di Filippo Giannini
21.04.09 -
Questo stralcio di articolo è del giornale sloveno “Vecer”. Ecco la traduzione:
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I lettori più fedeli e più attenti ricorderanno che in merito alle dichiarazioni del Presidente Napolitano proposi un articolo nel quale ricordavo una esperienza del volontario Mario Sorrentino, combattente nella GNR. Per coloro che non ricordano, o non ne sono a conoscenza, lo ripresenterò al termine di queste mie note.
Nel mio precedente articolo dal titolo “Verità di comodo dei soliti noti”, terminai impegnandomi di tornare sull’argomento, perché c’è tanto, ma tanto da dire.
Ed ora mantengo l’impegno.
Lenin disse (asserzione poi raccolta da Antonio Gramsci):
Ed ora vediamo “quanto dolore il fascismo ha provocato nel popolo sloveno”.
Prima di iniziare sarà bene ricordare, per coloro che non lo sanno, cos’è una “foiba”. E una cavità del terreno a forma di imbuto, tipica delle regioni carsiche dell’Istria e di alcune aree del Friuli. Sul finire della guerra, dal 1943 sino al 1947, gli slavi gettavano, in queste cavità, soprattutto italiani, uomini, donne e bambini, in moltissimi casi ancora vivi, di qualsiasi colore politico. Questa criminale operazione avvenne anche con l’aiuto di partigiani comunisti italiani. Nel dopoguerra il delitto per foiba fu accantonato dall’Italia nata dalla Resistenza sino ad alcuni anni fa. Quando l’opinione pubblica cominciò ad interessarsi dell’argomento, ovviamente i comunisti si trovarono in imbarazzo e dovettero inventare qualcosa per giustificare quegli orrendi misfatti. Quale migliore occasione per scaricare sui fascisti le colpe di quel che avvenne e, ripeto, grazie anche ai discepoli del comunismo staliniano?
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Che i seguaci di Lenin affondino le loro radici nelle “verità rivoluzionarie” del giacobino sovietico Lenin e dei suoi seguaci e che sparino menzogne contro chi non dispone di alcuna arma per confutarle, è una realtà. Ecco, quindi, che la gramsciana “verità rivoluzionaria” rimane tale nella sua stupidità; perché se il comunismo è morto (ma sarà poi così?), i comunisti sono vivi e attivi.
Per dimostrare quanto siano lontane dalla verità le affermazioni del Presidente Napolitano, è necessario fare un breve, anche se incompleto, excursus storico.
Da secoli nell’ex Jugoslavia convivevano 14 etnie e numerose minoranze, ognuna delle quali, da sempre scossa da quattro contrastanti religioni. Ogni etnia e minoranza, costantemente in conflitto con le altre, ha generato bagni di sangue che hanno caratterizzato la storia di quell’area balcanica. Lo stesso è avvenuto anche durante l’occupazione della Jugoslavia da parte dell’Asse dal 1941 al 1945 (e oltre).
Nora Beloff (“Storia Illustrata”, n° 350) dopo aver attestato che la lotta partigiana di Tito
Come dimostrerò in un mio prossimo volume, le truppe italiane (sì, signor Presidente, anche e soprattutto quelle in Camicia nera) furono impegnate principalmente a interporsi fra le varie etnie intente a massacrarsi fra loro: come accadde a Livno dove furono uccisi 112 cittadini, a Glivna 650. A Knin vennero impiccati tutti i quarantasette rabbini e gli ebrei superstiti della zona vennero posti in salvo, su ordine di Mussolini, che li fece trasferire in Calabria. Gli abitanti dei villaggi chiedevano la protezione delle nostre truppe. A Knin e dintorni i cittadini presentarono una petizione, corredata da 100 mila firme, con la quale chiedevano l’annessione della loro cittadina all’Italia e la cittadinanza italiana. Molti giovani si arruolarono nel Regio Esercito e la maggior parte di loro, circa un migliaio, dopo l’8 settembre 1943, per difendere le loro genti, continuarono la lotta antipartigiana nelle file della RSI.
E’ bene sapere che, a seguito dell’attività partigiana in danno delle nostre truppe, si ebbero numerosi casi di uccisioni di nostri militari. Le Convenzioni Internazionali di guerra, allora vigenti, ci concedevano la rivalsa della rappresaglia. Questa fu solo raramente messa in atto, ma su sollecitazioni del nostro Comando Militare e in base ad un bando di Mussolini, fu istituito un Tribunale Speciale militare che esaminò i casi di 1.866 denunziati (quasi tutti passibili, per le citate Convenzioni, di essere passati immediatamente per le armi): 941 per detenzione di armi semplici o connesse a omicidi e rapine; 538 per insurrezione armata, attentati o terrorismo; 387 per banda armata o assistenza a banda armata. Ebbene, 719 furono prosciolti; 270 assolti in giudizio; 159 condannati con la condizionale e 518 a pene detentive. Le sentenze capitali furono 58, ma soltanto 47 eseguite.
Il 7 giugno 1941 Mussolini nominò Giuseppe Bastianini Governatore della Dalmazia con l’ordine di
Da un articolo di Antonio Pitamitz (“Storia Illustrata”, n° 346) riporto un primo rapporto di Bastianini che chiarisce quali fossero i rapporti iniziali con la popolazione locale. Bastianini scrive:
Pitamitz scrive che ad avvicinare di più la popolazione croata agli italiani contribuì, per tragico paradosso, la lotta armata e terroristica dei comunisti, con la quale, secondo la logica del terrorismo, forse si voleva fare il vuoto intorno a loro.
Bastianini decise di affrontare il problema cercando di unire gli interessi dei dalmati-croati a quelli dell’Italia con “un’opera di civiltà”. Volle farlo attraverso una azione di “pace e di penetrazione pacifica verso coloro che gli italiani consideravano, a torto o a ragione, fratelli”. Invito il Presidente Napolitano a contestare quanto scrisse in “Oltre la disfatta” Carlo Bozzi, che fu Segretario generale del Governatore della Dalmazia: "A questo fine, in quella regione furono dispiegati mezzi notevoli>. E passo alla documentazione. Tra il 1941 e il 1943, mentre in Italia la situazione alimentare era più che seria (chi scrive queste note, anche se bambino, lo ricorda bene: si viveva con una razione di 100/150 grammi di pane al giorno), decine di migliaia di quintali di generi alimentari vennero inviati a quelle popolazioni anch’esse stremate dalla fame. Nel territorio sotto controllo delle nostre truppe mancava un’organizzazione sanitaria statale, come quella esistente in Italia, e le scuole quasi non c’erano. Perciò nelle tre province furono istituite 27 condotte mediche, che vennero affidate a ufficiali medici combattenti. Per l’assistenza alle future madri vennero dall’Italia numerose ostetriche, volontarie o comandate.
Furono organizzati un autotreno e una motobarca sanitari per raggiungere i centri più piccoli e periferici e le isole. Nel bilancio dei primi dieci mesi di Governatorato, contenuto nel rapporto dell’aprile 1942 – il testo era bilingue italiano e croato – Bastianini ha ricordato che in un mese gli specialisti dell’autotreno avevano compiuto 4.862 visite, e quelli della motobarca 2.405.
Ma i “danni compiuti dal fascismo” non si fermano a questi dati. All’”Opera Nazionale Combattenti” era stata affidata, ricorda ancora Bastianini, la bonifica di 76.000 ettari dei territori di Laurana e Bocagnazzo-Nona (in croato: Bokahjac-Nin), ed erano stati distribuiti 1.200 ettari a 1.050 contadini. “I danni” continuarono con l’avvio di una riforma agraria che, alla data del rapporto, registrava 22.000 domande di contadini per accedere ai benefici di legge previsti. Particolarmente notevole in quei dieci mesi era stato lo sforzo compiuto dal Governatore nel settore della scuola. Vennero impiegati 531 maestri italiani e 550 croati. Oltre a ciò, per sfatare l’altra “verità rivoluzionaria” circa l’italianizzazione forzata, si deve ricordare che nel 1941, 52 giovani italiani e 211 croati erano andati a studiare nelle università italiane, usufruendo di borse di studio. A tante “atrocità commesse dai fascisti italiani” come rispondevano i civilissimi comunisti? Lo scrive Pitamitz:
Da qualche tempo si è cominciato a parlare delle “foibe”, una ignominia tutta “rossa”, come ignominia è cercare giustificazioni. E quella ricordata dal Presidente Napolitano è una “giustificazione” tendente ad ammorbidire la responsabilità dell’assassinio di 20-30.000 italiani di quelle terre. Dal dopoguerra, come ho sopra scritto, per decenni, se ne era persa la memoria, poi nel teatrino della politica italiana si è affacciato quello spettro che, se non riportato nella bara, avrebbe potuto dar fastidio a coloro che detengono il potere di questo sventurato Paese. Gli esecutori materiali di quei misfatti erano comunisti slavi e comunisti italiani, era quindi necessario trovare una nuova “verità rivoluzionaria”. E non si tardò molto a trovarla. D’altra parte non è questa una Repubblica antifascista? Non è forse vero che i fascisti non hanno accesso né a emittenti radio o televisive, né a un editore importante o a giornali di ampia diffusione? In altre parole, essi non dispongono di alcun mezzo per contestare le accuse che da oltre settant’anni quotidianamente vengono su loro scaricate. Se tutto ciò è vero, il gioco è fatto: le “foibe”? colpa dei fascisti che durante l’ultimo conflitto misero in atto dissennate rappresaglie, ingiustificate fucilazioni di inermi cittadini, incendi, ecc. ecc..
Per onorare la memoria di tanti poveri martiri, tornerò sull’argomento.
Mario Sorrentino, combattente in Russia, dopo l’8 settembre 1943 non ebbe alcuna esitazione: si arruolò nelle file della Repubblica Sociale Italiana. Dalle pagine del suo “Diario” riporto alcuni brani nella certezza che Lui stesso li avrebbe fatti conoscere volentieri al Presidente Napolitano:
<(…) La notte passò lenta e all’alba uscimmo tra i binari in attesa del nostro treno che si stava formando.
Qualche cosa di strano colpì la nostra attenzione fino ad assorbirla completamente.
La sera prima un lungo convoglio di vagoni merci era stato portato sulla linea. Tutte le carrozze erano chiuse, sigillate. Un rumore oscuro partiva da esse, tale che noi credemmo si trattasse di trasporti di bestiame.
Uscendo insonnoliti, al mattini vedemmo il treno ancora lì, e incuriositi ci avvicinammo.
Era scortato da ùstascia, quei terribili soldati croati eredi di tutta la crudele anima balcanica. Le finestrelle in alto erano sbarrate, e graticciate di fil di ferro. Erano una trentina di vagoni, gremiti di serbi deportati dai croati.
Quelli che potevano se ne stavano arrampicati alle sbarre delle finestrelle e leccavano su di esse l’umidita’ della notte. Si tenevano sù a forza di braccia e la loro gola lasciava vedere i tendini tesi che sembravano spezzarsi da un momento all’altro. I loro occhi esprimevano lo spasimo.
Dall’interno giungeva sino a noi, nel fetore opprimente della promiscuità, l’eco selvaggio della sofferenza e della miseria.
Accenti lamentosi di bimbi, grida isteriche di donne, voci rauche di uomini resi folli dalla paura e dal tormento. Inferno dantesco lasciato indovinare dalle pareti dei vagoni, sorde e mute.
“Cavalli 8, uomini 40”. In tutte le lingue del mondo, su tutti i vagoni merce. E su quelli, centinaia di infelici a brancicare nello sterco e nel buio. L’odore della carne ammassata e sudante faceva torcer la testa e stimolava i conati del vomito.
Ho visto una volta un autocarro di pecore traversare, puzzando, una via della mia città. Erano ingabbiate e in ordine e avevano il loro strame, compiansi quelle bestie. E quelli erano uomini. Di quell’umana specie di cui, da secoli, si proclama la dignità e la libertà. Ed altri uomini li avevano rinchiusi lì dentro. Gli uni si chiamavano serbi, gli altri croati, e nessuno più “uomo”.
Lo sgomento e lo sdegno erano nei nostri cuori. Avevamo vent’anni e andavamo a combattere perché fosse resa giustizia al popolo italiano. Stavamo attoniti dinanzi al vagone.
Qualcuno di quei disgraziati ci scorse, lesse nei nostri occhi, riconobbe la nostra uniforme e la pietà che non aveva dai fratelli, la chiese a noi, ai nemici.
Una voce lamentosa, disse in un rantolo: “Bono taliano, VODE’”.
Gli italiani hanno dipinta sul volto la loro bontà o dabbennaggine. Tutto il mondo, quando non ci opprime o deruba, quando ha bisogno di noi, dice: “Bono, taliano”.
Quella voce aveva un accento di bestia. Quella parola “acqua” incendiò il vagone, e subito, lungo tutto il convoglio, fu un solo tremendo coro, una allucinante richiesta: “Vodè’ vodè”, “Acqua, acqua”.
Non bevevano, in luglio, da tre giorni.
Fui colto da una sete irresistibile, che mi arse la lingua, mi fece secca la pelle e mi annebbiò lo sguardo.
“Bono taliano, vodè’, vodè”.
E questi “boni”, stupidi italiani, che son sempre tali con gli altri e mai con sé stessi, questi “boni taliani” che eravamo noi sedici, venimmo alle mani con la scorta, la sopraffacemmo e demmo a quei Cristi sulla Croce, quasi tutti ebrei, non aceto, ma acqua.
Lavorammo come invasati un’ora e più. Li vedemmo bere e bere. Vedemmo i figli strappare l’acqua da sotto la bocca dei padri, vedemmo una mamma che serbava un pò d’acqua nel portasapone per il suo bambino. Demmo acqua e poi acqua, coi secchi e con le boracce. Loro si attaccavano al collo avidi, ed era più la perduta che la bevuta.
Continuammo finché fu necessario, portando acqua, bestemmiando la nostra pietà e la crudeltà degli ùstascia, finché tutti ebbero bevuto, finché vedemmo i loro occhi, a poco a poco, farsi chiari, tornare umani, le loro facce distendersi. Qualcuno vomitava e vomitava acqua.
Mentre il nostro treno si avvicinava, uno di noi, il romano Donati, che più degli altri aveva lavorato e imprecato, prese, prima di allontanarsi, la sua razione di viveri a secco e la getttò su di un vagone. Tutti facemmo così, e rimanemmo digiuni, mentre sui vagoni si contendevano, a morsi e pugni, le nostre gallette.
Povero Donati, chi Ti ammazzò, un anno dopo, se non gli stessi, o i figli o i fratelli degli stessi, cui tu avevi dato la tua galletta?
Ti uccisero …”Porco taliano”>.
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