantitativi che in termini qualitativi. Ai trecentomila dell’aprile 1945, quando non era difficilissimo essere partigiano e ai cinquecentomila “brevettati” partigiani nei mesi successivi la Liberazione, quando era opportuno essere stato partigiano, corrispondevano “soltanto” 30 mila uomini in montagna nel marzo 1944 a far la scelta della clandestinità, quando, negli stessi mesi, erano arruolati nelle forze armate della Rsi quasi 400 mila uomini. E’ impressionante considerare come in un mese, dal marzo all’aprile, i partigiani aumentino a 44 mila, mentre un mese dopo ancora, i primi di maggio, sono già diventati 82 mila16. Tale vertiginoso aumento della forza partigiana fu determinato non tanto da un repentino e cospicuo mutar d’orientamento da parte della pubblica opinione, quanto più semplicemente dai bandi della Rsi e cioè da quella leva obbligatoria che Mussolini e Graziani imposero come elemento essenziale per potere configurare la Rsi come uno Stato nazionale a tutti gli effetti, contraddicendo le ipotesi di chi (Pavolini fra tutti, ma anche Borghese) avrebbero preferito puntare su un esercito di volontari, politico o no. E’ indubbio quindi che l’ingrossamento delle formazioni partigiane dipese, in buona misura, dalla coscrizione obbligatoria imposta da Salò. La tesi della “zona grigia”, formulata da De Felice, attiene anche a questo specifico aspetto: fascisti e partigiani furono due minoranze contrapposte, rispetto ad una popolazione che non voleva più saperne di combattere. Il Bando Graziani si abbattè sulla zona grigia, inducendo molti che non si erano ancora esposti o che non avevano fatto ancora una scelta chiara, a scegliere; e spesso furono proprio i bandi fascisti a determinare indicazioni di ordine eticopolitico nella popolazione, soprattutto nei giovani.
In termini qualitativi, va ricordato che la scelta di andare a Salò o in montagna, come lentamente inizia ad essere osservato da molti, dipese dai motivi più vari, non sempre riconducibili a ragioni di carattere politico. Oltre alla storiografia17, anche nella letteratura di parte resistenziale si trovano accenni alla casualità di molte scelte, partigiane o fasciste. A tale proposito spesso viene citata solo una battuta di Calvino messa in bocca al partigiano Kim (“basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte”); tuttavia, ben più significativo è il più
lungo brano riportato all’inizio del medesimo volume: “Per molti miei coetanei era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da
repubblicani diventavano partigiani e viceversa; da una parte e dall’altra si sparavano e si facevano sparare; solo la morte dava alle loro scelte un segno irrevocabile”18.
E, d’altra parte, non poteva essere diversamente se si pensa alla comune matrice politica della generazione della guerra civile – come già si è cercato di dimostrare – e se si pensa alla
assoluta assenza di rapporti fra i primi fuorusciti che rientrano nel 1943 per provvedere alla costituzione di focolai di insurrezione e la base popolare, che della presenza di antifascisti operanti
intorno e subito dopo il 25 luglio mai si era accorta. L’assenza, poi, nell’Italia settentrionale di strutture in qualche modo collegate col Regno del Sud rendeva particolarmente complessa la scelta
tra andare in montagna con i partigiani o aderire ai bandi della Rsi. Per chi non avesse una personalità politica formata e strutturata o per chi non avesse avuto in casa un evento, un lutto
politico che facesse pendere decisamente la scelta verso l’una o l’altra parte, si trattava comunque sempre di una scelta eversiva. Eversiva la scelta partigiana, per evidenti motivi anche logistici
(l’andare in montagna) e per altrettanto evidenti motivi politici: la scelta rivoluzionaria, spesso comunista, la volontà di riedificare un’Italia nuova che rompesse i rapporti non solo col fascismo
ma con i conservatori e i moderati di ogni tipo; ma eversiva anche la scelta a favore della Rsi, soprattutto se si pensa che difficilmente la popolazione era in grado di cogliere quelle linee di
continuità tra l’Italia fino al 1943 e la Rsi, che oggi molti storici (ma non tutti) tendono a riconoscere. Eversiva, poi, la scelta per il fascismo repubblicano, nella misura in cui, anche
visibilmente, rappresentava una rottura istituzionale con la continuità della storia d’Italia e della sua tradizione monarchica: si pensi, solo per fare qualche esempio significativo, alla sostituzione delle
stellette con i gladi e alla dura polemica contro Vittorio Emanuele III e la casa “Savoja” (indicata così per sottolinearne in qualche modo l’origine “straniera”) o, nella versione più offensiva, “Saboia”.
In sostanza, si può dire che l’unica scelta non eversiva, all’interno del movimento di resistenza al fascismo e al nazismo, fu effettivamente costituita dalle centinaia di migliaia di soldati
che, sorpresi l’8 settembre dall’armistizio, scelsero di confermare, nonostante tutto, la scelta a favore della istituzione monarchica, in quanto continuità nella tradizione dello Stato: coloro che
divennero IMI (Internati militari italiani) operarono, nel biennio della guerra civile, una resistenza della quale poco si è sinora parlato che fu svolta in condizioni di assoluta difficoltà, nei campi di
internamento tedesco, e che non è mai stata considerata politicamente corretta perché non sostenuta dall’ideologia che invece caratterizzò la maggior parte degli aderenti al movimento partigiano19.
Inoltre, forte era la diffidenza della Resistenza (più quella azionista di Giustizia e Libertà, che quella comunista) nei confronti delle strutture del passato, a cominciare dall’esercito: gerarchica e
conservatrice, pesantemente collusa col fascismo, istituzionalmente legalitaria, necessariamente
apolitica, la struttura militare impediva quella libera espressione delle volontà politiche che GL poneva al centro dell’ “essere partigiano”20.
Quindi, casualità della scelta, in molti casi. La scelta dell’amico, la situazione territoriale nella quale chi doveva scegliere si veniva a trovare, l’avere assistito a eventi di sangue
particolarmente efferati, fecero in molti casi pendere la bilancia verso una o l’altra soluzione. E ciò smentisce l’idea – che tradizionalmente è stata proposta – di un popolo compatto che non ha dubbisulle scelte e che condanna, prima moralmente che politicamente, il fascismo per dare alla Resistenza in atto il senso di una rivolta rigeneratrice di tutta una popolazione, tesa a costruire un’Italia nuova, ovviamente comunista. Sicuramente, poi, la scelta della montagna fu determinata anche dalla forte struttura delle brigate Garibaldi, braccio armato del Pci, le quali meglio e più delle altre formazioni seppero attirare consensi e militanza, mostrando una efficienza, una disciplina e una ferrea metodologia di azione che apparivano le condizioni ottimali – anche per chi, almenoall’inizio, comunista non era – per giungere agli obiettivi che il movimento partigiano si eraprefissato.
Perché quindi la storiografia marxista (ma non soltanto questa), per decenni ha accreditato un’immagine diversa, monolitica, eroica, morale della Resistenza? Non soltanto per una necessità di partito: certamente, ebbe un ruolo anche l’orgoglio del Pci di essere non soltanto l’unico partito che seriamente era stato organizzato durante il regime, di essere il primo ad avere impostato un minimo
tentativo (anche se fallito) di creare le condizioni per una insurrezione popolare, di essere, infine, il
più efficiente soggetto una volta costituite le organizzazioni partigiane; e, ancora, di essere il più lucido progettualmente tra quelle forze politiche che avevano deciso di combattere il fascismo e il
nazismo: perché, anche questo va detto, più o meno inconsapevolmente, le forze laiche (“Giustizia e Libertà”, in primo luogo, ma anche i cattolici e soprattutto i “badogliani”) si resero rapidamente
conto che l’obiettivo, naturale e ovvio, di vincere la guerra civile poteva diventare in realtà la vittoria del solo Pci. In altri termini, abbastanza presto si pose il problema della unità delle forze
della Resistenza che, reale – anche se con molte eccezioni – nella fase operativa della guerra civile, diventava problematica una volta che si dovesse stabilire chi avrebbe beneficiato politicamentedella vittoria.
Tornando alla domanda posta poc’anzi, la risposta va individuata anche e soprattutto dal punto di vista politico: l’immagine coesa, unitaria, monolitica della Resistenza era indispensabile
affinché il fenomeno partigiano non si esaurisse nel volgere, breve o lungo che fosse, corso della guerra civile stessa. Se la Resistenza doveva diventare l’anima del nuovo Stato, se l’antifascismo
come valore politico e morale doveva diventare il cemento col quale si poteva costruire la Nuova Italia, se il movimento partigiano non era soltanto sporadico ed occasionale soggetto combattente
ma in realtà la nuova aristocrazia sulla quale si doveva basare la nuova classe dirigente nata, appunto, dalla Resistenza, allora la Resistenza, come si è detto, doveva a poco a poco perdere i
propri connotati storici ed assumere quelli liturgici di un fenomeno che doveva diventare il mitofondante del nuovo Stato21.

Quale Resistenza?

La lettura azionista della Resistenza ha comprensibili responsabilità sulla sua “liturgizzazione”. E ciò perché, mentre il Pci inizia già dalla fine del 1945 ad “aprire” ai fascisti,
compresi quelli che erano andati a Salò, e, in particolare, ai sindacalisti fascisti, allo scopo evidente
di costituire una forte classe dirigente con quegli elementi che l’avevano rappresentata nel ventennio precedente, “Giustizia e Libertà” ha l’incarico di difendere il messaggio più profondo
della Resistenza. Per fare questo è disposta a rischiare anche la emarginazione politica, tanto è forte il messaggio, morale prima che politico, che essa vuole dare per la nuova Italia. Ciò era già evidente
nell’autunno del 1944, quando Giorgio Agosti scriveva a Livio Bianco una lunga lettera, nella quale, tra l’altro, evidenziava le priorità strategiche del momento: “Lo scopo della impostazione
politica della nostra guerra partigiana è la liquidazione, prima che del nazismo e dello stesso fascismo, di tutto quello sporco ammasso di interessi reazionari che sappiamo. I quali interessi
cercano oggi disperatamente appigli in campo conservatore angloamericano e certo ne troveranno.
A noi restano due cose: 1) creare il maggior numero possibile di fatti compiuti (liquidazione spietata di fascisti e di collaborazionisti, e liquidazione radicale di istituzioni e di posizioni); 2) non
disarmare nell’immancabile fraterno abbraccio democratico della vittoria, ma tenere pronti gli animi e gli uomini e le armi. Questa è la grande carta che non avevamo il 26 luglio: sono questi dodici
mesi di guerra partigiana, sono i nostri caduti, sono i contadini, gli operai, gli studenti che si sono affratellati e maturati nella lotta armata e in città e sui monti, sono le armi che abbiamo così
stentatamente raccolte e così affettuosamente difeso e così strenuamente impiegate. Queste armi non dobbiamo lasciarcele togliere domani in nome di nessun immortale principio, né di destra né disinistra: e non dobbiamo lasciare arrugginire quell’arma anche più forte che è la coscienza della forza popolare nata nella lotta partigiana”22. Una difesa, dunque, che partiva dalla netta distinzione tra bene e male che era propria dell’insegnamento gobettiano e che animò tutta l’esperienza del Partito d’Azione. Fascismo e nazismo come male assoluto, come fine dell’umanità; quindi necessità che dalla lotta che gli azionisti avevano portato contro le due facce del male assoluto (comincia qui a diffondersi la categoria del “nazifascismo”) potesse emergere un’Italia nuova, completamente slegata da quei compromessi di potere che avevano dato implicitamente o esplicitamente vita al regime: la scelta tra conservazione e rivoluzione era morale prima che politica ed era anche inevitabile23.
Non a caso, proprio dalla parte politica che rivendicava la maggiore limpidezza nella lotta antifascista, emergevano i punti cardine dell’azione futura, che ci paiono fondamentali per comprendere l’evoluzione mitica e liturgica del fenomeno resistenziale.
In primo luogo, emerge l’importanza della storia, quindi della conservazione della documentazione della Resistenza, affinché le forze reazionarie non potessero modificare ciò che eraavvenuto: la storia, quindi, come momento fondamentale e pedagogico per la costruzione politica, affinché la Resistenza fosse inserita stabilmente nella storia d’Italia. Una storia che deve diventare tutt’uno con l’etica e con l’impegno morale assunto dal movimento partigiano nella trasformazione della società italiana; una storia, infine, che deve porsi in piena sintonia con la “coscienza civile” eche prepari quelle trasformazioni radicali necessarie alla nuova società italiana per chiudere i conti con il passato, dal Risorgimento dei compromessi al fascismo: una sorta di anno zero della politica e della storia italiane.
In secondo luogo, occorreva che la storia del movimento partigiano chiarisse bene che esso non era nato dalla casualità ma un forte impegno civile: “L’8 settembre avvenne proprio così: i soldati, cioè i partigiani uscivano da ogni parte, perché qualcuno aveva battuto col piede la terra: manon era stato un sovrano, re o principe che fosse, bensì una forza più alta e maestosa, quella che si chiama la coscienza civile (…) quella essenziale virtù insomma che, magari sotterranea e invisibile
per lungo volgere di anni, erompe nei momenti decisivi e spinge un popolo a non mancare nell’oradel dovere storico”24.
In terzo luogo era indispensabile che nella ricostruzione storica della Resistenza emergesse chiara la frattura e non la continuità tra l’Italia fascista e l’Italia democratica. Una frattura, sancita dalla guerra civile, non solo nelle istituzioni e negli uomini, ma soprattutto nella mentalità, nell’animo, nel modo di intendere la politica e la società; la nuova unità antifascista di ceti diversi, realizzatasi nei mesi della Resistenza, stava a significare che la lotta contro la reazione e contro
tedeschi e fascisti aveva creato qualcosa di diverso rispetto al passato: era, in sostanza, una variante della tesi di Gentile secondo la quale il fascismo prosegue, ampliandolo ed inverandolo, il Risorgimento, permettendo la partecipazione al processo unitario di tutte le classi della società e così facendo realizza una “rivoluzione”. Tale tesi viene applicata, con segno diverso, al postfascismo. Il problema, gobettiano e vociano, della rigenerazione morale della nazione, passa ora
attraverso il mito dell’unità antifascista, l’unico in grado di unificare interessi e realtà sociali diverse; in questo modo, tuttavia, non solo unifica il paese in nome di valori diversi dal passato, ma soprattutto tende ad una riforma radicale della società. In questo senso l’azionismo mostra volontà etica, desiderio di organicità nella società e soprattutto finalità pedagogiche di derivazione illuministico-giacobina.
Lo si nota, in termini quasi paradigmatici, in alcune delle lettere che compongono l’interessante carteggio di Gaetano Salvemini con alcuni esponenti di rilievo dell’azionismo, Eugenio Reale ed Ernesto Rossi. Molte delle lettere, che coprono un arco che va dal 1943 al 1947, riguardano l’esito politico e morale della Resistenza, le dimensioni dell’azione antifascista, la possibilità di cancellare completamente ogni ombra di fascismo dall’Italia: un’azione dettata da principi democratici ma fortemente venata di componenti illiberali e giacobine: “Per uscire veramente dal fascismo sarebbe stato necessario un periodo di dittatura rivoluzionaria, onde eliminare i complici di Mussolini dai posti di comando, procedere a una ridistribuzione in senso egualitario di quel poco che è stato salvato dal disastro e procedere a riforme strutturali che sono la condizione preliminare di ogni sviluppo democratico del nostro paese. Dopo vent’anni di fascismo pensare di uscirne con metodi democratici è un assurdo. Ma non sono mai riuscito a parlare di dittatura rivoluzionaria agli amici antifascisti senza scandalizzarli (…). E le circostanze in cui è caduto il fascismo sono state poi tali da rendere completamente utopistico ogni spirito rivoluzionario. Non è possibile fare delle innovazioni radicali con la presenza delle truppe di occupazione. Il governo inglese e quello americano considerano il nostro paese come un possibile trampolino di lancio nella prossima guerra contro la Russia ed hanno tutto l’interesse ad appoggiare i reazionari, loro eventuali alleati contro i comunisti. E’ vero. Noi abbiamo perduto la partita. Ma le carte che avevamo in mano non ci permettevano di vincerla”25.
Poco oltre, lo stesso Rossi lamentava la sostanziale impossibilità del percorso azionista: “Dopo vent’anni di fascismo e di autarchia non è possibile costruire dei liberi ordinamenti senza appoggiarci a chi ha una tradizione di vita libera e senza immettere la nostra economia in una economia continentale più sana. Tutti i posti di comando – nell’esercito, nella diplomazia, nelle prefetture, nelle questure, nei consigli di amministrazione delle banche e delle maggiori società commerciali e industriali sono tenuti da fascisti; un po’ per volontà degli Alleati, un po’ perché un governo come quello dell’esarchia non poteva impiegare metodi rivoluzionari per spazzare via la vecchia classe dirigente, e molto perché era difficilissimo sostituire gli uomini che durante il periodo fascista si erano fatti una certa esperienza di affari e di amministrazione. E’ pericoloso affidare a “uomini nuovi” compiti importanti. Nella gravissima situazione attuale non ci si può permettere il lusso di fare troppi esperimenti, se si vuole mantenere la libertà di stampa e rispettare le regole del gioco democratico”26.
A tali considerazioni, che esprimevano bene il senso della impossibilità di realizzare quegli ideali per i quali questo antifascismo si era battuto fino al sacrificio, rispondeva con indubbio realismo Eugenio Reale, al quale, da azionista moderato e da politico equilibrato, non sfuggiva un certo senso di irrealtà nelle file dell’azionismo. Una irrealtà che derivava da una monolitica lettura
della società e da un pregiudizio giacobino secondo il quale se tra teoria e realtà vi è uno iato, la colpa non è mai della teoria: “Forse la colpa è nostra: noi ci siamo creati nella nostra immaginazione un mondo politico diverso da quello che esso è nella realtà”, affermava, sconsolato, Reale, in una lettera a Salvemini a poco più di un mese dal referendum istituzionale27.
Tuttavia, sarà proprio la categoria del totalitarismo, intesa come chiave interpretativa del dilemma tra democrazia e regimi totalitari, ad essere espunta dal panorama azionista (e di conseguenza dal panorama complessivo delle forze che alla Resistenza si richiamano) proprio perché, accettandola, si sarebbero messi da una stessa parte nazismo, fascismo e comunismo, mentre dall’altra parte sarebbero rimaste le forze antitotalitarie liberali, cattoliche e socialiste.
Poiché nei confronti del fascismo e del nazismo il giudizio morale e politico è, per gli azionisti, assai più severo che non quello nei confronti del comunismo, come conseguenza, si avrà necessariamente la creazione della categoria del “nazifascismo” come simbolo e mito del male nella storia. Come ricordava Norberto Bobbio alcuni anni or sono, nell’ambito di una polemica con De Felice che coinvolse anche alcuni aspetti della Resistenza, pur essendo gli azionisti ideologicamente lontani dal comunismo, non sarebbero mai diventati “anticomunisti” per non confondere la loro posizione nettamente democratica con quella di chi, con il pretesto dell’anticomunismo, avrebbe sostenuto tesi reazionarie o neofasciste28.
Infine, come quarto punto sul quale si andava formando la memoria e la gestione della
Resistenza (e anche la sua eredità), emergeva il rifiuto del pregiudizio anticomunista. In un climapervaso dallo scontro comunismo – anticomunismo, l’azionismo sceglieva, pur non accettando la logica e la metodologia del Pci, di non avere nemici a sinistra e di fare della Resistenza il punto di incontro di diverse culture senza discriminare l’apporto della componente comunista. Questa linea,
che non sarà propria di tutto l’azionismo, condizionerà tuttavia l’immagine della Resistenza, nella quale il peso organizzativo e numerico del partito comunista finiva col diventare determinante29.
In questo complesso e articolato quadro di riferimento, la Resistenza “doveva” necessariamente perdere progressivamente le proprie caratteristiche storiche per assumere, in maniera sempre più rilevante, aspetti mitici e liturgici. Doveva apparire un “blocco” e quindi doveva nascondere la portata e l’ampiezza delle divisioni interne; doveva apparire sempre “morale”
e positiva e quindi diventava necessario sorvolare sugli “incidenti di percorso”, e cioè su quella violenza gratuita e feroce che, come in tutti i movimenti rivoluzionari, non è stata assente neppure dalle file del movimento partigiano; doveva apparire infine un progetto politico compiuto, in grado di redimere l’Italia dopo secoli di reazione e di “trasformismo” immorale e conservatore. Se poi
questo progetto politico fallì con la fine del governo Parri, e ancora di più fallì con la fine del Partito d’Azione come forza autonoma, allora occorreva rifarsi alla “Resistenza tradita”, al mito negativo in grado però di diventare la coscienza critica per l’Italia successiva, pronto ad essere agitato ogni volta che appariva imminente un “rigurgito neofascista”, reale o immaginario che fosse.
Come ha affermato, ormai parecchi anni fa, Sergio Cotta in un volume che allora fece scalpore per le tesi tutt’altro che politicamente corrette, applicare alla Resistenza il modello del Cln, il quale cessa di essere un fatto storico per diventare un mito, significa far diventare anche la Resistenza un “mito”: “In questa linea – aggiungeva Cotta – è inevitabile che si assolutizzi un’immagine ideale, o piuttosto ideologica, della Resistenza, foggiata sulla base delle proprie istanze politiche ‘attuali’. Che se ne respingano o disconoscano aspetti non concordanti con taliistanze. Che, infine, la si presenti come ‘mancata’ o, meglio ancora, come ‘tradita’. Ciò significa cadere nell’errore (dal punto di vista storico), da cui metteva in guardia Garosci, di ‘vedere prefigurata nella Resistenza la futura società italiana’ e, aggiungo io, già risolti in essa i problemi
della società in sviluppo. Fermo restando il suo valore di ‘archetipo’, la Resistenza si sottrae allora al ‘mito dell’origine’, finalizzato a legittimare l’ordine esistente per sua diretta filiazione da essa, ma per cadere nell’ambito del ‘mito dell’innovamento’, finalizzato a legittimare la rivoluzione, o, almeno, il mutamento radicale dell’ordine vigente, considerato frutto del ‘tradimento’. Ben diversi sono dunque il significato e l’indirizzo politici di questi due tipi di miti, ma ai fini storiografici il risultato è il medesimo. Entrambi ci offrono un’immagine della Resistenza come modello sociopolitico e ideologico perfetto che non consente verace opera storiografica”30.
E questo è dunque il punto: la possibilità di poter fare, di potere costruire la storia della Resistenza senza obiettivi estranei alla ricerca storiografica che possano inficiare l’attendibilità
delle interpretazioni. Fare la storia della Resistenza significa affrontare intanto il problema della “unicità” della lotta armata. Cotta, non a caso, ha molto insistito sulle Resistenze: da quella che si svolse nel Nord Italia, a quella che si svolse nel Regno del Sud, all’interno delle strutture statuali e militari istituzionali, a quella che si svolse nei Balcani da parte di reparti dell’esercito che, dopo l’8 settembre, prendono le armi contro i Tedeschi, a quella, infine, che si svolse nei campi di concentramento degli Internati Militari Italiani, che rifiutarono le lusinghe di aderire alla Rsi per potere tornare a casa e decisero di restare nei campi di prigionia per mantenere fede ad ungiuramento31. Pertanto la Resistenza è molteplice territorialmente parlando, così come è molteplice
dal punto di vista ideologico: tale molteplicità diventa difficilmente spendibile allorquando si tende a porre la Resistenza come mito fondante il nuovo Stato, appunto perché si tratta di una sorta di “coalizione” strutturata, in alcuni territori, al solo fine della vittoria contro i fascisti e i tedeschi.
Come ha rilevato Rusconi, proprio il dopoguerra ha posto in crisi il mito della unicità della Resistenza, allorché i vincoli di appartenenza partitici hanno inevitabilmente avuto il sopravvento rispetto al momento combattente, dove, anche se non in termini assoluti, l’elemento unificante era dato dalla lotta in corso. “Per uscire da questo impasse – sempre secondo Rusconi – inizia più o meno inconsciamente in molti (azionisti, soprattutto) un processo di depoliticizzazione o trasfigurazione etico-culturale del movimento resistenziale. La Resistenza diventa un evento carico di vissuto morale contrapposto alla politica”32.
Infine, fare la storia della Resistenza significa anche non avere pudori nell’affrontare pagine imbarazzanti, come oggi si incomincia a fare, sulle violenze operate dal movimento partigiano durante, ma soprattutto dopo la conclusione del conflitto. Non esistono praticamente notizie certe sul numero degli assassinati (fascisti e non) dopo il 25 aprile, così come non si è fatta luce su molti episodi che hanno scandito i mesi successivi la Liberazione33; sembra quasi che trattare tali
argomenti significhi immediatamente mettere in discussione i valori portanti della Resistenza: atteggiamento tipico di “leso mito”, mentre invece sarebbe tempo, passati quasi sessant’anni, di restituire la Resistenza ai canoni della storia e al rigore scientifico, sempre che si intenda la storia non come un giudice, bensì come un modo per comprendere i fatti del passato.

NOTE
* In Palomar, aprile 2006, pp. 13-29.
1 P.G. Zunino, La Repubblica e il suo passato, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 250 ss.
2 R. Battaglia, Storia delle Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953 e C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla
moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Tra le poche eccezioni, l’innovativo volume di S. Peli, La
Resistenza in Italia, Einaudi, Torino 2004, che si distingue per serietà e completezza.
3 Di R. De Felice ricordiamo sia Rosso e Nero, intervista a c. di P. Chessa, Baldini & Castaldi, Milano 1995, sia il
postumo Mussolini l’alleato, II, La guerra civile, Einaudi, Torino 1997; A. Lepre, La storia della Repubblica di
Mussolini: Salò, il tempo dell’odio e della violenza, Mondadori, Milano 1999; L. Ganapini, La repubblica delle camicie
nere, Garzanti, Milano 1999; D. Gagliani, Brigate nere, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Archivio centrale dello Stato,
Verbali del Consiglio dei Ministri della Repubblica Sociale Italiana, ed. critica a c. di F.R. Scardaccione, con
introduzione di F.R. Scardaccione e A.G. Ricci, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Roma 2002; R. Chiarini, 25
aprile. La competizione politica sulla memoria, Marsilio, Venezia 2005; G.S. Rossi, Mussolini e il diplomatico. La vita
e i diari di Serafino Mazzolini, un monarchico a Salò, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.
4 Si vedano, tra gli altri, I figli dell’Aquila, Il sangue dei vinti e il recentissimo Sconosciuto 1945, tutti editi da Sperling
& Kupfer rispettivamente nel 2002,; 2003 e 2005.
5 A. degli Espinosa, Il regno del Sud, Editori Riuniti, Roma 1973; si vedano anche V.Vailati, L’armistizio e il regno del
Sud, Milano, Mondadori 1969; G. Artieri, Cronaca del Regno d’Italia, II, da Vittorio Veneto alla Repubblica,
Mondadori, Milano 1978; R. Ciuni, L’Italia di Badoglio, Mondadori, Milano 1993. Come memorialistica ci si limita a
V. Vailati, Badoglio racconta, Mondadori, Milano 1955, Id., Badoglio risponde, Mondadori, Milano 1958 e a I.
Bonomi, Diario di un anno: 2 giugno 1943 – 10 giugno 1944, Roma 1947
6 E. Galli della Loggia, La morte della Patria, Il Mulino, Bologna 1996; R. De Felice, Rosso e nero, cit., e, soprattutto,
E. Aga Rossi, 8 settembre. Una nazione allo sbando, Il Mulino, Bologna 1993.
7 Si vedano, tra gli altri, R. Mieville, Fascist’s Criminal Camp, Corso, Roma 1948 (n. ed., “Secolo d’Italia”; Roma
1989); G. Berto, Il cielo è rosso, Longanesi, Milano 1949; C.G. Baghino, Fascist Camp. Cen, Roma 1960; A. Boscolo,
Fame in America, La Motonautica, Milano 1965; E. Toschi, In fuga oltre l’Himalaya, Edif, Roma 1968; G. Tumiati,
Prigionieri nel Texas, Mursia, Milano 1985; F. Togni, Avevamo vent’anni, anche meno, Ed. Virgilio, Milano 1989;; L.
Fazi, La repubblica fascista dell’Himalaya, Ed. Piazza Navona, Roma 1992; M. Tavella, Io prigioniero in Texas.Un
paracadutista della “Folgore” da Anzio a Hereford, Lo Scarabeo, Bologna 2005. Sulla stampa dei prigionieri di guerra
italiani si veda il recente A. Boscolo, I giornali di prigionia 1940-1946, Ferrari, Clusone 2003.
8 L. Longo, Un popolo alla macchia, Mondadori, Milano 1973.
9 “Il postfascismo deve essere non un fascismo di segno contrario (antifascismo) ma il contrario del fascismo (dunque
libertà e non violenza). In ogni periodo di crisi c’è la reazione immediata e direi quasi biologica – l’anti; e la reazione
riflessa e consapevole, il post. Nella violenza l’oppressore nega di riconoscere l’umanità della sua vittima, per converso
questa è portata a vedere in lui non un essere umano ma una forza bruta che si tratta di ‘eliminare’. Così il fascismo
genera l’antifascismo e questo l’antiantifascismo o neofascismo, ecc., e si resta sempre nel giro della violenza”. (A. Del
Noce, Non a destra ma democrazia, in “Il Popolo Nuovo”, 29-30 novembre 1945, ora in Id., Scritti politici 1930-1950,
a c. di T. Dell’Era, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001, pp. 107-108). Dello stesso filosofo si vedano le riflessioni sul
medesimo tema sviluppate insieme con Angelo Magliano e Indro Montanelli sulla rivista “Costume”: cfr. G. Parlato,
Dalla moralità del combattimento al moralismo della politica. I giovani liberali di “Costume” e la delusione
dell’antifascismo, in «Storia Contemporanea», dicembre 1996, pp. 1181 ss. Di Montanelli si veda anche il breve
romanzo Qui non riposano, edito per la prima volta in Svizzera nel 1945 e ora in I. Montanelli, Gente qualunque,
Rizzoli, Milano 2003, pp. 233 ss.
10 G. Pisanò, Storia della guerra civile in Italia, 3 voll., FPE ed., Milano 1965-1967
11 Si veda a tale proposito le indicazioni storiche e metodologiche offerte da Guido Quazza nella introduzione al volume
che raccoglie gli atti del Convegno di Belluno del 1988, durante il quale Pavone espose la tesi delle tre guerre, prima
che uscisse il volume sulla guerra civile; in conclusione, Quazza affermò di preferire al termine “guerra civile”, quello
di “guerra di religione” (cfr. G. Quazza, Introduzione a Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, a cura di M.
Legnani e F. Vendramini, Franco Angeli, Milano 1990, pp. 13-22).
12 Sul passaggio di molti giovani dai Guf alla Resistenza si vedano accenni in S. Cotta, La Resistenza. Come e perché,
Bonacci, Roma 1994, pp. 69-70; sull’apporto della sinistra fascista alle strutture del Pci del dopoguerra manca ancora
un’analisi complessiva: oltre al lavoro memorialistico di R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo,
Feltrinelli, Milano 1962, si veda M. Serri, Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Germania nazista, Marsilio, Venezia
2002 e, per un’analisi più generale, P. Neglie, Fratelli in camicia nera. Comunisti e fascisti dal corporativismo alla Cgil
(1928-1948), Il Mulino, Bologna 1996 e G. Parlato, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Il Mulino,
Bologna 2000.
13 P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. La fine del fascismo. Dalla riscossa operaia alla lotta armata,
Einaudi, Torino 1973, pp. 168 ss.
14 Sull’interpretazione prevalentemente economica degli scioperi si veda R. De Felice, Mussolini l’alleato. L’Italia in
guerra, 2, Crisi e agonia del regime, Einaudi, Torino 1990, pp. 923 ss.; R. Gobbi, Una revisione della Resistenza,
Bompiani, Milano 1999, pp. 11 ss.; G. Parlato, Il sindacalismo fascista, II, Dalla “grande crisi” alla caduta del regime,
Bonacci, Roma 1989, pp. 160 ss.
15 D. Grandi, Pagine di diario del 1943, a cura di R. De Felice, in “Storia contemporanea”, dicembre 1983, pp. 1069-
1070.
16 R. De Felice, Rosso e Nero, a cura di P. Chessa, Baldini e Castoldi, Milano 1995, pp. 55 ss.
17 Si veda soprattutto R. De Felice, Mussolini l’alleato. La guerra civile 1943-1945, Einaudi, Torino 1997, pp. 105 ss.;
G.E. Rusconi, Per una revisione storica della Resistenza, in “Micromega”, 1991, n. 5, p. 33.
18 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino 1964, rispettivamente alle pp. 146 e 16. Come ammette
anche Giovanni De Luna nella bella introduzione al carteggio fra Giorgio Agosti e Livio Bianco, “le ‘scelte attive’
allora operate da Giorgio e Livio non possono assumersi come ‘rappresentative’ per la maggioranza degli italiani. Nel
biennio 1943-45 molti non scelsero affatto; altri scelsero per paura; altri per calcolo” (G. De Luna, Introduzione a G.
Agosti, L. Bianco, Un’amicizia partigiana. Lettere 1943-1945, Albert Meynier, Torino 1990, pp. 43-44). Ovviamente
ciò non vuol dire, come ricorda ancora De Luna, “cancellare, rimuovere, dimenticare quei pochi che scelsero facendo
proprio il motto vichiano del ‘Paion traversie e sono opportunità’?” (p. 43). Naturalmente, da una parte e dall’altra.
19 Cfr. P. Nello, Guareschi, gli Internati Militari Italiani e il Diario clandestino, in Un “Candido” nell’Italia
provvisoria. Giovannino Guareschi e l’Italia del “Mondo piccolo”, a cura di G. Parlato, Fondazione Ugo Spirito, Roma
2002, pp. 39-58.
20 G. De Luna, Op. Cit., p. 37.
21 Si veda a tale proposito la discussione tra Gian Enrico Rusconi e Renzo De Felice, sulle colonne de “La Stampa”, tra
il 14 luglio 1993 e l’8 settembre successivo sul problema del rapporto tra antifascismo e Resistenza e soprattutto sulla
interpretazione del fenomeno partigiano.
22 G. Agosti, L. Bianco, Un’amicizia partigiana, a cura di G. De Luna, cit., pp.235-236.
23 G. De Luna, Op. Cit., p. 40.
24 D.L. Bianco, Guerra partigiana, raccolta di scritti a cura di G. Agosti e F. Venturi, prima ed., Einaudi, Torino 1954,
pp.148-149.
25 Lettera di E. Rossi a Salvemini del 20 marzo 1946, in G. Salvemini, Lettere dall’America 1944-1946, Laterza, Bari
1967, p. 246.
26 Lettera di E. Rossi a Salvemini del 16 aprile 1946, ivi, p. 285.
27 Lettera di E. Reale a Salvemini del 19 aprile 1946, ivi, p. 264. Due mesi più tardi, a Repubblica acquisita, ribadiva il
concetto: “E non siamo noi forse vittime di un’illusione che ci fa vedere e desiderare un mondo quale l’immaginiamo
nella nostra fantasia?” (Lettera di E. Reale a Salvemini del 6 luglio 1946, ivi, p. 311).
28 “Personalmente – affermava Bobbio – non sono mai stato comunista per ragioni ideali, ma non sono mai stato
comunista per ragioni politiche, perché ci opponevamo, noi azionisti, all’egemonia della Democrazia Cristiana. Essendo
laici e di sinistra, non potevamo essere d’accordo con un partito cattolico e conservatore. Dove altrimenti potevamo
collocarci?”. Precedentemente, De Felice aveva sottolineato come il non anticomunismo azionista aveva di fatto
avallato le posizioni del Pci in termini di egemonia culturale: “Ma siete stati voi, azionisti, che nell’Italia del dopoguerra
al vino comunista avete dato il marchio di garanzia, il riconoscimento doc” (cfr. Bobbio - De Felice. La memoria divisa
che ci fa essere anormali, a cura di G. Borsetti e P. Chessa, in “Reset”, n. 17, maggio 1995, pp. 19-20).
29 Illuminante a tale proposito la posizione di Livio Bianco e di Aldo Agosti, quale emerge dal carteggio: cfr. G. De
Luna, Op. cit., pp. 55-56.
30 S. Cotta, Op. cit., pp. 39-40. Nelle citazioni si usa l’ultima edizione (1994), identica alla prima (Rusconi, Milano
1977) salvo in un capitolo introduttivo. La citazione di Garosci è relativa al saggio Recenti orientamenti della
storiografia della Resistenza, in AA. VV., Dal 25 luglio alla Repubblica 1943-1946, a cura di G. Rossini, Torino 1966,
p. 468.
31 S. Cotta, Op. cit., pp. 74 ss.
32 G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 137-138.
33 Che forse si cominci ad assistere ad una timida inversione di tendenza, lo dimostrano i volumi su episodi locali
apparsi recentemente. A mo’ di esempio, se ne ricordano tre: G. e P. Pisanò, Il triangolo della morte. La politica della
strage in Emilia durante e dopo la guerra civile, Mursia, Milano 1992; M. Lucioli, D. Sabatini, Rovetta 1945. Storia di
una strage partigiana, Settimo Sigillo, Roma 2001; S. Morgan, Rappresaglie dopo la Resistenza. L’eccidio di Schio tra
guerra civile e guerra fredda, Bruno Mondadori, Milano 2002. A pieno titolo si collocano, in questa ottica, i due ultimi
volumi dedicati da Pansa alla violenza partigiana dopo il 25 aprile, i già citati Il sangue dei vinti e Sconosciuto 1945.

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