Luigi Costantino
Come purtroppo ben sappiamo, alla caduta del Regno, così come alla igniminiosa fine del suo Esercito, contribuirono in maniera fondamentale molti tra gli stessi Ufficiali, collaborando attivamente con la monarchia sabauda e spianando la strada dei Garibaldini da Marsala fino a Napoli. Molti sono i generali tristemente famosi per il loro tradimento, che fece sì che il nostro esercito venisse ricordato per tutto fuorché per l'onore e l'amore per Patria. Fortunatamente molti altri, il cui nome per molti decenni è stato dimenticato, ci hanno lasciato vive testimonianze di fedeltà, attraverso le loro gesta e i loro scritti, che solo di recente sono stati tratti dall'oblio grazie all'opera paziente di editori che, encomiabilmente, hanno ritenuto necessario che quelle testimonianze tornassero a circolare liberamente.
Meno cose sappiamo, invece, dei soldati che, a differenza dei vertici dell'esercito, continuarono a oltranza a rimanere fedeli al proprio Paese e in primo luogo al loro Re.
Una volta caduta l'ultima resistenza di Civitella del Tronto, il 20 marzo 1861, il neonato Regno d'Italia dovette affrontare, oltre alla resistenza spontanea che si levava in tutte le province meridionali, il problema di come inquadrare i 97000 soldati dell'oramai disciolto esercito delle Due Sicilie.
Il 4 maggio 1861, per effetto del decreto firmato dal Ministro della Guerra Manfredo Fanti, nasceva l'Esercito Italiano. In effetti si trattava di un semplice cambio di denominazione dell'Armata Sarda, la quale non si fuse con l'Esercito del Regno delle Due Sicilie ma pretese semplicemente di assorbirlo. Migliaia di essi si erano già dati alla macchia, riorganizzandosi in bande tra le cui fila trovavano posto cittadini che avversavano il nuovo regime, contadini che avevano perso la propria terra e veri e propri briganti.
Tutti costoro vengono spesso definiti unitariamente come “briganti”, ma in realtà, appunto, tra di essi non erano pochi coloro che avevano inteso intraprendere la guerriglia unicamente per continuare, con i mezzi a disposizione, la stessa guerra che li aveva visti fronteggiare prima i garibaldini, poi l'esercito piemontese rinforzato da elementi degli eserciti preunitari già annessi. Essi non ebbero mai la possibilità di formare un vero e proprio esercito, privi come erano di gradi superiori, ma diedero non poco filo da torcere ai piemontesi e alla guardia nazionale.
Coloro che invece furono catturati, in gran parte rifiutarono risolutamente di passare sotto le armi di Vittorio Emanuele, ritenendo sempre valido il giuramento fatto a Francesco II.
L'occupazione del Regno delle Due Sicilie da parte del Regno di Sardegna, infatti, era avvenuta al di fuori di qualsiasi regola del diritto internazionale. Non c'era stata una dichiarazione di guerra, e conseguentemente non c'era stato un armistizio a seguito del quale lo sconfitto abdicasse in favore del vincitore. Il Governo di Napoli si era trasferito a Roma, dove Francesco II continuava, per quello che era possibile, a cercare appoggi internazionali, a ricevere visite dei sui sudditi e a tentare di pianificare una riconquista. Dunque, il vincolo che legava il soldato al proprio re era ancora operante, come ebbero modo di mostrare i numerosi soldati catturati e deportati in tutto il Nord Italia.
In tutte le principali fortezze dell'Italia del Nord a partire dal 1860, accolsero i soldati napoletani allo scopo di rieducarli alla fedeltà al nuovo regime, con risultati che nella maggior parte dei casi furono estremamente scarsi.
Ben presto ci si rese conto che non era possibile convertire queste persone alla fedeltà al nuovo re; anzi, distribuiti com'erano tra Genova, Milano, Torino, Modena essi potevano tutt'al più rappresentare un pericolo, dato che sembravano più che altro propensi a rivoltarsi contro quello stesso esercito che voleva arruolarli.
Così si dovette cambiare strategia, e pensare unicamente a concentrarli in luoghi dove da una parte la rieducazione si sarebbe svolta secondo modalità più rigide, dall'altra i più riottosi non avrebbero costituito un pericolo.
Il luogo che più efficacemente di ogni altro simboleggia questa politica è senz'altro la fortezza di Fenestrelle.
Il complesso di Fenestrelle, in Val Chisone, in provincia di Torino, poco distante dal confine con la Francia, è in realtà qualcosa di più di una semplice fortezza: è una catena di diversi forti, ridotte, risalti che di sviluppa per oltre tre chilometri su un fianco della valle, superando 635 m di dislivello e vantando la scala coperta più lunga del mondo, 4000 gradini.
Questa straordinaria opera di ingegneria fu costruita per fronteggiare un possibile attacco dalla Francia, attacco che peraltro non avvenne mai; per cui, essa per gran parte della propria storia fu utilizzata come carcere militare e poi, a partire dall'epoca napoleonica, come carcere per reati politici. Nel corso della sua storia aveva già ospitato, nel 1811, alcuni ufficiali borbonici che non avevano voluto prestare fedeltà a Gioacchino Murat. Ma quello che si fece nel 1860 fu qualcosa di grandioso, che non aveva precedenti nella storia e che avrebbe avuto invece numerose imitazioni nel secolo seguente: un vero e proprio campo di concentramento.
Ancora oggi, nella prima delle stanze che costituiscono il Museo della Fortezza, si può leggere sul muro, entrando, la scritta “ognuno non vale in quanto è, ma in quanto produce”: un motto che ricorda drammaticamente altri utilizzati, nel corso del novecento, in altri luoghi.
Diverse migliaia furono i soldati deportati a Fenestrelle, ad affrontare i rigori dell'inverno alpino vestiti solo con ciò che rimaneva della propria uniforme, in stanzoni con le finestre prive di vetri, e costretti ai lavori forzati.
C'è un sentiero, che dalla parte più alta della fortezza si inerpica su per la montagna, che è chiamato “strada dei Siciliani”, proprio a testimoniare gli stenti cui furono sottoposti i nostri soldati per non aver voluto tradire, per aver voluto fino all'ultimo onorare il giuramento prestato al proprio sovrano. Di circa dodicimila reclusi a Fenestrelle, soltanto duecentocinquanta sopravvissero e, dopo enormi sofferenze, poterono tornare a casa dopo anni. Degli altri non rimane neppure una pietra a ricordarli: per motivi igienici e di spazio, infatti, i morti non venivano seppelliti ma sciolti nella calce viva. Nel pozzo dove veniva eseguita questa operazione, come ebbi a sentire dal presidente che oggi gestisce la fortezza e i musei annessi, ogni tanto capita di trovare la fibbia di una scarpa, o un bottone, ultima testimonianza delle atrocità che lì furono compiute.
Oggi che “uomo d'onore” è diventato, nell'uso comune, sinonimo di criminale, questi comportamenti ci sembrano così incredibili... ma questo era il soldato napoletano, fedele fino alla fine. Appare perciò ancora più crudele accostare queste immagini di uomini dalla grande dignità alle ingiurie infamanti che, proprio da allora, circolano riguardo al cosiddetto “esercito di Franceschiello”, scombinato, indisciplinato, impreparato.
Negli anni successivi alla conquista divenne sempre più pressante il problema di dare una collocazione a questi soldati che, sebbene non venissero certo trattati bene, erano pur sempre diverse decine di migliaia, il che comportava per il ministero della guerra spese non indifferenti. Così, furono proposti vari luoghi in cui poter deportare quegli infelici: nel 1868, il presidente del consiglio Menabrea intraprese delle trattative con il governo argentino allo scopo di valutare la possibilità di mandarli in Patagonia; ma divergenze sotto il profilo economico fecero fallire questo progetto.
Così, negli anni, in qualche modo, mentre nel meridione anche la guerriglia cosiddetta brigantesca veniva gradualmente spenta, anche questo problema si risolse da solo: eravamo finalmente italiani, l'italia era fatta.
O meglio, ancora non era fatta proprio del tutto: all'Italia, dopo Roma e il Veneto, mancavano ancora Trento e Trieste, che costituirono il motivo principale per cui l'Italia, cinquant'anni dopo, dovette intraprendere quella che alcuni storici non a caso chiamano la quarta guerra d'indipendenza: la guerra del 1915-18.
Naturalmente i nostri soldati, nati dopo l'unità, furono chiamati a dare il loro contributo, che non fu di poco conto. Per adeguare l'esercito italiano allo sforzo che doveva sostenere, naturalmente, furono create tutta una seri e di nuove brigate, formata ciascuna da due battaglioni; scartata l'ipotesi di formare battaglioni provenienti da ogni regione italiana in modo da favorire l'integrazione, si decise, per motivi logistici e anche, perché no, culturali, di creare brigate regionali, i cui coscritti avessero una provenienza omogenea. Nacquero così la Brigata Salerno, la Brigata Murge, la Brigata Catanzaro... Tutte, in verità si distinsero per l'ardore e l'onore con cui furono chiamate a combattere in quei luoghi cosi lontani e così diversi dalla terra alla quale, ancora una volta erano stati strappati; ma la Brigata Catanzaro merita di essere ricordata.
Numerosissime furono le località che videro in azione i Reggimenti della Brigata Catanzaro, ma, sicuramente, una menzione particolare la merita il Monte Mosciagh. Questo monte fu scenario di aspre lotte nelle quali la Brigata fu decimata e legò indissolubilmente il proprio al nome del 141° dopo l’operazione del 27 maggio 1916. La stessa si svolse in un momento molto difficile del conflitto, portò il 141° Fanteria agli onori della cronaca ed ebbe eco in tutta la nazione: nostri fanti recuperarono alcuni pezzi d’artiglieria da una posizione ancora tenuta dagli Austriaci sulla vetta della montagna, e dopo circa due ore di attacchi alla baionetta, riuscirono a cacciare definitivamente il nemico dalle posizioni iniziali conquistandone in definitiva anche l’armamento.
L’episodio meritò una citazione sul Bollettino di Guerra del 29 maggio 1916 n.369 a firma del Gen. Cadorna, e la prima pagina sulla Domenica del Corriere che con una bella illustrazione di A. Beltrame fece conoscere all’Italia intera come “Un brillante contrattacco dei valorosi calabresi del 141° fanteria libera due batterie rimaste circondate sul monte Mosciagh”.
Tra le pagine della storia della Brigata Catanzaro, però, ve ne sono alcune tra le più tristi dell’intera storia del nostro esercito.
Era il 27 maggio del 1916 e la Brigata era stata trasferita da alcuni giorni sull’Altopiano di Asiago. I tragici avvenimenti che culminarono con la fucilazione di 12 militari si svolsero sulle pendici del Mosciagh e furono la conseguenza dello sbandamento in condizioni difficili di quasi tutta la 4a compagnia del 141°. Il Col. Attilio Thermes, comandante del reggimento, in ottemperanza alle disposizioni emanate dal Comando Supremo, ordinò l’esecuzione sommaria senza processo per un sottotenente, tre sergenti ed otto militari di truppa da estrarre a sorte nella ragione di uno a dieci. Per questo ordine il Col. Thermes fu il primo ufficiale italiano ad essere citato in un Ordine del giorno del Comando mSupremo e questo non per un glorioso fatto d’arme ma per aver fatto fucilare i propri soldati!
Questo episodio, comunque non intaccò il morale della Brigata che continuò sempre e comunque a fare il proprio dovere tanto che S.M. il Re, con decreto del 28 dicembre 1916, concesse motu proprio alla bandiera del glorioso 141° Reggimento la MEDAGLIA D ’ORO al valor militare con questa motivazione: «Per l’altissimo valore spiegato nei molti combattimenti intorno al San Michele, ad Oslavia, sull’Altopiano di Asiago, al Nad Logem, per l’audacia mai smentita, per l’impeto aggressivo senza pari, sempre e ovunque fu di esempio ai valorosi (luglio 1915 – agosto 1916)». Anche la bandiera del 142° ebbe la sua meritata decorazione con la concessione della Medaglia d’Argento al valor militare.
Diversi mesi dopo, i soldati dei due reggimenti della Catanzaro furono protagonisti della più grave rivolta nell’esercito italiano durante il conflitto. Questo triste episodio si svolse a Santa Maria La Longa dove la brigata era stata acquartierata a partire dal 25 giugno 1917 per un periodo di riposo. La notizia di un nuovo reimpiego nelle trincee della prima linea fece, pian piano, montare quella che in poche ore sarebbe diventata una vera e propria rivolta. I comandi, avendo avuto notizia da informatori di quanto doveva accadere fecero infiltrare nei reparti alcuni carabinieri travestiti da fanti e si era disposta la dislocazione di più di cento carabinieri nelle immediate vicinanze. Alle ore 22 del 16 luglio 1917 iniziò il fuoco che durò tutta la notte. I caporioni di ogni reggimento assaltarono i militari dell’altro inducendo gli stessi ad ammutinarsi e ad unirsi a loro. Molti caddero morti sotto il fuoco dei rivoltosi, altri ne rimasero feriti. Appena il Comando d’Armata ebbe notizia di quanto stava avvenendo dispose le opportune contromisure inviando sul posto altri carabinieri su autocarri, quattro mitragliatrici, due autocannoni e con il preciso ordine di intervenire in modo fulmineo e con estremo rigore. La lotta durò tutta la notte e cessò all’alba dopo l’intervento degli ufficiali della brigata e dei carabinieri con mitragliatrici ma, soprattutto, dopo l’arrivo ed il posizionamento degli autocannoni. Sedici militari presi ancora con l’arma scottante furono immediatamente condannati alla fucilazione. A questi avrebbero dovuto aggiungersi altri 120 uomini, ma per limitare le fucilazioni si dispose di procedere al sorteggio del decimo di essi e, quindi, altri 12 si andarono ad aggiungersi alla lista. I 28 militari furono fucilati immediatamente nel cimitero di Santa Maria, alla presenza di due compagnie, una per ciascun reggimento.
Dopo questo spiacevole fatto, i fanti della Catanzaro intrapresero la loro marcia verso il fronte dove continuarono a battersi per il resto del conflitto con la grinta e la disciplina che avevano sempre dimostrato, tanto da ottenere una seconda citazione sul Bollettino di Guerra del 25 agosto 1917 nel quale si riportava che: “Sul Carso la lotta perdura intorno alle posizioni da noi conquistate, che il nemico tenta invano di ritoglierci. Negl’incessanti combattimenti si distinsero per arditezza e tenacia le Brigate Salerno (89° - 90°), Catanzaro (141° -142°) e Murge (259° e 260°)”.
In tutti gli episodi seguenti, nelle guerre successive, così come nelle missioni di pace degli ultimi decenni, i nostri militari non hanno mai mancato di mostrare il loro valore. E oggi che, abolito il servizio di leva, i soldati originari di quello che fu l'antico Regno delle Due Sicilie costituiscono la stragrande maggioranza dell'Esercito Italiano, essi continuano a tenere viva la memoria di coloro che li precedettero. Lo dimostra la provenienza dei caduti del Libano, di Nassirya, fino all'attentato di appena qualche settimana fa a Kabul.
È proprio questa l'eredità che essi ci hanno lasciato: l'onore, la fedeltà e il coraggio nelle situazioni più difficili, pur in presenza di risorse limitate e dovendo obbedire a ordini che non sempre sono ispirati ad altrettanto zelo ed amore per la Patria e l'interesse effettivo del proprio popolo.
Capua, 10 ottobre 2009
http://comitatiduesicilie.org/index.php?option=com_content&task=view&id=2363&Itemid=1
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