mercoledì 18 novembre 2009

Fascismo, Nazionalsocialismo, gli Arabi e l’Islam


di Stefano Fabei* - Giovanna Canzano - 17/11/2009

…“L’Italia fu il primo Stato europeo ad appoggiare la resistenza palestinese contro la potenza mandataria, cioè la Gran Bretagna,
e contro i sionisti e il loro progetto di insediamento in Terrasanta.
Tra il settembre del 1936 e il giugno del 1938 l’Italia versò al Gran Mufti, che guidava la rivolta contro le forze militari inglesi e contro l’immigrazione ebraica,
circa 138.000 sterline, circa 10.000.000 di euro attuali.
Tale contributo fu voluto dal Duce in ragione della posizione assunta dall’Italia
nei confronti del nazionalismo arabo…” (Stefano Fabei)

CANZANO 1- La politica filo-araba del fascismo aveva un fine prettamente idealistico o politico-ideologico o sottintendeva anche a un discorso territoriale?

FABEI- Nei primi otto anni di potere Mussolini non portò avanti un’autonoma politica araba per diverse ragioni: la politica estera italiana aveva come punto di riferimento quella inglese e dall'andamento dei rapporti con la Gran Bretagna dipendeva l’atteggiamento di Roma verso gli arabi; inoltre gli impulsi a una politica estera rivoluzionaria, verso questa parte del mondo, sostenuta dai fascisti più dinamici, erano soffocati dall’influenza esercitata sul regime da nazionalisti e cattolici conservatori.
Nella seconda metà degli anni Venti il Duce, per quanto riguarda il vicino Oriente, tentò di creare un contrappeso alla posizione storica di predominio dell'Inghilterra e della Francia e assumere in qualche modo la loro eredità mediante l’influenza culturale, economica e politica italiana in Siria, in Palestina, in Egitto e sul Mar Rosso. Per questo obiettivo si schierò al fianco degli arabi, che però scarsamente ricambiavano le simpatie di Roma, dato che era in corso la riconquista della Libia, colonia che, secondo gli italiani, doveva essere allargata a ovest con la Tunisia, ritenuta importante dal punto di vista strategico.
L’area su cui l’Italia mirava a esercitare il controllo comprendeva la penisola araba, l'Iraq, la Siria, la Palestina, l'Egitto, il Maghreb e la costa orientale africana fino al Tanganica, tutti Paesi alla ricerca dell’indipendenza. I movimenti anticolonialisti in lotta contro la Francia e l'Inghilterra non arrivavano, allora, ad azioni unitarie di vaste proporzioni: la rivoluzione del Partito Wafd in Egitto (1919-1920), il movimento Destour in Tunisia (1922-1929), o anche i fermenti antisionistici in Palestina (1922-1929), permettono di concludere che le intenzioni italiane potevano realizzarsi solo contro la resistenza araba e franco-britannica.
Fu dall’inizio degli anni Trenta che la politica araba del regime cominciò a caratterizzarsi in senso più autonomo. L'Italia tendeva adesso a presentarsi come «ponte» tra Oriente e Occidente e a diventare un punto di riferimento per le nazioni islamiche. Tra il 1930 e il 1936 Roma cercò di accentuare l’azione culturale ed economica in Medio Oriente e nell'area arabo-islamica in generale. Senza dubbio un'iniziativa tendente ad accentuare tale programma fu l'inizio a Bari della Fiera del Levante. Nel 1933 e nel 1934 furono organizzati a Roma, sotto il patrocinio dei Gruppi universitari fascisti, i GUF, due convegni degli studenti asiatici, e Radio Bari iniziò le sue trasmissioni in lingua araba nel maggio del 1934. Le linee direttive della politica araba italiana emersero il 18 marzo di quell’anno dal discorso che il Duce pronunciò all'assemblea quinquennale del regime in cui disse che di tutte le potenze occidentali la più vicina all'Africa e all'Asia era l'Italia, chiarendo di non pensare a conquiste territoriali, ma a una politica di collaborazione con le nazioni arabe. Il Mediterraneo doveva riprendere la sua funzione storica di collegamento fra l'Est e l’Ovest. In tale contesto sono da inserirsi la creazione, nel giugno 1935, dell'Agenzia d'Egitto e d'Oriente con sede al Cairo, come di altre istituzioni come l'Istituto per l'Oriente e l'Istituto orientale di Napoli, centri di attività culturale, ma anche politica.

CANZANO 2- Quali sono state le principali differenze tra la politica araba del fascismo e del nazionalsocialismo?

FABEI - Al contrario dell'Italia, il Terzo Reich aveva, nei Paesi arabi, obiettivi solo economici. Dopo la sconfitta del 1918, la Germania aveva perso le sue poche colonie e con esse gran parte dei mercati interessanti il commercio tedesco. A quest’ultimo, almeno per quanto riguarda i rapporti coi Paesi dell'Oriente, aveva poi assestato un altro duro colpo la crisi del 1929. La Repubblica di Weimar non rinunciò a recuperare le colonie strappatele a Versailles, ma la Società delle Nazioni si rifiutò di procedere alla loro restituzione come «mandati».
La propaganda contro «la menzogna della colpa coloniale» e la richiesta di terre per l'emigrazione e di mercati, fu condotta da vari gruppi e organi di stampa, ma questo problema, nella politica estera weimariana, ebbe una parte poco rilevante. Fino al Terzo Reich le discussioni rimasero sul terreno accademico. Hitler, nel Mein Kampf, aveva fatto da tempo i conti con la politica estera guglielmina e messo da parte qualsiasi possibilità di espansione extraeuropea per orientarsi verso l'Est europeo, in cui, secondo lui, stava il Lebensraum, lo spazio vitale necessario al popolo tedesco. A parte le non sempre chiare prese di posizione ideologiche contro il colonialismo esposte nella sua opera, Hitler, negli anni del potere, si disinteressò quasi sempre alle colonie. Qualche volta furono usate come strumento di pressione sull'Inghilterra e le altre potenze occidentali, ma la sfida tedesca rimase più che altro un intermezzo diplomatico e non si trasformò in un vero pericolo per il predominio coloniale europeo. L'atteggiamento tedesco non fu neppure propriamente anticolonialista.
Dal 1935 in poi il Reich iniziò a importare dai Paesi orientali, in quantità sempre maggiori, rame, nichel, tungsteno, cromo, prodotti agricoli e a esportare in essi prodotti farmaceutici, chimici, articoli elettrotecnici, generi di chincaglieria, mezzi di trasporto e impianti ferroviari, nonché attrezzature industriali e, in misura crescente, materiali bellici. Ciò contribuì ad aumentare la stima per la Germania e il disprezzo per Francia e Gran Bretagna. Fin dal 1934 poi la Germania svolse in Siria, in Palestina, in Iraq e in Libano, un'intensa opera di propaganda attraverso l'Ufficio di politica estera, diretto da Alfred Rosemberg. I nazionalsocialisti miravano a eccitare l'elemento arabo contro gli ebrei e contro la Francia e l'Inghilterra, e a preparare la rivolta del Medio Oriente e dell'Africa settentrionale nell'eventualità di una guerra europea.
Nel 1937, Baldur von Schirach, il capo della Gioventù hitleriana, con altri rappresentanti del suo governo, visitò Iran, Iraq, Siria e Turchia, suscitando ovunque consensi. La recente riapertura di legazioni, consolati, scuole e istituti del Reich nel Vicino Oriente era ben vista perché la Germania aveva lasciato un buon ricordo della sua collaborazione con la Turchia durante la Prima guerra mondiale. La condotta dei suoi ufficiali e soldati nei Paesi arabi era stata ottima; non avevano mai commesso spoliazioni e usurpazioni, pagando tutto quello che occorreva loro. Insomma erano stati modelli d'onore militare, e anche dopo i loro tentativi di penetrazione si erano limitati alla cultura e al commercio. Nessuna mira espansionistica in Africa settentrionale o nel Vicino Oriente…

CANZANO 3- Nei suoi studi sulla politica mediorientale del fascismo, si è mai chiesto quale situazione si sarebbe venuta a creare qualora l'Asse avesse vinto la guerra e tanto le mire italiane quanto quelle tedesche si fossero concentrate in una ridefinizione di quella parte del mondo rispondente ai propri interessi?

FABEI - La diversità di obiettivi tra Italia e Germania nell'area mediterranea aveva portato Hitler, il 24 ottobre 1936, giorno precedente la costituzione dell'Asse, a dichiarare a Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri italiano, che il Mediterraneo era un mare italiano e che qualsiasi modifica futura nell'equilibrio di quell’area doveva andare a favore dell'Italia, così come la Germania doveva avere libertà di azione verso l'Est e verso il Baltico. Orientando i dinamismi italiano e tedesco in queste direzioni esattamente opposte, non si sarebbe mai avuto un urto di interessi tra le potenze fasciste. In altri termini, secondo Hitler, i Paesi arabi sotto controllo francese e inglese facevano parte, quasi nella loro totalità, della sfera di influenza dell'Italia. Se l'Asse avesse vinto la guerra, e i patti tra Hitler e Mussolini fossero stati osservati, l'Italia avrebbe esercitato sul Mare Nostrum la propria egemonia, dal Marocco all'Iraq. I tedeschi, da parte loro avrebbero probabilmente rivendicato quale propria sfera di influenza i Paesi a oriente dall'Iran all'Afghanistan, all'India, dove però anche il Giappone aspirava a esercitare la propria leadership. Era comunque l’Italia ad avere i maggiori interessi nell’area nordafricana e mediorientale. Con l’assunzione, il 18 marzo 1937, del titolo di Spada dell'Islam da parte del Duce si aprì, non a caso, un altro capitolo della politica araba del fascismo che diventò argomento della stampa di regime: aumentarono gli articoli e gli studi di autori arabi e musulmani, alcuni dei quali riguardanti i legami ideologici tra fascismo e islamismo e la maggior corrispondenza del fascismo, rispetto al comunismo, ai valori religiosi, morali e ideologici degli arabi. Per quanto riguarda l'aspetto culturale e storico-politico della questione si assistette a una serie di iniziative curate da studiosi e da istituzioni quali il Centro studi per il vicino Oriente e l'Istituto di studi di politica internazionale.

CANZANO 4- Si trattò quindi di una vera svolta nella politica del fascismo…

FABEI - Sì, ma non più di tanto perché la politica araba dell'Italia restava ancora, tra il 1936 e il 1939, condizionata dall'andamento delle relazioni con Londra. Temendo che l'Inghilterra, grazie alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, rafforzasse le sue posizioni nel Mediterraneo orientale, l'Italia, grazie ai programmi trasmessi da Radio Bari, iniziò ad aizzare le popolazioni arabe contro gli inglesi. La carta araba, negli interventi di Mussolini e di Ciano, continuò a essere considerata moneta di scambio nel caso che si fosse aperto un varco per un'effettiva trattativa per un accordo generale mediterraneo tra Roma e Londra; tanto è vero che, sull'onda delle speranze suscitate dagli «accordi di Pasqua», Roma bloccò subito gli aiuti ai movimenti antibritannici mediorientali – molto consistenti ai palestinesi – e moderò il tono delle trasmissioni di Radio Bari.

CANZANO 5- I tedeschi, in quegli anni, che atteggiamento assunsero verso i nazionalisti arabi? E questi ultimi cosa si aspettavano dalla Germania?

FABEI - Berlino sviluppò allora una politica non molto diversa da quella di Roma. Il ministro degli Esteri di Hitler, il 1° giugno 1937, inviò un telegramma alle sue rappresentanze di Londra, Bagdad e Gerusalemme da cui emergeva la contrarietà del Reich alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina che se non era ritenuto capace di assorbire gli ebrei di tutto il mondo, avrebbe comunque creato per il giudaismo una base di potere sancita dal diritto internazionale.
Per gli arabi questo era già qualcosa, ma si aspettavano dal Hitler un po' di più di una semplice, per quanto gradita, manifestazione di simpatia, peraltro priva di impegni. Il 15 luglio 1937, Hajj Amin al-Husayni, il Gran Mufti di Gerusalemme e della Palestina, in un colloquio con il console generale tedesco, cercò di ottenere una chiara risposta alla domanda circa la disponibilità della Germania a contrastare, pubblicamente, l'eventuale costituzione di uno Stato ebraico. Due giorni dopo il primo ministro iracheno, Hikmet Suleiman, fece capire all'ambasciatore tedesco a Bagdad che il suo governo contava sull'appoggio tedesco, oltre che turco e italiano, nel momento in cui alla Lega delle Nazioni l'Iraq si fosse opposto al piano di divisione della Palestina in tre zone. Se Ribbentrop era disposto ad appoggiare il rappresentante iracheno alla Lega delle Nazioni, Hitler tuttavia non si impegnò, nella questione palestinese, al fianco degli arabi, almeno in un primo momento.

CANZANO 6- Per quale ragione?

FABEI - Perché, come nella politica araba dell'Italia, così in quella della Germania si tendeva a non pregiudicare i rapporti con l'Inghilterra. Pertanto Berlino in principio si astenne dal fornire armi ai nazionalisti arabi e dal rafforzare la loro resistenza alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina. Comunque nella capitale del Reich non tutti condividevano questa posizione, cui, per forza di cose, dovevano adeguarsi perché era al Führer che spettava, in ogni caso, l’ultima parola. Si tentarono, con cautela, altre strade per sviluppare rapporti col mondo arabo. Dal 1937, per esempio, la Germania iniziò a intrattenere relazioni diplomatiche con l'Arabia Saudita che mirava a mantenere la propria «indipendenza» dall'Inghilterra, la cui influenza si estendeva a tutti gli Stati circostanti. Ibn Sa'ùd chiese a Berlino appoggio politico e forniture militari, sottolineando le affinità tra Germania e il mondo arabo, soprattutto circa la posizione difensiva di fronte alla Gran Bretagna. Sebbene l'Ufficio di politica estera del NSDAP, il partito nazionalsocialista, fosse da tempo favorevole alle forniture belliche ai sauditi, queste ultime non ebbero luogo poiché la sezione politica del ministero degli Esteri era contraria. Solo nel 1939, in seguito al rafforzamento delle posizioni britanniche in Medio Oriente, Hitler e Ribbentrop assicurarono a Ibn Sa'ùd un concreto aiuto alla formazione di un suo esercito. Il 17 giugno il Führer promise all'incaricato del re saudita un aiuto attivo e due mesi dopo un credito di 6.000.000 di marchi fu accordato ai sauditi che volevano acquistare fucili, carri armati leggeri e pezzi antiaerei. La Germania offrì tali forniture col nullaosta di Roma, che aveva rapporti buoni, ma non certamente ottimi, col regno dei Sa'ùd dopo l'accordo anglo-italiano del 16 aprile 1938, con cui le due potenze europee «garantivano» l'indipendenza dell'Arabia. Il 1° settembre 1939 scoppiò la guerra e Berlino non poté procedere alle forniture, anche perché, dietro forti pressioni inglesi, l'Arabia Saudita fu costretta, l'11 settembre, a rompere le relazioni diplomatiche con il Terzo Reich.

CANZANO 7- Tornando alla questione palestinese, potrebbe chiarirci meglio l’atteggiamento tedesco inizialmente favorevole all’emigrazione ebraica verso la Terrasanta?

FABEI - Nei primi anni di regime Hitler, volendo liberarsi degli ebrei presenti in Germania, vide nella Palestina sottoposta a mandato britannico la meta verso cui indirizzarli: se questo poi serviva a creare difficoltà agli inglesi tanto meglio, per quanto Hitler temesse allora la Gran Bretagna, ritenendola assai più forte del Terzo Reich. Già dal 1933, desiderosa di favorire l'emigrazione ebraica dalla Germania e di indirizzarla verso la Palestina, l'Agenzia ebraica era pervenuta coi tedeschi a un patto, denominato Haavara (trasferimento), che prevedeva la partenza verso la Terra Santa degli ebrei tedeschi. L'accordo sembrò ai nazionalsocialisti un'ottima occasione per «purificare il Reich» e sbarazzarsi degli ebrei; i diplomatici della Wilhelmstrasse, tradizionalmente filoarabi, pur non condividendo la scelta, dovettero adeguarsi. Contrari erano anche i quadri dell'Auslandsorganisation e cioè della sezione del NSDAP da cui dipendevano le cellule in seno alle comunità residenti all'estero, riflettendo il punto di vista dei 2.000 cittadini tedeschi presenti in Palestina, che vedevano con orrore la prospettiva che gli ebrei cacciati dal Reich potessero insediarsi in Palestina e far loro concorrenza in varie attività. Tale politica non piaceva, ovviamente, nemmeno ai palestinesi e il Gran Mufti chiese a Hitler di interrompere il flusso migratorio e mettere fine all’insediamento sionista in Palestina.
I nazisti, inizialmente convinti dell’incapacità degli ebrei a creare uno stato ebraico, nella seconda metà degli anni Trenta furono costretti a ricredersi e a constatare che l’insediamento sionista in Palestina era cresciuto sia di numero che di risorse. Dovettero prendere atto che la Commissione reale britannica guidata da Lord Peel, dopo una lunga indagine sul problema palestinese, aveva pubblicato nel luglio del 1937 un rapporto in cui raccomandava di dare parziale soddisfazione a entrambi i nazionalismi, sionista e palestinese, mediante una spartizione della Palestina mandataria e la conseguente creazione di due Stati, uno arabo e l’altro ebraico. Questo non era più soltanto il parto della fantasia sionista ma diventava una proposta concreta e l’oggetto di una raccomandazione contenuta in un rapporto del governo inglese. A siffatta mutata realtà i nazisti fecero seguire un diverso atteggiamento e se fino allora scopo preminente della politica della Germania era stato favorire il più possibile l’emigrazione degli ebrei, adesso dovettero rendersi conto che la formazione di uno Stato ebraico sotto tutela britannica non era nell’interesse della Germania, dato che non avrebbe assorbito l’ebraismo mondiale, ma creato, sotto leggi internazionali, un’ulteriore posizione di potere all’ebraismo internazionale, qualcosa come lo Stato del Vaticano per il cattolicesimo politico o Mosca per il Comintern. Pertanto l’opposizione alla creazione dello Stato sionista in Palestina comportò l’appoggio a chi tra gli arabi vi si opponeva. Vennero impartite da Berlino istruzioni alle sedi diplomatiche tedesche, esortandole ad assumere un atteggiamento favorevole verso gli arabi e le loro aspirazioni, senza tuttavia prendere impegni condizionanti. Tale cautela era ancora determinata dalla speranza di evitare una rottura definitiva con Londra e gli aiuti finanziari ai ribelli arabi, già elargiti con fondi dei servizi segreti tedeschi, continuarono a essere esigui e irregolari. Nel 1938 il patto di Monaco e la crisi cecoslovacca chiarirono inequivocabilmente che Londra e Berlino erano ormai su posizioni antitetiche, tali da comportare opposti schieramenti di campo nel caso dello scoppio di un conflitto. Da questo momento la propaganda tedesca s’intensificò esercitando una crescente influenza sull’opinione pubblica del mondo arabo, che vedeva nel Reich il nemico dei suoi nemici. Si rafforzarono i rapporti con il movimento nazionalista e con chi, come il Gran Mufti di Gerusalemme, dimostrava di essere un nemico irriducibile degli ebrei. Lo stesso Führer in più occasioni espresse ammirazione per gli arabi, la loro civiltà e la loro storia. Nel corso della conversazione a tavola con Keitel, ad esempio, la sera del 1° agosto 1942, Hitler, oltre a dichiarare la sua convinzione circa la superiorità della religione islamica rispetto alla cristiana, parlando della Spagna affermò che quella araba era stata «l’epoca d’oro della Spagna, la più civile». A questo apprezzamento del Führer corrispose l’ammirazione per il nazionalsocialismo da parte degli arabi. In un’opera autobiografica, il siriano Sami al-Jundi, uno dei primi capi del partito al-Ba’th, descrivendo lo stato d’animo che caratterizzava gli arabi negli anni Trenta afferma: «Eravamo razzisti, ammiratori del nazismo, leggevamo i suoi testi e le fonti della sua dottrina, specialmente Nietzsche…, Fichte e I fondamenti del secolo XIX di H. S. Chamberlain, tutto incentrato sulla razza. Fummo i primi a pensare di tradurre il Mein Kampf…».

CANZANO 8- Parliamo adesso dell'Egitto nei piani del fascismo: protettorato, occupazione diretta o semplice inserimento nella propria sfera di influenza? I movimenti «filofascisti» egiziani erano più ricettivi alle sirene tedesche o a quelle italiane?

FABEI - Molto tempo prima della guerra la propaganda dell'Asse aveva tentato di staccare la borghesia egiziana dalla sua alleanza con la Gran Bretagna e di attirare gli elementi nazionalisti delle classi meno abbienti alla sua ideologia. Mussolini agiva con la mediazione della famiglia reale, legata a casa Savoia, mentre Hitler era l'eroe dei giovani nazionalisti ostili all'Inghilterra. Fathi Radwan e Nureddin Tarraf, col loro gruppo di giovani dell'ex partito nazionale, e Ahmed Hussein, dirigente delle Camicie verdi del partito Misr al-Fatat (Giovane Egitto) assistettero nel 1936 a Norimberga al congresso del Partito nazista, nel quale cercavano ideali ed esempi di azione. Nel 1938 tornarono in Europa soggiornando oltre che in Germania anche in Italia, alla ricerca di appoggi e di finanziamenti.

CANZANO 9- Quale fu l’atteggiamento degli egiziani di fronte al conflitto?

FABEI - Allo scoppio della guerra l'Egitto era formalmente uno «Stato sovrano», con un proprio re, un proprio governo e un proprio esercito, ma il Paese faceva parte dell'Impero britannico: gli inglesi infatti controllavano direttamente il canale di Suez, stazionavano in Egitto con le proprie truppe e con il diritto di utilizzarne basi e risorse in caso di guerra. I seguaci e i simpatizzanti dell'Asse sfruttarono a fondo la crisi alimentare e l'irritazione sempre più viva provata dall'uomo della strada contro lo stato d'assedio e la trasformazione del Paese in base militare per il Middle-East Commando. Il governo egiziano, dietro la spinta dell'opinione pubblica, si rifiutò di entrare in guerra contro le potenze dell'Asse e tale atteggiamento continuò anche allorché le truppe italiane entrarono per la prima volta in Egitto. Si giunse addirittura all'assurdo che, mentre britannici, australiani, neozelandesi, sud africani e indiani difendevano l'Egitto dagli invasori italotedeschi, i 40.000 uomini dell'esercito egiziano si mantenevano neutrali, agli ordini di ufficiali che spesso non nascondevano le loro simpatie per l'Asse.
La tensione aumentò all’inizio del 1942, quando, guidati da Rommel, gli italo-tedeschi penetrarono in territorio egiziano avanzando fino a el-Alamein, a ottanta chilometri a ovest di Alessandria. Questo fu visto dagli egiziani come il preludio a una «liberazione» dell'Egitto. Le manifestazioni contro la mancanza di viveri degenerarono in un'esplosione di sentimenti antibritannici al grido di «Vieni avanti Rommel!». Anche in questa occasione quindi gli egiziani non presero parte a quella che, in teoria, era la difesa del proprio territorio nazionale. Era evidente che se gli eserciti fascisti avessero raggiunto Alessandria il popolo e l'esercito egiziani sarebbero insorti come avevano fatto gli iracheni l'anno prima. Ufficiali, tra cui i giovani Nasser e Sadat, tentarono di mettersi in contatto col comando di Rommel per coordinare l'attività degli egiziani filofascisti con l'offensiva italo-tedesca. Gli alleati allora decisero di correre ai ripari e il mattino del 4 febbraio 1942 i tank inglesi circondarono il palazzo di Abidin imponendo a re Faruq un ministero presieduto da Mustafà al-Nahas. Vennero istituiti tribunali speciali e migliaia di «nazisti», nazionalisti egiziani e fratelli musulmani furono incarcerati come «agenti dell'Asse» o «elementi eversivi».
Il 4 luglio i governi italiano e tedesco pubblicarono una dichiarazione per il rispetto dell'indipendenza dell'Egitto, dichiarandosi intenzionati a rispettarne e garantirne l'indipendenza e la sovranità. Le forze dell'Asse non entravano in Egitto come in un Paese nemico, ma con lo scopo di espellerne gli inglesi e di liberare il Vicino Oriente dal dominio britannico. La politica delle Potenze fasciste era ispirata al concetto che l'Egitto era degli egiziani: liberato dai vincoli che lo legavano alla Gran Bretagna il più importante Paese arabo era destinato a prendere il suo posto tra le Nazioni indipendenti e sovrane.
Per l’intera durata della guerra in Egitto si registrarono attività filofasciste e antialleate: le Camicie verdi organizzarono il boicottaggio dei negozi stranieri, una radio clandestina operò al Cairo, membri dei comitati degli Ufficiali liberi fecero filtrare agenti nazisti attraverso le file alleate; altri egiziani, studenti in Europa e fuoriusciti, svolsero attività propagandistica al servizio del ministero degli Esteri italiano e del ministero della Cultura popolare, intervenendo spesso nella stampa italiana e tedesca con articoli e analisi. Più ancora che a mezzo stampa la loro attività propagandistica si attivò via etere, da Radio Bari e da tre emittenti minori: la Nazione araba, Radio Egitto indipendente e Radio Giovane Tunisia, ispirate rispettivamente dal Gran Muftì di Gerusalemme, dal principe Mansur Daud e da el-Tayeb Nasser, presidente della società Misr (Egitto) in Europa, e dal leader desturiano Habib Thammer. La fiducia degli egiziani andava comunque maggiormente ai tedeschi perché la Germania non aveva mai colonizzato aree abitate da musulmani ed era stata l'alleata dell'Impero ottomano. L'Egitto rientrava nella zona di interesse italiano indubbiamente, anche se sul suo futuro ordinamento le opinioni tra Mussolini, il ministero degli Esteri ed altri ambienti politici militari erano diverse...

CANZANO 10- Solo nella seconda metà degli anni Trenta il regime fascista iniziò a connotarsi in senso antisemita: questa linea politica ha delle connessioni precise e individuabili con la politica filo-araba? Come mai, proprio da allora, si decise di interrompere il ventilato progetto di uno Stato ebraico nella regione dei falascià, gli ebrei neri d'Etiopia?

FABEI - Mussolini cercò di giocare a suo vantaggio sia la carta araba sia quella ebraica. Tra il 1934 e il 1936 la politica filosionista dell'Italia ebbe finalità più che altro economiche e non conobbe, sul piano politico, né l'impegno né la molteplicità di articolazioni caratterizzanti quella verso gli arabi. Mussolini s’incontrò più di una volta con Cahim Weizmann e i capi sionisti che volevano portare gli ebrei in Palestina. Oltre che con quello di Weizmann ebbe rapporti con il Partito revisionista, l'ala destra del sionismo, il cui programma, piuttosto radicale e intransigente, presentava caratteristiche in qualche modo «fascistizzanti». Ma anche in quest'ambito l'atteggiamento di Mussolini s’improntò a grande prudenza nella consapevolezza che il violento atteggiamento di ostilità verso la Gran Bretagna, proprio delle rivendicazioni di questa componente estremista del nazionalismo ebraico, fosse in qualche modo utilizzabile ai fini della politica araba del regime solo se circoscritto entro limiti ben precisi. I legami dell'Italia con il sionismo, sempre nel biennio 1934-1936, subirono un progressivo allentamento; con lo scoppio della rivolta in Palestina e il conseguente moltiplicarsi delle manifestazioni di solidarietà panaraba sul Mar Rosso e nel Golfo Persico, la carta sionista perse presto valore, ma non al punto da essere del tutto scartata dal Duce che si proponeva di riutilizzarla qualora si fossero manifestate le circostanze favorevoli. I contatti con il sionismo e Weizmann ripresero nel giugno-luglio 1936, allorché, grazie al massiccio spiegamento delle forze britanniche, venne meno la possibilità che la rivolta si estendesse oltre i confini della Palestina. Terminata la guerra in Etiopia, l'Italia assunse un atteggiamento più aggressivo che sembrava poter minacciare le posizioni britanniche nel Mediterraneo e in Medio Oriente e quelle francesi in Tunisia e in Marocco. In questo contesto si inseriva la fortificazione del porto di ‘Assab, sullo sbocco meridionale del Mar Rosso, con cui l'Italia si garantiva una posizione strategica, rafforzata dagli accordi commerciali con l’Yemen dove la costituzione di reparti ospedalieri offriva una comoda copertura per attività antibritanniche di propaganda e spionaggio. Sembrava comunque rimanere la Palestina il principale obiettivo di Mussolini, il cui emissario a Ginevra, il marchese Theodoli, aveva dichiarato a Nahum Goldmann che il problema ebraico non avrebbe mai potuto essere risolto dagli inglesi. L'esigenza del focolare ebraico avrebbe potuto essere soddisfatta solo da Roma con una larga e immediata colonizzazione ebraica in Abissinia. Questo stesso disegno venne esposto al Cairo da Ugo Dadone, direttore dell'Agenzia per l'Egitto e per l'Oriente e del «Giornale d'Oriente». Egli inserì il progetto in un contesto imperialista e antibritannico, prospettando come inevitabile un conflitto anglo-italiano in tempi più o meno ravvicinati. Essendo il dominio del Mare Nostrum l'obiettivo di Roma, il disporre in Abissinia di 500.000 soldati italiani e di altrettanti di truppe di colore, cui si dovevano aggiungere i 150.000 in Libia, poneva l'Italia nella condizione di prendere l'Egitto e di espandersi ulteriormente. Per il consolidamento di tale posizione ci sarebbero voluti alcuni anni, ma la Gran Bretagna non sarebbe riuscita ad arrestare questo processo d'espansione dell'Italia, con la quale gli ebrei avrebbero dovuto collaborare. Roma – affermava Dadone – avrebbe mirato alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, controllando l'Iraq e la Siria. Intanto gli ebrei avrebbero dovuto stabilirsi nell'area abissina del Gojjam. Era con ciò previsto un duplice obiettivo: il consolidamento italiano in Abissinia, e l'attrazione delle simpatie sioniste per Roma. Dadone era consapevole che una colonizzazione ebraica in Abissinia non poteva soddisfare gli ebrei il cui obiettivo finale era un altro. In cambio del sostegno ebraico alla colonizzazione dell'Etiopia l'Italia era, tuttavia, disponibile a permettere la creazione di un vero e proprio Stato in Palestina. Agenti italiani riformularono la proposta della colonizzazione ebraica in Abissinia ad altri capi sionisti. L'idea del focolare abissino era nata al gabinetto del ministero degli Esteri in seguito alle richieste che ebrei di tutto il mondo avevano formulato al Duce, cui avevano espresso solidarietà e offerto la propria disponibilità a raccogliere i fondi necessari a dar concreta attuazione al progetto. A metà giugno del 1936 il progetto fu abbandonato e Ciano, per volontà di Mussolini, dichiarò, d'accordo con il ministero delle Colonie, che il governo italiano non riteneva più opportuno dargli corso; pertanto si dovevano lasciar cadere le iniziative in tal senso intraprese e affermare, in termini generici, che lo studio della colonizzazione in Etiopia era stato appena iniziato da parte degli organi tecnici competenti, e che era quindi prematuro parlare di un'eventuale immigrazione ebraica. Questa inversione di tendenza fu determinata dalla freddezza con cui Weizmann aveva accolto la proposta e dal venire meno della sua fiducia verso l'Italia. Senza un accordo politico con il sionismo la colonizzazione ebraica dell'Etiopia se, da un lato, avrebbe comportato il vantaggio di una grossa speculazione finanziaria, dall'altro avrebbe compromesso sia la politica araba sia i rapporti con la Gran Bretagna. Questo non era quanto auspicato dal Duce che con il suddetto progetto aveva sperato di recuperare la carta sionista dando come anticipo il focolare etiopico e lasciando la Palestina agli arabi. In effetti, qualora fosse riuscita a realizzare un'intesa con Weizmann, l'Italia si sarebbe garantita la sua collaborazione per pacificare e sfruttare l'Etiopia, risolvendo in tal modo la contrapposizione fra la linea filosionista e quella panaraba. L'accordo con il sionismo avrebbe anche potuto garantire all'Italia l'appoggio degli ebrei quali mediatori presso Londra in vista dell'auspicato accordo generale. In funzione di quest'ultimo, nel corso del 1936, l'Italia cercò un riavvicinamento alla Gran Bretagna e alle altre democrazie occidentali, proponendo una distensione dei rapporti. Nello stesso tempo strinse i legami con la Germania, con la quale in ottobre creò l'Asse. Questa fu la duplice strategia di Mussolini il cui primario obiettivo era accrescere il prestigio e il peso dell'Italia, senza legarla – finché ciò fosse stato possibile – né a Berlino né a Londra e conservando a Roma la funzione di potenza mediatrice tra i due blocchi. Prima di una scelta definitiva l'Italia avrebbe dovuto continuare, con il suo «peso determinante», a essere l'ago della bilancia della politica in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Del resto queste due realtà geopolitiche non potevano essere considerate separatamente e a ribadire la loro inscindibilità all'inizio del 1936 Roma provvide dando vita, con la Germania, a una comune attività in Palestina il cui obiettivo era quello di sviluppare un'intensa opera di propaganda e alimentare attività sediziose. Mantenendo la leadership in questo ruolo, Roma nel corso dell'anno successivo, allargò il campo d'azione all'Egitto e al Medio Oriente.
L'alleanza con la Germania, l'ostilità di molti antifascisti fuoriusciti ebrei nei riguardi del regime, e i sempre più stretti legami con la leadership nazionalista araba indussero il Duce ad abbandonare la carta del sionismo, individuato come strumento e alleato irrinunciabile della «perfida Albione».

CANZANO 11- Lei ha scritto che l’Italia fascista fu il primo Stato europeo a sostenere in modo concreto la lotta di liberazione del popolo palestinese. In che modo il governo fascista aiutò la resistenza palestinese?

FABEI - L’Italia fu il primo Stato europeo ad appoggiare la resistenza palestinese contro la potenza mandataria, cioè la Gran Bretagna, e contro i sionisti e il loro progetto di insediamento in Terrasanta. Tra il settembre del 1936 e il giugno del 1938 l’Italia versò al Gran Mufti, che guidava la rivolta contro le forze militari inglesi e contro l’immigrazione ebraica, circa 138.000 sterline, circa 10.000.000 di euro attuali. Tale contributo fu voluto dal Duce in ragione della posizione assunta dall’Italia nei confronti del nazionalismo arabo, e «per dar fastidio agli Inglesi», oltre che in omaggio alle posizioni anticolonialiste del Mussolini socialista rivoluzionario e del primo fascismo. Il ministero degli Esteri decise allora di inviare ai combattenti palestinesi, oltre al denaro, un consistente carico di armi e munizioni, in principio destinato al Negus ma acquistato in Belgio tramite il Servizio informativo militare, il SIM. Questo materiale, accantonato per quasi due anni a Taranto, sarebbe dovuto arrivare, tramite intermediari sauditi, ai palestinesi impegnati nella prima grande intifāda per abbattere il regno hascemita di Transgiordania, porre fine al protettorato britannico, bloccare l’arrivo di altri ebrei e quindi il progetto sionista in Terrasanta. Il denaro giunse a destinazione, non le armi e ciò a causa della paura dei sauditi di pregiudicare i loro rapporti con l’Inghilterra.

BIOBIBLIOGRAFIA

* Nato a Passignano sul Trasimeno nel 1960, Stefano Fabei insegna all’Istituto Tecnico per le Attività Sociali «Giordano Bruno» di Perugia. Suoi saggi sono apparsi su «Studi Piacentini» e «Treccani Scuola». Collabora a «I sentieri della ricerca», «Eurasia» e «Nuova Storia Contemporanea». Ha pubblicato:
La politica maghrebina del Terzo Reich (All'insegna del Veltro, Parma, 1988)
Guerra santa nel golfo (All'insegna del Veltro, Parma, 1988)
Guerra e Proletariato (SEB, Milano,1996)
Il Reich e l'Afghanistan (All'insegna del Veltro, Parma, 2002)
Il fascio, la svastica e la mezzaluna (Mursia, Milano, 2002)
Una vita per la Palestina. Storia del Gran Mufti di Gerusalemme (Mursia, Milano,2003)
Mussolini e la resistenza palestinese (Mursia, Milano, 2005)
Le faisceau, la croix gammée et le croissant (Akribeia, Saint-Genis-Laval, 2005)
Les arabes de France sous le drapeau du Reich (Ars Magna, Nantes, 2005)
I Cetnici nella Seconda guerra mondiale, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2006)
Carmelo Borg Pisani: eroe o traditore? (Lo Scarabeo, Bologna, 2007)
La «legione straniera» di Mussolini (Mursia, Milano, 2008)
Di prossima uscita, per Mursia, «Barbarossa»: operazione preventiva o pura aggressione?

Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte]

Giovanna Canzano - © - 2009

giovanna.canzano@alice.it

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