martedì 4 agosto 2009

Storia di un tradimento - arresto e liberazione di Mussolini.

Storia di un tradimento ----La storia che accadde davvero----arresto e liberazione di Mussolini.
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Articolo dI Liugi Romersa

II destino di Mussolini, dal momento dell'arresto, venne deciso nel
corso di una riunione segreta che si svolse al Viminale il 27 luglio del
1943 e alla quale parteciparono il maresciallo Badoglio, il capo della
polizia Senise e il capo della polizia militare del Comando Supremo,
generale Polito. Su suggerimento di Senise fu stabilito di inviarlo su
un'isola e di affidarne la custodia ai Carabinieri. Convocato su due
piedi il comandante dell'Arma, generale Cerica, Badoglio gli impartì
personalmente le istruzioni per la sorveglianza dell'ex Capo del
Governo, ordinando, fra l'altro, di sparare a vista contro chiunque
avesse tentato di impadronirsene con la forza. "Piuttosto che lasciarlo
cadere nelle mani di chicchessia o lasciarlo fuggire - disse - bisogna
sopprimerlo ! . . . " Che questo corrispondesse in realtà ai propositi
del Maresciallo non v'è dubbio e lo si desume, del resto, da quanto, il
2 agosto, Badoglio rispose a Bonomi allorché il vecchio uomo politico
gli domandò dove "avessero messo Mussolini". "È al sicuro, state
tranquillo" - disse - "È molto lontano da qui e non uscirà vivo dal
luogo dove è custodito...". Intanto, nella caserma dei Carabinieri, il
Duce aspettava che, da un momento all'altro gli annunciassero la
partenza per la Rocca delle Caminate, nella quale aveva espresso al Re
il desiderio di ritirarsi a vita privata. Il messaggio, portatogli
all'una di notte dal generale Ferone, sembrava in effetti più che
rassicurante. Intestato a "S. Eccellenza il Cav. Benito Mussolini"
diceva: "Il sottoscritto Capo del Governo, tiene a far sapere a V.E. che
quanto è stato eseguito nei vostri riguardi è unicamente dovuto al
vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise
segnalazioni di un serio complotto contro la vostra persona. Spiacente
di questo, tiene a farvi sapere che è pronto a dare ordini per il vostro
sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che
vorrete indicare". La risposta, il Duce la dettò personalmente.
"Desidero ringraziare il Maresciallo d'ltalia Pietro Badoglio per le
attenzioni che ha voluto riservare alla mia persona. Unica residenza di
cui posso disporre, è la Rocca delle Caminate dove sono disposto a
trasferirmi in qualsiasi momento. Desidero assicurare il Maresciallo
Badoglio, anche in ricordo del lavoro comune svolto in altri tempi, che
da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma
sarà data ogni possibile collaborazione. Sono contento della decisione
presa di continuare la guerra con gli alleati(tedeschi), così come
I'onore e gli interessi della Patria, in questo momento, esigono, e
faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il
Maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di S.M. il Re, del
quale, durante 21 anni, sono stato leale servitore e tale rimango. Viva
l'ltalia!" Partito il generale Ferone, dopo aver conversato con il suo
segretario De Cesare e bevuto un tè offertogli dalla moglie del
colonnello comandante la caserma, Mussolini s'allungò su un divano e
riposò per qualche ora. Si trattò di un sonno agitato, più volte
interrotto, giacché i pensieri che gli facevano ressa nel cervello non
gli davano tregua. In città, dell'accaduto si sapeva poco o nulla; Roma,
esausta dalla calura, era più silenziosa che mai. Ma intanto, in
Germania, presso il suo Q.G., Hitler era furibondo e la sua prima
reazione fu di sottoporre l'Italia a pesanti rappresaglie; intendeva
colpire la monarchia, il governo e la flotta, poiché aveva intuito che,
a breve scadenza, Roma si sarebbe arresa agli angloamericani. La
decisione di liberare ad ogni costo il Duce, fu immediata e difatti, già
il giorno 26 luglio, convocò diversi ufficiali per sceglierne uno cui
affidare la delicata e difficile missione. La scelta cadde sul capitano
delle "SS" Otto Skorzeny la cui taglia atletica e la cui sicurezza di
modi lo impressionarono in maniera particolare . L' ufficiale, fra
I'altro, era conosciuto e raccomandato da un noto gerarca, Ernst
Kaltenbrunner, ben visto da Hitler per la sua fedeltà e per il fatto di
essere nato in Austria, a Linz, città che al Fuhrer era oltremodo cara.
Lo "squadrò" con un'occhiata da capo a piedi e gli disse: "Vi affido un
incarico di enorme importanza, la liberazione del più grande degli
italiani, Mussolini, che io non voglio e non posso abbandonare nel
momento del pericolo. . ." . Con un simile "viatico", Skorzeny si mise
subito al lavoro. Incontrò Himmler poi, insieme con il generale Kurt
Student, comandante di una divisione di paracadutisti, si recò a Roma
per scoprire il luogo in cui il Duce era tenuto prigioniero. Mussolini
intanto, convinto di non essere in stato di arresto ma, come diceva
Badoglio nella sua lettera, semplicemente sotto la "protezione" dei
Carabinieri, venne avvertito dell'imminente partenza che considerò
risolutiva della situazione venutasi a creare dopo le decisioni del Re.
L' incarico di "accompagnare" il prigioniero fu affidato a un tipo
corpulento, in uniforme di generale; si trattava di Polito, capo della
polizia militare del Comando Supremo il quale, allorché Mussolini gli
domandò perché mai non si dirigessero verso la Romagna, rispose che
aveva ordine di "non rivelare la destinazione cui erano diretti". Il
segretario del Duce, De Cesare, era stato trasferito subito al carcere
di Regina Coeli, e questo rappresentò la fine delle speranze, per l'ex
Capo del Governo, di raggiungere, come gli era stato invece promesso, la
Rocca delle Caminate. Giunti a Gaeta, sul molo, Mussolini e Polito
trovarono l'ammiraglio Maugeri; I'imbarco sulla corvetta "Persefone" che
doveva trasferire il prigioniero su un'isola avvenne di sera, presenti
il colonnello dei Carabinieri Pelaghi e un gruppo di militi in funzione
di scorta. Il battello salpò all'alba. A Roma, nel frattempo, al termine
di un movimentato Consiglio dei ministri, Badoglio, maestro di
camaleontismo politico, telegrafava a Hitler, di cui temeva le reazioni,
in questi termini: "La guerra per noi continua nello spirito
dell'alleanza. Tanto tengo a confermarvi con la preghiera di voler
ascoltare il generale Marras che verrà al vostro Q.G. da me incaricato
per una particolare missione per Voi". Chiedeva un colloquio del Re con
il Fuhrer, ma il Fuhrer, appena gli fu chiesto, ignorò totalmente il
desiderio di Vittorio Emanuele III. Approfittò, anzi, della circostanza
per lamentarsi, con parole dure e seccate, del trattamento inflitto al
"suo amico Mussolini". Convinto, anzi, che sia il Sovrano italiano che
Badoglio fossero in malafede, richiamò Skorzeny e gli confermò I'ordine
di liberare ad ogni costo il Duce. Da Gaeta, la corvetta "Persefone" si
mise in rotta per Ventotene dove giunse alle 5 circa del mattino, ma sia
Polito che Pelaghi, dopo una verifica a terra, decisero di proseguire
per Ponza, dove, a loro giudizio, sarebbe stato più facile sistemare il
"prigioniero". Durante il viaggio, Mussolini parlò a lungo con
I'ammiraglio Maugeri e, fra I'altro, gli confessò il suo disappunto per
I' insistenza con la quale Rommel volle inseguire gli inglesi fino a El
Alamein pur sapendo di non disporre dei mezzi per poter proseguire
I'avanzata. "Rifiutò i suggerimenti di Bastico e di Kesselring" - disse
- "Si oppose ad ogni proposta di ritirarsi su una linea più arretrata e
più difendibile, impedendo con questo I'occupazione di Malta, che era
giunta alla fine. Altro errore compiuto dai tedeschi I'attacco alla
Russia che i nostri alleati pensarono di liquidare in pochi mesi. Hitler
mi raccontò che subirono un inganno che non esitò a definire
"diabolico"... Più volte, ho consigliato il Fuhrer di venire ad un
accordo con Mosca; I'ho fatto sia a Salisburgo che a Feltre, ma
inutilmente. . . ". Ponza, secondo Polito, era la sede idonea. Fu scelta
una casa verdastra a due piani. Nonostante si parlasse sempre di
"trasferimenti compiuti nella massima segretezza", sull'isola tutti
sapevano dell'arrivo del Duce e la gente vi assistette, infatti, dai
balconi e dalle finestre che si affacciavano sul porto. Quando Mussolini
raggiunse la casa che doveva essere la sua prigione, e in effetti lo fu,
a chi lo scortava disse che era stanco e avrebbe desiderato un letto per
riposare. Lo condussero allora in una stanza squallida e semivuota dove
c'era soltanto una rete senza materasso e senza lenzuola. Lo sgomento
assalì il prigioniero il quale, dopo uno scatto di ribellione e un
inutile "basta!", pronunciato a denti stretti, altro non poté fare che
sedere in terra e, con sgomento, prendersi la testa fra le palme delle
mani. Anche quella, comunque, era una maniera per umiliarlo. Chi cercò
Polito e il colonnello Pelaghi per riferirgli le richieste del Duce, non
li trovò; come se la faccenda non li riguardasse, tranquillamente se ne
erano andati a colazione. I primi segni di comprensione e d'amicizia,
Mussolini li ebbe da due marescialli dell ' Arma, Avallone e Sebastiano
Marini, i quali gli si avvicinarono con estremo rispetto e con gli occhi
gonfi di lacrime. Marini, anzi, provvide a fargli preparare un brodo
caldo e gli portò del pane, un uovo e un po' di frutta. A Roma, il
governo s'era quasi dimenticato del "prigioniero" e Badoglio e compagni
ad altro non pensavano che a sfuggire ad eventuali, temute rappresaglie
tedesche e a prendere contatti con gli Alleati, ancora nemici, per la
conclusione di un rapido armistizio. Il 29 luglio, il Duce compiva 60
anni; per la circostanza ricevette un messaggio augurale di Goering e,
tramite Polito, poté inviare una lettera alla consorte Rachele, ignara
del sito in cui si trovava il marito. Sapeva soltanto che era vivo e ne
era stata informata dalla propria parrucchiera la quale aveva ricevuto
una confidenza, in tale senso, da un'altra cliente, la Principessa
Mafalda che aveva parlato anche della perplessità del Re, suo padre, per
quanto era accaduto a Villa Savoia. A Donna Rachele, quasi
contemporaneamente, era giunta un'altra missiva che l'aveva fatta
trasecolare: Badoglio la invitava ad inviare indumenti e denaro, senza
di che, egli specificava "non si sarebbe potuto provvedere al
mantenimento del prigioniero". A mano a mano che passavano i giorni, la
crisi seguita agli avvenimenti del 25 luglio, appariva più evidente e
drammatica e a constatarne gli effetti furono, per primi, coloro che
I'avevano provocata. A Grandi, infatti, incontrato al Quirinale ai primi
di agosto del 1943, il Ministro della Real Casa, Acquarone, disse:
"Badoglio ci sta portando alla rovina e anche il Re è di questo parere..
.. ". Dopo minuziose ricerche, alla fine di luglio, i tedeschi vennero a
sapere che Mussolini si trovava sull'isola di Ponza. Informato da
Himmler, il Fuhrer incaricò l'ambasciatore Mackensen di chiedere notizie
direttamente al Re e di domandare, inoltre, l'autorizzazione di visitare
il "prigioniero". Per il Sovrano, rispose Badoglio: "Una visita non è
assolutamente opportuna. Se il Fuhrer vuole, può scrivergli". Il 1
agosto, con un peschereccio, arrivarono a Ponza una cassetta di frutta e
due bauli contenenti abiti e biancheria, inviati da Donna Rachele poiché
dal giorno dell'arresto, il Duce era rimasto con gli abiti che aveva
indosso quando si recò in udienza dal Sovrano. Con i vestiti, la
consorte di Mussolini aveva mandato al marito il libro la "Vita di
Cristo", del canonico Ricciotti, trovato aperto su un tavolo nella sua
stanza a Villa Torlonia, e una busta con dentro una fotografia del
figlio Bruno, una lettera di Edda e diecimila lire. Quale fosse nella
capitale la situazione politica lo si può desumere da quanto si dissero
il conte Volpi di Misurata e il maresciallo Rodolfo Graziani in
occasione di un loro incontro al quale, per qualche minuto, partecipò
anche Dino Grandi che, alla domanda se i firmatari del suo ordine del
giorno avevano ottenuto quello che in effetti si erano prefissi, rispose
secco "No" e, infilata la porta, se ne andò. Rimasti soli, Volpi disse
al Maresciallo: "Caro Graziani, che disastro si prepara: Badoglio è un
testardo ambizioso e non è affatto preparato per un incarico così grave.
Il Re è sempre più perplesso circa le conseguenze di quanto è accaduto.
Sa cosa ha detto a un funzionario di sua fiducia? Ha detto testualmente:
"Temo che abbiamo fatto una corbelleria!". Il riacutizzarsi dei dolori
duodenali, costringeva il Duce a lunghi periodi piegato su se stesso,
seduto sul bordo del letto, in quella stanza dai muri a calce, nella
quale la luce del sole e le voci che giungevano di fuori erano il solo
contatto con il mondo esterno. Rachele, intanto, con un viaggio
inenarrabile, accompagnata dal generale Polito che non perdette
l'occasione per renderle più penoso il lungo trasferimento, raggiunse la
Rocca delle Caminate dove trovò i figli Romano e Anna Maria. "E Gesù
uscì solo, non gli era dappresso neppure un amico ! " . La Messa per
Bruno venne celebrata secondo le intenzioni del padre, ma il Duce non
poté assistervi come avrebbe voluto, perché proprio nella notte fra il 6
e il 7 agosto lasciò Ponza, diretto alla Maddalena. La partenza avvenne
poco dopo la mezzanotte del giorno 6 con un caccia, a bordo del quale
c'erano I'ammiraglio Maugeri e 80 carabinieri di scorta. Il mare grosso,
rese il viaggio da Ponza alla Maddalena, oltremodo penoso. Nonostante lo
sballottamento della nave, però, Mussolini e l'ammiraglio Maugeri, che
fungeva da "accompagnatore", parlarono a lungo della guerra, della
discutibile resa di Pantelleria e di Augusta, dell'invasione della
Sicilia e del funzionamento dello Stato Maggiore, dove i contrasti, tra
gli alti gradi, erano all'ordine del giorno. I rapporti con i tedeschi,
intanto, si trascinavano in un'atmosfera di ambiguità e di diffidenze. A
Tarvisio, il 6 agosto 1943 si riunirono il Ministro degli Esteri
Guariglia, il Capo di S.M. Generale, generale Ambrosio, Von Ribbentrop e
il maresciallo Keitel. Da parte dei tedeschi, lo scopo di quel convegno
era di sondare le intenzioni dei governanti di Roma, mentre per gli
italiani si trattò di un'altra occasione per ingannare I'alleato,
simulando, con frasi di circostanza, la continuazione del conflitto e
l'identità di obiettivi delle due nazioni. In realtà, il ministro
Guariglia aveva già inviato, per via aerea, il 4 e il 5 agosto, a
Lisbona e a Tangeri, suoi emissari per chiedere di trattare con gli
angloamericani. A tali "ambasciatori" segreti, per dimostrare le "buone
intenzioni" dei mandanti, erano state fornite, perché le offrissero al
nemico, precise indicazioni sulla dislocazione delle truppe germaniche
in Italia. Durante la discussione a Tarvisio, i due capi di Stato
Maggiore si urtarono violentemente e Keitel, resosi conto di quanto
stava preparando Ambrosio, interruppe il colloquio e con il suo aiutante
si recò oltre confine per telefonare al Fuhrer e avvertirlo che
occorreva dar corso al piano, già predisposto, per l'invio di altre
truppe nella Penisola perché, disse: "Sono certo che gli italiani sono
già pronti a tradirci" . Quando la nave che portava Mussolini giunse nel
porto della Maddalena, al piroscafo s'accostò un motoscafo con a bordo
l'ammiraglio Brivonesi, comandante della Piazza, il quale prese in
"consegna" Mussolini cui era stata destinata, come residenza, villa
Weber, una costruzione in mezzo a un giardino di pini, sorvegliata da
numerosi carabinieri . IlI Duce, fu autorizzato a tenere un diario cui
diede il titolo di "Pensieri pontini e sardi". Si trattò di due
quaderni, il primo dei quali si apriva con un pensiero dedicato al
figlio Bruno. Diceva: "Oggi i miei pensieri vanno a Bruno. Nelle
circostanze attuali sento ancora più profondamente la sua perdita. Un
anno fa visitai la Maddalena fra l'entusiasmo della popolazione. Chissà,
se oggi vi è qualcuno che ricorda mio figlio e quello che egli ha
compiuto nella sua breve e meravigliosa vita. Venti anni di lavoro sono
stati distrutti in poche ore. Mi rifiuto di credere che non ci siano più
fascisti in Italia. Il Fascismo era un movimento che ha interessato il
mondo e indicato nuove strade. E' impossibile che tutto sia distrutto.
... ". Sistemato nella nuova dimora ebbe il primo pasto: due pomodori e
un po' d' uva, ma quando domandò di poter fare un bagno in mare e gli fu
negato, si rese conto del rigore degli ordini ricevuti dai suoi
"custodi". Il giorno 12, il generale Cerica, comandante dell'Arma, inviò
il tenente Faiola, già comandante della tenenza di Bracciano, con
l'incarico di sorvegliare il prigioniero, in sostituzione del tenente
colonnello Meoli. Ecco come lo stesso ufficiale, in un memoriale che
recava la data del 29 febbraio 1944, raccontò in quale maniera si
svolsero i fatti. "Il giorno 9 agosto 1943 - fui introdotto dal
Comandante generale, Eccellenza Cerica, il quale, personalmente, mi
comunicò di avermi designato quale comandante del distaccamento
carabinieri ed agenti preposti alla vigilanza di villa Weber, nell'isola
della Maddalena, dove era stato condotto il Duce. Accennò, altresì, ai
miei compiti particolari. così sintetizzandoli: nella eventualità di
attacco da parte di malintenzionati o di agenti nemici: difesa ad
oltranza, chiedendo rinforzi al Comando Marina...". In quella stessa
giornata, il tenente Faiola fu anche ricevuto da Badoglio il quale volle
dargli le "sue" istruzioni. Per il "prigioniero" la giornata del 13
agosto fu alquanto agitata: le notizie fornite dal bollettino di guerra
di un pesante bombardamento della Capitale e di Milano, lo indussero ad
un'amara annotazione sul suo diario. Gli avvenimenti si succedevano con
una rapidità impressionante, provocando in tutti gli ambienti
preoccupazioni e sgomento. Un fatto fu particolarmente indicativo dello
sconcerto generale, la lettera, cioè, inviata dalla Medaglia d'Oro
Raffaele Paolucci, celebre chirurgo e affondatore, insieme con Rossetti,
durante la prima guerra mondiale, della corazzata austriaca "Viribus
unitis", a Vittorio Emanuele III, nella quale gli ricordava che il 25
luglio, avvertito da Grandi del colpo di Stato che era in maturazione,
gli aveva scritto raccomandandogli di evitare di nominare Badoglio come
capo del governo. "Ho dovuto constatare - diceva il messaggio - che
Vostra Maestà, pur nolente, sia stata invece costretta dalle circostanze
a subire la volontà dello Stato Maggiore, che, mi hanno detto, fu
espressa in forma anche perentoria. . . Sono molti i pericoli che si
delineano. . . I fuorusciti che ritorneranno in patria, porteranno con
sé l'odio covato per vent'anni; essi non avranno che un desiderio solo:
la vendetta, qualunque prezzo essa possa costare alla patria". E
concludeva: "Di questo passo, di recriminazione in recriminazione, come
non temere che, salendo gradino su gradino, si vorrà arrivare fino al
Trono ?" . Anche la Maddalena, però, come "sito di prigionia", è
diventata insicura; lo fecero presente a Roma, prima il generale Basso,
comandante delle forze della Sardegna, con una lettera al ministro
Sorice, poi il generale della polizia del Comando Supremo, Saverio
Polito, inviato espressamente sull'Isola dal capo della Polizia, Senise.
Dopo tali segnalazioni, Polito, fu incaricato di scegliere un luogo
adatto ma, dopo averlo trovato, sulla via del ritorno a Roma, ebbe un
incidente d'auto che indusse il capo della Polizia Senise a sostituirlo
con l'Ispettore Generale Gueli, definito un "funzionario di eccezionali
qualità professionali" . Anche Gueli, in un memoriale, raccontò le sue
vicissitudini. "Allorché mi convocò, il capo della Polizia mi chiarì che
si trattava di salvaguardare la persona di Mussolini e di impedire, in
tutti i modi, che i tedeschi lo rapissero. In tal caso, bisognava far
fuoco sul prigioniero e fa trovare un cadavere. Risposi che ero un uomo
di battaglia non un assassino e allora lui mi disse che della bisogna
erano stati incaricati i Carabinieri. Badoglio, volle conoscermi e a
presentarmi al Capo del Governo provvide Senise. Il Maresciallo ripeté a
me la consegna già data a Polito e io, come Polito, assicurai che
I'avrei fedelmente e, occorrendo, personalmente eseguita. Nella notte,
trascorsa insonne, però, presi la mia decisione: poiché la sorte, fra
milioni d'ltaliani restati fedeli al Duce, dava a me l'occasione
favorevole, dovevo fare di tutto per salvarlo. L'indomani, mi recai in
Sardegna e constatai che, per clima e per sicurezza Mussolini si trovava
molto male. Se gli inglesi avessero avuto notizia della sua presenza
alla Maddalena, avrebbero potuto facilmente impadronirsene o seppellirlo
sotto le macerie della villa con quattro cannonate delle loro navi".
Compiuto un rapido sopralluogo, rientrato a Roma e manifestate le sue
perplessità circa la sicurezza del sito, Gueli fu spedito in
osservazioni nei pressi dell'Aquila dove, in quel momento, non risultava
che ci fossero truppe tedesche. Fu lui che stabilì, infatti, il
trasferimento al Gran Sasso.

Il giorno di ferragosto, a Bologna, nella villa di proprietà di Luigi
Federzoni, ci fu un ennesimo incontro italo-tedesco, al quale
parteciparono, per l'Italia, i generali Roatta e Francesco Rossi e, per
la Germania, il maresciallo Rommel e il generale Jodl. Durante il
colloquio, assai teso, in risposta a una domanda di Jodl riguardante la
verità a proposito dell'atteggiamento italiano, Roatta rispose
"risentito": "Noi non siamo sassoni, non passiamo al nemico durante la
battaglia". Un accenno storico fuori posto, poiché al nemico c'erano già
passati. La lettera della M.O. Raffaele Paolucci al Re, indusse Vittorio
Emanuele a redigere un promemoria per Badoglio, contenente una serie di
giudizi chiaramente negativi sull'azione di governo del maresciallo. Il
Sovrano insisteva che "non bisognava recriminare sul passato e non si
dovevano escludere gli ex fascisti dalle pubbliche attività." "Ove il
sistema iniziato perdurasse - scrisse fra l'altro - si arriverebbe
all'assurdo di implicitamente giudicare e condannare l'opera stessa del
Re..." Nessuno degli ammonimenti del Sovrano, però, arrivò a segno:
Badoglio compiva imperterrito le proprie vendette, subiva le pressioni
dei rappresentanti dell'antifascismo, decisamente antimonarchici, e
aveva fretta soltanto di concludere l'armistizio per sottrarsi ad
eventuali rappresaglie tedesche. Intanto l'ufficiale incaricato da
Hitler di liberare Mussolini era stato informato che il Duce si trovava
alla Maddalena. Skorzeny con il tenente Warger, che parlava alla
perfezione l'italiano, si recò in Sardegna per studiare la situazione
sul posto. Vestito da marinaio, Warger s'aggirò per le trattorie e i
bar, attaccando discorso con chiunque incontrava. Imbattutosi in un
fruttivendolo ambulante, dopo uno scambio di chiacchiere gli disse: "Io
scommetto che Mussolini è morto!...". E l'altro: "Io, invece, scommetto
che è vivo. ..". Fece una pausa e aggiunse: "Vieni, te lo faccio
vedere..." e lo condusse, infatti nei pressi di Villa Weber: il caso
volle che, in quel momento, il Duce fosse affacciato al balcone. Tornati
a Roma per riferire, Skorzeny e Warger volarono di nuovo in Sardegna per
gli ultimi ritocchi al piano ma mentre in aereo facevano rotta per la
Maddalena due caccia inglesi, abbatterono il loro velivolo. Nella caduta
in mare, Skorzeny perdette conoscenza e si ruppe tre costole, però si
riprese quasi subito e con un battello di gomma, insieme con gli altri
che si trovavano a bordo dell'Heinkel, riuscì a raggiungere uno scoglio,
da cui vennero raccolti da una nave di passaggio. Hitler insisteva
intanto per la liberazione del Duce. Dell'operazione, per la parte
militare, si stava occupando il generale Student, protagonista delle più
clamorose imprese dei paracadutisti tedeschi. Insieme con Skorzeny,
Student si recò a Rastenburg, al Q.G. di Hitler dove, alla presenza di
Goering, Doenitz, Keitel, Ribbentrop, Jodl e Himmler illustrò al Fuhrer
i particolari del piano da attuare alla Maddalena dove, senza ombra di
dubbio, disse Skorzeny, si trovava Mussolini. Hitler ascoltò con
attenzione poi strinse forte la mano all'ufficiale delle "SS" e lo
congedò dicendogli: "Vada, capitano Skorzeny; sono certo che riuscirà
nell'impresa...". L'impresa doveva riuscire, ma non in Sardegna: infatti
nella mattinata del 28 agosto, con un aereo, Mussolini era stato
trasferito altrove. Del compleanno del Duce, il giorno 29 luglio s'era
ricordato soltanto il Fuhrer che, tramite il maresciallo Kesselring,
inviò 24 volumi con le opere complete di Nietzsche, preziosamente
stampati e racchiusi in un cofanetto finemente intarsiato. A Roma,
I'atmosfera politica si faceva sempre più rovente: in un clima di panico
e di viltà, maturò anche l'assassinio dell'ex Segretario del PNF, la
M.O. Ettore Muti, freddato di notte da un sicario della polizia nella
pineta di Fregene, allorché andarono ad arrestarlo con il pretesto di un
complotto contro lo Stato. Il Duce fu trasferito dalla Maddalena
alI'alba del 28 e dopo un'ora e mezzo di volo, I'idrovolante ammarò
all'idroscalo di Vigna di Valle, nel lago di Bracciano. Sul molo,
aspettavano il "prigioniero", il successore di Polito, I'Ispettore di
P.S. Giuseppe Gueli e un maggiore dei Carabinieri. Anche per
quest'ultima tappa fu usata, come già un mese prima circa a Villa
Savoia, un'ambulanza che, frettolosamente, imboccò la strada di Assergi.
A Vigna di Valle, allo sbarco, alcuni soldati dell'"Ariete" che avevano
riconosciuto Mussolini corsero ad avvertire il loro capitano che,
radunati un po' d'uomini, si diresse all'idroscalo con il proposito di
liberarlo. Quando però arrivò, I'ambulanza era già partita. All'Aquila
ci fu una fermata d'obbligo; la macchina si guastò. Un tizio che s'era
avvicinato, visto che si trattava del Duce, gli disse: "Sono un fascista
di Bologna. Hanno cancellato tutto questi manigoldi, ma fatevi animo,
non può durare...". Due giorni prima, il maresciallo Badoglio aveva
recitato ai tedeschi un altro brano della sua ormai logora commedia.
Aveva convocato il generale Enno Von Rintelen, addetto militare tedesco,
e si era mostrato risentito per la sfiducia dimostrata da Berlino verso
il suo Governo e in particolare nei suoi confronti, e, mettendosi la
mano sul cuore, disse: "Da vecchio soldato mai verrò meno alla parola
data!". Dopo una breve sosta ad Assergi, nella villa della contessa Rosa
Mascitelli, appositamente requisita, il Duce, con la funivia, venne
condotto in vetta al Gran Sasso e sistemato nell'albergo di Campo
Imperatore, a quota 2112 metri, sgomberato dai turisti e requisito. Fu
in quella circostanza che uno degli agenti di guardia gli fece sapere
che Muti era stato ucciso, che fuori la confusione era enorme e correva
voce che, prima o poi, sarebbe successo qualcosa di grosso. Le poche
notizie che gli arrivavano, I'isolamento sempre più stretto e l'idea che
Badoglio stesse tramando la sua consegna agli Alleati, rendevano
Mussolini pieno di tristezza e di sconforto. In una lettera alla sorella
Edvige, accennava a questi sentimenti e, particolare interessante, le
comunicava di essersi ormai riaccostato alla religione sin dai giorni di
Ponza. Parlava anche di un suo testamento, redatto nel maggio del 1943,
e precisava che si trovava in una cartella sul suo tavolo a Palazzo
Venezia. "Nato cattolico, apostolico romano - diceva alla sorella - tale
intendo morire. Non voglio funerali e onori funebri di nessuna
specie...". A Roma, per ordine di Hitler, era stato inviato, in
sostituzione di Von Mackensen che si era lasciato sorprendere dagli
avvenimenti del 25 luglio, come incaricato d'affari del Reich, Rudolf
Rahn, il quale aveva già rappresentato diplomaticamente la Germania in
Siria, in Tunisia e in Francia. Il primo incontro di Rahn con Guariglia
fu burrascoso; I'inviato del Fuhrer disse esplicitamente al ministro
degli esteri italiano "So con certezza che state trattando con gli
Alleati. Attenti, però. Se lo farete alle nostre spalle, la rappresaglia
sarà durissima!..." Anche in quell'occasione, come sempre, del resto, il
ministro di Badoglio fece l'impossibile per nascondere la fitta trama di
tradimenti e d'inganni che era in atto e assicurò il suo interlocutore
che l'alleanza era più che mai salda e il destino comune intatto. Anche
il generale Rintelen venne richiamato in Germania e al suo posto, quale
ufficiale di collegamento con il Comando supremo, venne mandato il
generale Toussaint. Molti personaggi del Regime fascista per sottrarsi
all'arresto, dato che il Maresciallo Badoglio chiedeva orami alla
polizia prestazioni tipo "mano nera", s'erano intanto rifugiati oltre
frontiera nella zona dove si trovava il Q.G. di Hitler; fra essi c'erano
Farinacci, Preziosi, Vittorio Mussolini, Pavolini, Orio Ruberti e Renato
Ricci, mentre Ciano Edda e i figli si trovavano a Monaco. Degli anni
folgoranti, testimoniati dalle grandi opere del Regime e dalla conquista
dell'lmpero, non era rimasto più nulla; mai, come in quel periodo, ci si
poté rendere conto che per gli italiani la storia era in genere
contingenza, precarietà e passaggio. L'estate si avviava alla fine e con
l'autunno, s'avvicinava per l'Italia la minaccia di altro sangue e di
altre sventure. C'era dovunque atmosfera di agitazione e di pericolo ma,
ciò nonostante, prima Guariglia, poi Badoglio insistettero con
l'ambasciatore Rahn che nulla, nei rapporti fra Roma e Berlino, era
mutato. Dopo che a Cassibile, anzi, era stato firmato l'armistizio, il
maresciallo, ricevendo l'ambasciatore del Reich, gli disse: "lo sono il
maresciallo Badoglio, uno dei tre più vecchi marescialli d'Europa. Sì,
Mackensen, Petain e io siamo i più vecchi marescialli d 'Europa. La
diffidenza del Reich nei riguardi della mia persona mi riesce
incomprensibile. Ho dato la mia parola e la manterrò. Vi prego di avere
fiducia...". All'uscita dall'udienza, Rahn commentò secco: "Si è
rivelato talmente bugiardo che soltanto un sordo non se ne sarebbe
accorto!". Per Hitler, la liberazione di Mussolini, cui, fra l'altro, si
sentiva legato da sincera e profonda amicizia, fu ritenuta, all'indomani
del colpo di Stato a Roma, un'operazione importante sia dal punto di
vista politico che militare e per questa ragione teneva sul proprio
tavolo una cartella ben in vista, sulla quale di pugno aveva scritto
"Operazione Meyer". Il 6 settembre 1943, a resa già avvenuta e
sottoscritta, ma tenuta ancora segreta per evitare rappresaglie da parte
delle forze germaniche, a Roma si rammentarono dell'esistenza del
"prigioniero" relegato in vetta al Gran Sasso, e Badoglio in persona, in
preda a cupi presagi di sciagure, decise di convocare l'Ispettore di
polizia Giuseppe Gueli, responsabile della "custodia" di Mussolini. A
Gueli, il maresciallo chiese notizie del Duce e domandò, soprattutto, se
non fosse stato il caso di trasferirlo in altro sito dal momento che non
era più un segreto la sua presenza a Campo Imperatore. "Che si trovi
lassù - disse infatti il capo del governo - lo sanno ormai tutti e la
notizia è stata diffusa dai villeggianti costretti a lasciare l'albergo
e a scendere a valle...". Gueli lo rassicurò e il maresciallo non
aggiunse altro; tanto meno modificò o attenuò l'ordine impartito a suo
tempo di far fuoco magari sul prigioniero se qualcuno avesse tentato di
liberarlo e quel "qualcuno", non v'è dubbio, si riferiva soltanto ai
tedeschi. I movimenti delle forze germaniche, specie attorno alla
Capitale, erano tutt'altro che tranquillizzanti e chi mostrò di
preoccuparsene quanto e più, forse, dello stesso Badoglio che vedeva
nemici dappertutto, fu il capo della Polizia Senise il quale decise di
discuterne, al Viminale, con il Ministro delI'lnterno, Umberto Ricci,
per considerare, fra l'altro, I'opportunità, data l'imminenza del
disastro, di annullare l'ordine di "uccidere" Mussolini piuttosto che
lasciarlo fuggire. Sia il Ministro che il capo della Polizia consapevoli
ormai del rapido deteriorarsi della situazione, decisero, di comune
accordo, di telefonare a Gueli e di ordinargli di "regolarsi con
prudenza", che significava, pure se non detto esplicitamente, "accetta
il fatto compiuto ed evita di sparare al prigioniero". Non è improbabile
che in quel momento, preso da una crisi di coscienza, Carmine Senise
abbia anche ricordato ciò che telegrafò a Palazzo Venezia allorché, il
20 novembre del 1940, assunse la carica di capo della P.S. "Vi prometto,
Duce - diceva infatti il messaggio - di servirvi con fedeltà e
rettitudine Vogliate vedere, in questa promessa, la mia profonda
devozione e la riconoscenza infinita che ho per Voi". Per ordine del
Führer, intanto, il generale Student e il capitano Otto Skorzeny, sicuri
della presenza di Mussolini al Gran Sasso, prepararono l'intervento,
consistente in una fulminea azione di parà, compiuta dall'aria mediante
una decina di alianti. Mentre erano in atto i preparativi militari
l'incaricato d'affari tedesco, Rudolf Rahn autorizzato da Ribbentrop,
tentò, in extremis, un passo diplomatico nella speranza di chiarire, una
volta per tutte, i rapporti con il governo italiano, sempre più ambiguo
e sfuggente. Domandò udienza direttamente al Re, deciso a chiedere al
Sovrano quanto ci fosse di vero nelle voci, ormai insistenti, che
l'Italia aveva firmato un armistizio con il nemico oppure si accingeva a
farlo. Anche in quella circostanza, però, Rahn si trovò davanti a un
muro di gomma. Vittorio Emanuele, infatti, ricevette l'ambasciatore del
Reich prima di presiedere il Consiglio della Corona, convocato su
richiesta di Badoglio e sebbene fosse già al corrente che in giornata
sarebbe stato dato l'annuncio delI'armistizio, come la notte prima aveva
comunicato il generale americano Maxwell Taylor durante il suo viaggio
segreto a Roma, disse in tono impegnativo: "L'ltalia non capitolerà mai.
Badoglio è un vecchio e bravo soldato a cui riuscirà certamente di
arrestare, come si deve, la pressione delle sinistre...". E dopo una
pausa, facendo sicuramente forza a se stesso, aggiunse: "Fino alla fine
continueremo la lotta a fianco della Germania con la quale siamo legati
per la vita e per la morte. . . " . Riferite immediatamente a Berlino,
le dichiarazioni di Vittorio Emanuele III, ormai fuori tempo e fuori
luogo, contribuirono a rendere più gelidi i rapporti fra i due Paesi, a
mandare Hitler sulle furie, a convincerlo della necessità di applicare
senza esitazione il famoso piano "Achse", messo a punto per fronteggiare
la ventilata capitolazione delI' Italia e, nel contempo, ad affrettare
l'intervento per la liberazione di Mussolini, sicuro che il maresciallo
Badoglio, per ingraziarseli, non avrebbe esitato a consegnarlo agli
Alleati. Il capo di S.M.G. gen. Ambrosio partì il giorno 6 settembre per
Torino dove aveva da sbrigare alcuni affari privati, e mancò pertanto
l'incontro con il generale Taylor, giunto in gran segreto nella capitale
durante la notte fra il 7 e l'8 settembre per discutere, con le autorità
militari italiane, I'intervento di una divisione aviotrasportata nei
pressi di Roma. Assente il capo di stato maggiore generale, I'ufficiale
americano si intrattenne a lungo con il generale Carboni, il quale,
prospettategli le difficoltà della situazione, insistette perché I '
aerosbarco venisse rimandato o, meglio, annullato. Dopo una lauta cena,
Taylor fu condotto anche a villa Badoglio: il maresciallo, che era già a
letto, lo ricevette in pigiama e si associò a Carboni nel chiedere
l'annullamento dell'operazione poiché, a suo dire, i tedeschi attorno a
Roma erano ormai numerosi e minacciosi. Di suo, Carboni aggiunse che le
forze italiane non avrebbero potuto intervenire perché prive di...
carburante. Anche in quella circostanza fu chiaro che oltre a una totale
mancanza di senso di responsabilità da parte di chi stava ai vertici del
potere, ad ogni livello esisteva una tremenda paura fisica dell'AIleato
tradito. Gli eventi precipitano: gli italiani al bivio II "prigioniero"
Mussolini aveva già raggiunto la nuova sede immersa in un silenzio vasto
e intenso. Sul Gran Sasso, il buio cadeva presto e improvviso
cancellando, come con un colpo di spugna, le vette ridotte a roccia
nuda. Le giornate s'annunciavano tutte uguali anche se l'atteggiamento
degli uomini di guardia dava a supporre che prima o poi qualcosa sarebbe
accaduto. Al Duce, che consumava da solo i pasti, la sera veniva
concesso di ascoltare la radio e talvolta di giocare a carte con i
funzionari addetti alla sua sorveglianza. I bollettini di guerra,
nonostante l'arzigogolo delle frasi, non potevano più nascondere la
gravità della situazione. Ad accentuare comunque l'atmosfera di
precarietà, già abbastanza pesante, concorsero due fatti che al Duce
certamente non sfuggirono; la sistemazione di alcune mitragliatrici a
difesa dell'albergo e una esercitazione a fuoco compiuta dagli agenti di
guardia sulle cime attorno al pianoro di Campo Imperatore. La prigionia
aveva fisicamente trasformato Mussolini e scavato in profondità nel suo
animo. Di intatto aveva soltanto quei suoi occhi che mettevano lo
scompiglio negli interlocutori. Il mattino dell'8 settembre, il tenente
Faiola presentò al Duce un pastore che forniva i latticini per la mensa
del prigioniero e dei guardiani, il quale gli disse: "/ tedeschi sono
già alle porte di Roma. Se il governo non è fuggito, poco ci manca. Noi
della campagna siamo rimasti tutti fascisti; nessuno ci ha dato
fastidio. Parliamo sempre di Voi; ci hanno raccontato che eravate
scappato in Spagna, che vi avevano ucciso, che eravate morto durante
un'operazione in un ospedale di Roma, mentre altri sostenevano che vi
avevano fucilato al Forte Boccea. Quando racconterò a mia moglie che vi
ho visto, dirà che sono matto...". "Mentre il prigioniero discorreva con
il pastore, alto, in cielo, comparve un aereo che si attardò sulla zona.
A bordo c'era Skorzeny con due collaboratori i quali fotografarono il
sito in cui avrebbero dovuto atterrare gli alianti con i parà incaricati
delI'operazione "Meyer". Quando l'ufficiale fece ritorno a Frascati, al
Q.G. di Kesselring, trovò la cittadina distrutta da un massiccio
bombardamento americano, compiuto a conferma, secondo il gen. Taylor che
in giornata sarebbe stato annunciato l'armistizio. Cosa che avvenne,
infatti, nel tardo pomeriggio, dopo un concitato consiglio della Corona,
tenutosi al Quirinale, nel corso del quale nessuno, stranamente, parlò
della difesa di Roma. Poco prima, anzi, che Badoglio si recasse all'Eiar
per leggere il suo "messaggio", il segretario generale del Ministero
degli esteri, ignaro di quanto era accaduto, smentì all'ambasciatore
Rahn le notizie, provenienti da Radio Londra, riguardanti la
capitolazione dell'Italia. A Rastenburg, in Prussia Orientale, dove
aveva il suo Quartier Generale, Hitler era furibondo. A Keitel e a
Ribbentrop, convocati d'urgenza, disse con la voce alterata dall'ira:
"Un re e un maresciallo d'ltalia hanno mentito spudoratamente. Non più
tardi di poche ore fa hanno impegnato la loro parola d'onore sapendo che
era falsa. Un tradimento simile non ha precedenti nella storia dei
popoli. L'Italia è passata al nemico in pieno campo di battaglia!...".
Fu l'inizio di uno dei periodi più oscuri e avvilenti della storia
italiana. I responsabili, terrorizzati, fuggirono; I'Esercito andò in
briciole; I'intera Nazione finì allo sbando. Quando il 10 settembre
mattina parve, per qualche ora, che i tedeschi avessero difficoltà ad
occupare Roma, il capo della polizia Senise, rinfrancato, telefonò a
Campo Imperatore e avvertì l'lspettore Gueli che, da come si mettevano
le cose, era opportuno considerare ancora valida la disposizione
riguardante il "prigioniero", caso mai i tedeschi tentassero di
liberarlo. In altre parole, consegnarglielo ma morto! Secondo la
testimonianza di un sottufficiale dei Carabinieri, il 9 e il 10
settembre furono, per Mussolini, giornate pesanti ed agitate. Ad attimi
di disinteresse, addirittura di assenza da quanto lo circondava,
succedevano momenti di viva preoccupazione e l'ansia gli si leggeva sul
volto. A qualcuno, infatti, disse: "Nella mia disgrazia può ancora
accadermi qualcosa di peggio di quanto fin qui ho sofferto. Purtroppo,
ho l'impressione che, a tradimento, vogliano consegnarmi agli inglesi,
ma gli inglesi non mi avranno vivo...". A questo punto vale la pena di
riportare il promemoria redatto dal tenente Faiola in data 29 febbraio
1944: "La sera del 10 settembre, ascoltando la radio, il Duce apprese
che fra le clausole dell'armistizio era compresa la consegna della sua
persona al nemico. Ne rimase impressionato e, chiamatomi nella notte,
esternò a me, che sapeva reduce dalla prigionia inglese, tutta
l'apprensione che gli causava tale notizia, dicendomi, anche, che
avrebbe preferito darsi la morte piuttosto che subire una simile onta.
Ritenni mio dovere non solo rassicurarlo che nessun ordine al riguardo
era a noi pervenuto ma di promettergli, anzi di giurargli, che, di
fronte a simile eventualità, io lo avrei guidato e protetto in una fuga
attraverso le montagne. Soltanto dopo questo mio così solenne impegno,
egli consentì a coricarsi e potei lasciarlo veramente
tranquillizzato...". In effetti si trattò di una tranquillità alquanto
passeggera poiché spesso durante la notte si alzò, camminò a lungo per
la stanza e accese e spense più volte al luce, a dimostrazione di un
nervosismo che non gli dava pace. Fu in quella circostanza, anzi, che
maturò il proposito del suicidio risoltosi però in un tentativo senza
conseguenze per via dell'immediato intervento dei Carabinieri di
guardia. La confusione a Roma cresceva e, via via, le truppe tedesche,
dilagavano su tutto il territorio italiano. Al Gran Sasso, c'era
atmosfera di incertezza e di attesa. Tutti sapevano, ormai, della fuga
del Governo, della scomparsa della famiglia reale e della disastrosa
situazione del Paese. Nella notte dall'11 al 12, Mussolini scrisse una
lettera al tenente Faiola per avvertirlo che "mai gli inglesi lo
avrebbero avuto vivo". Cosa diceva in quelle poche righe con le quali
annunciava di aver deciso di darsi la morte? Qualcuno, sembra un uomo di
guardia, le ricopiò e, quando le rivelò, giurò che erano state
trascritte fedelmente. "Ore 3 del 12 settembre 1943. Caro Faiola, credo
di avere in voi un buon amico. Sono certo di essere consegnato agli
inglesi da un momento alI'altro. Il fatto che non siano pervenuti ancora
ordini in tal senso, non esclude che possano giungere da un momento
all'altro. Voi siete un soldato e perciò vi rendete conto, ancora meglio
di me, quel che significa cadere in mano al nemico. Non voglio
sottomettermi a tale umiliazione e vi prego quindi di farmi avere una
pistola. Grazie e addio". Nella sua veste di tenente dei Carabinieri,
Faiola non poté accogliere tale richiesta e allora, quasi certamente, in
quel momento, Mussolini decise di svenarsi con una lametta del suo
rasoio di sicurezza. Fra i primi ad accorrere, fu il maresciallo Osvaldo
Antichi ed è suo il racconto di ciò che vide entrando nella stanza del
Duce. "Lo trovai seduto sulla sponda del letto - scrisse - con le
braccia abbandonate e gli occhi sbarrati. Dai polsi, gli scendeva un
rigagnolo di sangue. Sul comodino c'era una lametta da barba e, aperto,
il rasoio Gillette, quello stesso che gli aveva mandato, a Ponza, Donna
Rachele. Erano accorsi altri carabinieri e il tenente Faiola. Con dello
spago gli legai strettissimi gli avambracci per bloccare l'emorragia.
Faiola fece cassetta di pronto soccorso; poi, con una garza, gli
medicammo le ferite". Presso il comando tedesco, intanto, esaminate le
foto aeree scattate da Skorzeny, fu deciso l'intervento con l'uso di
alcuni alianti. Il piano venne sottoposto a Student che, dopo averlo
approvato, ordinò il trasferimento dalla Francia a Pratica di Mare di 12
alianti. Come fosse congegnata l'operazione me lo raccontò il
responsabile militare, il maggiore paracadutista Mors che, finita la
guerra, incontrai a Esslingen, dove viveva da civile, facendo il maestro
di ballo. "A quelI'epoca - disse - comandavo un gruppo di paracadutisti,
nella zona di Frascati; il mio battaglione, faceva parte delle forze che
erano alle dipendenze del generale Student. Alle 15 del giorno 11
settembre del 1943, nella tenda del comandante Harald, nel parco del
collegio Mondragone, squillò a lungo il telefono. Per ordine del
generale dovevo presentarmi al comando. Appena arrivato, Student mi
comunicò che all'indomani mattina, alle sette, avrei dovuto recarmi
nella zona del Gran Sasso per liberare Mussolini. "Con due compagnie -
mi disse il generale - scendete nella vallata di Assergi, e
successivamente, provvedete ad attaccare l'albergo che si trova
appollaiato sui dirupi della vetta. Avete assoluta libertà di
movimento...". Tracciati a grandi linee i presupposti dell'operazione,
toccava a me curarne i particolari, il tempo a disposizione era poco.
Andai all'ufficio informazioni e seppi, fra l'altro, che l'azione era
stata battezzata "Bruno Meyer". Date le asperità della zona, i rischi
erano molti e in particolare per la sua posizione, I'albergo si prestava
ad essere difeso da ogni lato come un vero e proprio fortino. Passai la
notte ad approntare il reparto. Seppi, in quella circostanza,
delI'arrivo a Pratica di Mare di Skorzeny, un ufficiale delle "SS",
addetto al servizio di sicurezza di Hitler, specialista nel risolvere
situazioni ingarbugliate e nel compiere colpi di mano come quello che ci
accingevamo a realizzare. Con Skorzeny, erano arrivati anche una
trentina di soldati delle "Waffen SS" che vennero aggregati al mio
battaglione. Sapevamo che al Gran Sasso erano state disposte sentinelle
con l'ordine di aprire il fuoco contro chiunque avesse tentato di
avvicinarsi all'albergo in cui tenevano rinchiuso Mussolini. Il piano
che preparai era piuttosto semplice: una compagnia, al comando del
tenente Berlepsch, la migliore del reparto, doveva calarsi nei pressi
delI'albergo e, con una azione di sorpresa, liberare il Duce. Altre
forze dovevano invece impadronirsi della funivia mentre il grosso del
battaglione, al mio comando, aveva il compito di occupare la vallata di
Assergi e la stazione...". Su suggerimento di Skorzeny, per evitare
sorprese da parte dei guardiani, fu deciso di aggregare ai paracadutisti
un generale della polizia italiana e la scelta cadde sul generale
Fernando Soleti. "Conclusa l'operazione - proseguì il maggiore Harald
Mors - dovevamo rientrare a Roma. Il tragitto da percorrere per
raggiungere il posto di raccolta si aggirava sui 240 chilometri.
L'ordine era di tener celato il più possibile il movimento. Quando mi
recai da Student per esporgli il piano, il generale in linea di massima
l'approvò ma non fu d'accordo per quanto riguardava il trasferimento di
Mussolini che io volevo portare nella Capitale con una delle mie
macchine blindate". "Vi darò il capitano Gerlach, il mio pilota - disse
il generale - Con una "Cicogna" atterrerà vicino all'albergo e caricherà
il Duce. Il viaggio deve avvenire per via aerea. Fra l'altro, il Fuhrer
vuole vedere al più presto Mussolini e mi ha ordinato di tenere
segretissima la cosa. Per questa ragione, neppure il maresciallo
Kesselring ne è stato informato...". "E il capitano Skorzeny?" -
domandai a Student. "Sarà il vostro consigliere politico. Non dobbiamo
dimenticare che è stato mandato direttamente dal Quartier Generale del
Fuhrer. . . ". "E i suoi uomini?" - domandai ancora. "Sedici del suo
gruppo - rispose il generale - verranno aggregati ai vostri parà...".
Alle 23 e trenta del giorno 11 settembre, al comando di Student e nella
mia tenda si discuteva ancora su chi avrebbe dovuto accompagnare
Mussolini, a bordo dell'aereo di Gerlach. Fu Student che decise per
Skorzeny motivando la sua decisione con il fatto che l'ufficiale delle
"SS" era conosciuto da tutti gli alti personaggi del seguito di Hitler".
La mattina del 12 settembre il cielo sul Gran Sasso era carico di nubi
filacciose e color cenere che impedirono di vedere i velivoli che
giravano sulla zona. Dalla valle, saliva una foschia azzurra che faceva
da schermo all'asprezza delle cime esistenti attorno al pianoro. Verso
mezzogiorno, comunque, uscì il sole e le nubi sparirono. Mussolini,
agitato e nervoso, all'ora della colazione non toccò cibo. A Pratica di
Mare alle 13, nonostante un' ora prima ci fosse stato un bombardamento
aereo, nove velivoli decollarono alla svelta con agganciati altrettanti
alianti, e puntarono verso il Gran Sasso. Nel decollo, due alianti si
danneggiarono e dovettero rinunciare all'impresa. L'atterraggio nel sito
prescelto in base alle fotografie, avvenne in maniera che non è
esagerato definire drammatica; i veleggiatori dovettero compiere infatti
una brusca picchiata al termine della quale ebbero un rude impatto con
il terreno piuttosto accidentato. Nel primo aliante, c'erano Skorzeny e
il generale Soleti che, appena a terra, si diressero di corsa verso
l'albergo. Erano le 14 precise. Mussolini, seduto davanti alla finestra
della sua stanza, con il cuore in gola, assisteva all'operazione. Sul
principio, mentre gli apparecchi si avvicinavano, il Duce ebbe
l'impressione che si trattasse di velivoli inglesi e che si compisse
quanto aveva appreso dalla radio circa la sua sorte. Uno degli alianti
si fermò a pochi metri dall'albergo. Ne scesero cinque uomini in
uniforme caki i quali piazzarono due mitragliatrici, puntate verso
l'edificio. All'interno, fu dato l'allarme e tutti i carabinieri, armi
in pugno, si precipitarono fuori mentre il tenente Faiola irruppe nella
camera di Mussolini e gridò: "Chiudete la finestra e non muovetevi!".
L'ordine non fu naturalmente eseguito e quando il Duce scorse Soleti e
Skorzeny gridò: "Non vedete? C'è un generale italiano. Non sparate!". I
carabinieri non esitarono ad abbassare le armi. Il maggiore Mors dal
basso, con il binocolo vide gli alianti mentre prendevano terra e, dando
un' occhiata al suo orologio, notò che erano le 14 e 17 minuti. In
quell'istante, un ufficiale del Genio gli comunicò che l'operazione era
perfettamente riuscita. "A mia volta - mi raccontò Mors - domandai in
che stato era il prigioniero. Vivo o morto ?". "Vivo!" fu la risposta.
"Stazione del Monte occupata" - mi annunciò un'altra voce. E io
"Resistenza ?". "Nessuna" - ribatté Berlepsch. "Perdite?" - chiesi
ancora. "Nessuna! Mussolini sta preparando le valigie". Salii anch'io in
vetta con la funivia. In pochi passi, raggiunsi l'albergo. Davanti alla
porta di servizio abbaiavano alcuni cani. Gerlach con la sua "Cicogna"
si apprestava ad atterrare. Nello spiazzo, attorno all'albergo, c'erano
gli alianti di Berlepsch. Solo uno era fracassato e nell'urto il pilota
aveva riportato leggere ferite...". Ecco il racconto di Skorzeny. "Dopo
aver intimato a un carabiniere "mani in alto!" mi precipitai all'interno
dell'edificio dove un soldato stava armeggiando intorno alla radio. Con
il calcio della pistola mitragliatrice ruppi l'apparecchio. Imboccate le
scale, salii al primo piano e, a caso, spalancai una porta. Era quella
della stanza del Duce. Con Mussolini c'erano due ufficiali italiani che
il mio aiutante, il tenente Schwerdt, mandò fuori della camera. Intanto,
arrampicatisi lungo il parafulmine, due sottufficiali raggiunsero il
vano della finestra. Scambiai il tenente Faiola per un colonnello e gli
intimai di arrendersi. Faiola non fiatò. Uscì, anzi, e tornò poco dopo
con un bicchiere di vino rosso. Me l'offrì e disse: "Al vincitore!". Il
Duce era sempre in piedi in un angolo della stanza. Mi accostai e gli
dissi: "Duce, il Fuhrer mi ha inviato qui per liberarvi!" lui mi
abbracciò e con la voce rotta dalla commozione ribatté "Sapevo che il
mio amico Adolfo Hitler, non mi avrebbe abbandonato". Disarmammo i
carabinieri, ma agli ufficiali lasciammo la pistola. Cominciammo i
preparativi per la partenza. Carabinieri e paracadutisti, alla meglio,
spianarono il terreno per il decollo...". Nel frattempo, con la
teleferica era arrivato anche il maggiore Mors. "Mussolini - fu il suo
racconto - indossava un cappotto scuro su un abito blu, gualcito e
lucido. In testa portava un cappello con la tesa tirata sugli occhi. Il
suo aspetto, così dimesso e affaticato, mi fece impressione. Era
pallido, aveva l'espressione dell'uomo avvilito e sofferente. Mi
presentai e gli dissi: "Dobbiamo portarvi al più presto al Quartier
Generale del Fuhrer". Mi guardò e mi stese la mano. Ripeté quasi a se
stesso, con una voce che era un soffio. "Sapevo, sapevo che non mi
avrebbe abbandonato!" Scrollò un attimo il capo e aggiunse: "Il mio
rammarico è di essere stato liberato da soldati germanici, anziché da
combattenti italiani". Ci avviammo all'uscita. Sulla soglia,
rivolgendosi ai miei uomini e indicando i carabinieri disse: "Lasciateli
liberi. Non fateli prigionieri. Sono brava gente!" Gli risposi che avrei
fatto come desiderava. Mentre ci dirigevamo all'aereo, coloro che
mezz'ora prima gli facevano da carcerieri, gli si affollarono attorno e
lo salutarono alzando il braccio.. . ". Il pilota Gerlach se ne stava in
disparte e osservava il poco spazio in cui avrebbe dovuto decollare.
Insistette per avere a bordo soltanto il Duce, ma era stabilito che con
lo "Storch" sarebbe partito anche Skorzeny. "È troppo pesante -
insisteva - non me la sento di tentare il decollo". L'intervento di Mors
fu determinante: "Questi sono gli ordini del generale Student. Parti al
più presto!.. . ". Salito sull'aereo, Mussolini si allacciò la cintura e
aspettò che Skorzeny prendesse posto. Un vento impetuoso soffiava verso
la valle, rendendo quasi impossibile la manovra. La pista era
brevissima. Gerlach diede motore al massimo mentre i soldati
trattenevano il velivolo per la coda. A un suo cenno, lo lasciarono.
"Tutti - mi raccontò Mors - seguimmo la corsa della "Cicogna" con il
cuore in gola. A un tratto, sembrò che l'apparecchio s'infilasse
nell'abisso. Corremmo tutti sull'orlo della scarpata, convinti di vedere
l'aereo precipitare a muso all'ingiù e invece lo scorgemmo come sospeso
nelI'aria, quasi immobile, con le sue grandi ali e il carrello, simile
alle zampe di un'enorme farfalla. Pian piano, a fatica, prese quota e
iniziò il volo verso Pratica di Mare". Il 20 settembre del 1943,
ritenendo che Mussolini fosse ormai in mano agli angloamericani, un
impresario teatrale inglese, un certo Stodel, inviò da Città del Capo,
(Sud Africa), il seguente telegramma al generale Eisenhower: "Offro dono
10 mila sterline al fondo di guerra se disponete che Mussolini compaia
personalmente sulle scene dei nostri teatri di Città del Capo. Impegno
per tre settimane...". Il disappunto degli Alleati per il colpo del Gran
Sasso fu enorme. Churchill, alla Camera dei Comuni, nel corso di una
dichiarazione sulla situazione politica e militare disse, a proposito
della liberazione del Duce: "Avevamo ogni ragione di credere che
Mussolini si trovasse in luogo sicuro e ben custodito, ed era certo
nell'interesse del Governo Badoglio di non farselo scappare. Mussolini
stesso, a quel che si dice, avrebbe dichiarato che credeva di venir
consegnato agli Alleati. Questa era I'intenzione e si sarebbe anche
realizzata, se non fossero intervenute circostanze del tutto
indipendenti da noi...Il colpo fu molto audace... Non credo che ci fosse
trascuratezza o malafede da parte del Governo Badoglio il quale, però,
si era tenuto un'altra carta da giocare: i carabinieri di guardia
avevano avuto l'ordine di sparare su Mussolini nel caso si tentasse di
liberarlo, ma vennero meno al loro dovere in vista delle considerevoli
forze tedesche piombate giù dal cielo, le quali li avrebbero
indubbiamente tenuti responsabili della vita di lui e della sua
sicurezza...". Dichiarazioni, queste del Premier britannico dell'epoca,
che non hanno bisogno di commento.

2 commenti:

  1. Pessimo articolo, quasi completamente privo di informazioni rilevanti. Il titolo allude a chissà quali rivelazioni che il lettore si aspetta di conoscere nel giro di qualche decina di righe. Al contrario ci si trova davanti una serie di ultradettagliati eventi che neanche un diario...

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