a cura del prof. Marco Messeri
Prima parte
Le corresponsabilità dei comunisti occidentali: il caso del Pci.
Né Antonio Gramsci né gli altri socialisti italiani filobolscevichi, che nel 1921 fonderanno il Pci, avanzano alcun rimprovero a Lenin per il terrore praticato nei primi anni del regime. Nel 1926, da Mosca, Palmiro Togliatti riprende duramente l'amico Gramsci, che ha osato criticare Stalin per la maniera in cui ha gestito la successione a Lenin al vertice del Pcus. Divenuto segretario del Pci dopo l'arresto di Gramsci, nel 1929 Togliatti abbandona Bukharin, cui è stato vicino, e si allinea sulle posizioni di Stalin. Da quel momento egli stesso e l'intero partito non lesineranno le lodi più menzognere nei confronti di Stalin e dell'Urss staliniana. Togliatti nell'ottobre 1936 su "L'Internationale Communiste" a proposito dei processi di Mosca: "L'Unione sovietica è il paese della democrazia più conseguente"; trotskisti e zinovevisti mirano alla "restaurazione del capitalismo" passando "da un'opposizione in seno al partito e contro il partito fino all'ultima tappa, all'avanguardia della controrivoluzione e del fascismo"; "Coloro che hanno smascherato e annientato i banditi terroristi si sono resi benemeriti di fronte all'umanità intera"; "Il processo di Mosca è stato un atto di difesa della democrazia, della pace, del socialismo, della rivoluzione"; coloro che hanno chiesto garanzie giuridiche per gli imputati "si sono addossati il peso di una missione poco onorevole". La risoluzione del Pci pubblicata su "Lo Stato Operaio" del marzo 1938, relativa ai processi di Mosca, si conclude con un entusiasta: "Viva il continuatore dell'opera di Feliks Dzerszhinskij, Nicola Ezhov!". I processi di Mosca verranno difesi del resto fino al 1956. Lo storico Gastone Manacorda nel 1948: "Non certo l'Unione Sovietica ha da arrossire [...] per aver saputo tempestivamente scoprire e stroncare la quinta colonna che i nazisti alleati col trotzkismo andavano organizzando nell'interno del paese, penetrando fino nei gangli più vitali dello Stato, dell'esercito, dello stesso partito bolscevico. Sembra incredibile che ancora possa avere qualche successo il mito di questi processi, quando ormai il carattere di quinta colonna nazista della congiura bukhariniano-trotzkista è larghissimamente documentato da fonti non sospette".
Ma nelle repressioni staliniane Togliatti assume anche una parte attiva. Nel 1936 sovrintende l'operazione (fallita) volta a catturare ed eliminare Trotskij appena riparato in Messico. In Spagna come responsabile dell'Internazionale comunista, asseconda la campagna di sterminio dei trotzkisti e degli anarchici. Nel 1937 è coinvolto nell'eliminazione di Andrés Nin, capo dei comunisti antistalinisti spagnoli. Nella primavera 1938 prende parte alla riunione del Presidium del Comintern che condanna Bela Kun. Nell'agosto 1938 viene richiamato a Mosca per apporre la sua firma sul decreto di scioglimento del Pc polacco, che apre la via all'eliminazione fisica di tutti i maggiori dirigenti di questo. Durante la guerra, al comunista Bianco che gli chiede di intervenire a favore dei prigionieri italiani in Russia (circa 100 mila: ne torneranno solo 13 mila), risponde nel febbraio 1943: "La nostra posizione di principio rispetto agli eserciti che hanno invaso l'Unione sovietica, è stata definita da Stalin, e non vi è più niente da dire. Nella pratica, però, se un buon numero di prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire. [...] Non c'è dubbio che il popolo italiano è stato avvelenato dalla ideologia imperialista e brigantesca del fascismo. [...] Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini, e soprattutto la spedizione contro la Russia, si concludano con una tragedia, è il più efficace degli antidoti. [...] T'ho già detto: io non sostengo affatto che i prigionieri si debbano sopprimere, tanto più che possiamo servircene per ottenere certi risultati in un altro modo; ma nelle durezze oggettive che possono provocare la fine di molti di loro, non riesco a vedere altro che la concreta espressione di quella giustizia che il vecchio Hegel diceva essere immanente in tutta la storia".
Ministro nei governi di unità nazionale durante la liberazione, Togliatti chiede la censura per le pubblicazioni antisovietiche. Egli, di persona o per mezzo di altri esponenti comunisti nel governo, riferisce quotidianamente all'ambasciatore sovietico le attività che si svolgono entro il governo e i ministeri italiani. Nel febbraio 1948 ispira l'editoriale de "L'Unità" La vittoria di Praga, che definisce l'illegale presa del potere da parte dei comunisti cecoslovacchi come una mossa preventiva volta a sventare un colpo di stato americano (mentre il matematico e dirigente comunista Lucio Lombardo Radice precisa: "E' assurdo voler porre il problema dell'indipendenza nazionale nei confronti dell'Urss allo stesso modo in cui lo si pone nei confronti dei paesi imperialisti. Non può esistere timore, sospetto di oppressione nazionale del paese del socialismo a danno di altri popoli").
Nel dopoguerra cominciano ad affiorare sulla stampa indipendente le denunce dello stalinismo e Togliatti è in prima linea nel rifiutarle e ridicolizzarle. Nel 1950 attacca sprezzantemente "i sei che sono falliti", gli ex-comunisti Silone, Gide, Koestler, Wright, Spender e Fisher, coautori del volume di denuncia dello stalinismo Il Dio che è fallito, appena tradotto in Italia da Comunità. Ancora nel 1950 su 1984 di Orwell: "E' una buffonata informe e noiosa, giudicabile semmai come strumento di lotta che uno spione ha voluto aggiungere al suo arsenale anticomunistico"; "C'è tutto, come si vede; ci sono, principalmente, tutte le bassezze e le volgarità che l'anticomunismo vorrebbe far entrare nella convinzione degli uomini. Mancano solo, ci pare, i campi di concentramento, perché per sua sventura l'autore è scomparso prima che questa campagna venisse lanciata. Altrimenti ci sarebbe, senza dubbio, un capitolo in più"; "Il tutto, come si vede, è primitivo, infantile, logicamente non giustificato". Nel 1950: "Al sentire Gide, di fronte al problema dei rapporti fra i partiti e le classi, dare tutto per risolto identificando l'assenza di partiti d'opposizione, in una società senza classi, con la tirannide e relativo terrorismo, vien voglia di invitarlo ad occuparsi di pederastia, dov'è specialista, ma lasciar queste cose, dove non ne capisce proprio niente". Nel 1951: "Silone [...] è un poco di buono [...]. Quando Silone se ne andò, anzi fu messo fuori dalle nostre file (per conto suo ci sarebbe rimasto, a dir bugie e tessere l'intrigo), l'avvenimento contò. Silone ci aiutò, in sostanza, non solo a approfondire e veder meglio, discutendo e lottando, parecchie cose; ma anche a riconoscere un tipo umano, determinate, singolari forme di ipocrisia, di slealtà di fronte ai fatti e agli uomini". La Russia comunista è dipinta come un paradiso. Nel 1951: "Noi facciamo uno sbaglio, di solito, quando parliamo della Russia. Ci lasciamo alle volte abbagliare troppo dagli aspetti immediati del progresso economico e sociale e ad essi ci fermiamo. Sono progressi enormi, che hanno trasformato una società e ora incominciano a trasformare anche gli aspetti delle cose naturali. Non esiste un regime che abbia fatto e sia capace di fare altrettanto. Vorrei dire, però, che anche se il progresso materiale fosse stato minore, o rivelasse lacune, decisiva è stata ed è la trasformazione dell'uomo. Quel dirigente della organizzazione della produzione, dello Stato, del partito, che ti accoglie alla frontiera, nella sede cittadina, nel reparto di fabbrica, nella redazione, nella clinica, nella scuola, sui campi, che, anche se vecchio d'anni, è giovanile, sicuro di sé, sereno, pieno di slancio, padrone del suo lavoro fino all'ultimo particolare locale e fino alla nozione esatta del posto che quel particolare ha nel quadro della vita nazionale, attento ai bisogni e all'animo degli uomini che lo circondano, spronato da uno spirito critico sempre sveglio e persino esasperato, disinteressato personalmente ma non privo di vita personale libera e molteplice - questo è un uomo nuovo ed è la vera sostanziale conquista del regime comunista". Togliatti plaude anche alle ultime campagne staliniane di repressione. Nel 1952: "Slansky ed i suoi sono stati sorpresi mentre operavano sul terreno della congiura politico-militare, per tentare il colpo di stato controrivoluzionario. Così come avevano tentato Trotskij e i suoi".
Nel Comitato centrale del 13 marzo 1956, di ritorno dal XX Congresso del Pcus, in cui Kruscev ha per la prima volta denunciato i crimini dello stalinismo, Togliatti rilancia l'idea delle diverse "vie nazionali al socialismo", si richiama a Gramsci e al modo in cui il Pci ha "utilizzato il parlamento" a differenza del Pc greco, ma accenna solo elusivamente ad "errori" di Stalin, mentre l'unico a domandare spiegazioni, in particolare riferimento a Bela Kun e all'epurazione del Pc polacco, è Umberto Terracini. Quando nel marzo 1956 il "New York Times" dà notizia del rapporto segreto di Kruscev, Togliatti parla in privato di "chiacchiere senza importanza". Nell'intervista a "Nuovi Argomenti" del maggio 1956 dichiara non distrutti "quei fondamentali lineamenti della società sovietica, da cui deriva il suo carattere democratico e socialista e che rendono questa società superiore, per la sua qualità, alle moderne società capitalistiche"; parla soprattutto di "errori" di Stalin; polemizza contro gli "alfieri dell'anticomunismo", "calunniatori ufficiali"; dichiara compito del Pcus riportare il paese "a una normale vita democratica, secondo il modello che era stato stabilito da Lenin nei primi anni della rivoluzione" (negli stessi giorni in cui l'insigne latinista e dirigente del Pci Concetto Marchesi fa l'apologia dello stalinismo, definendo il XX Congresso un "fragoroso confessionale di domestici peccati" e alludendo sprezzantemente alla rozzezza intellettuale di Kruscev). Togliatti è con i sovietici nella repressione dei moti polacchi e ungheresi. Nel luglio 1956 scrive che le file dei rivoltosi di Poznan sono composte "esclusivamente di elementi della malavita" (quando il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio ha già ammesso che il moto in Polonia deriva da "un malcontento diffuso e profondo nella massa degli operai"). Nell'ottobre 1956 preme addirittura sui dirigenti sovietici titubanti perché intervengano in Ungheria, e, una volta che questi si sono decisi, approva pubblicamente la repressione della rivolta di Budapest, respingendo gli attacchi della stampa borghese (mentre in privato giunge a brindare all'intervento sovietico). In quei giorni l'intellettuale e dirigente comunista Mario Alicata: "in questo momento l'esercito sovietico sta difendendo l'indipendenza dell'Ungheria". Al XXII congresso del Pcus del novembre 1961, Kruscev riprende e approfondisce la denuncia dello stalinismo. Dall'Italia Togliatti commenta le sue parole. Ammette le "tragiche violazioni della legalità socialista", riferendosi (solo) alla condanna di comunisti assolutamente innocenti durante le purghe, ma le imputa a "errori del passato collegati al culto della persona di Stalin", all'"annullamento di ogni carattere collegiale della direzione", all'"accentramento nella persona di Stalin non solo della direzione politica, ma della stessa possibilità dell'elaborazione teorica". E parla di "contraddizioni sempre più acute tra la sostanza e le basi fondamentalmente democratiche della società nuova, fondata su di un'economia socialista e sul potere dei soviet da una parte, e dall'altra una direzione per molti aspetti autoritaria e coercitiva", nonché di "lotta giusta e motivata contro le opposizioni trotskiste e di destra". Ascrive a merito del regime la "trasformazione sociale delle campagne, sia pure attuata con eccessiva fretta e con errori" (i milioni di contadini morti); e conclude: "Gli errori e le deformazioni, per quanto gravi, non hanno compromesso e intaccato le basi e la sostanza profondamente democratica della società socialista". Nel 1964 ha parte attiva nel complotto che porta alla destituzione di Kruscev.
Tutto il partito - compresi importanti intellettuali - si è abbandonato al culto della personalità di Stalin. Il 6 marzo 1953, il giorno dopo l'annuncio della morte di Stalin, "L'Unità" diretta da Pietro Ingrao titola E' morto l'uomo che più ha fatto per la liberazione del genere umano. Lucio Lombardo Radice nel 1947: "Le vite come quella di Stalin, come già quella di Lenin, sono il primo esempio di una condizione umana più elevata, di un'umanità che domina le condizioni esterne invece di esserne dominata: le vite di uomini liberi e liberatori". Nel 1948: "Marxista creatore, Stalin non è soltanto uno studioso di genio che analizza i problemi storico-politici alla luce dei principi del marxismo; è questo, sì, ma è anche e soprattutto il grande rivoluzionario, il grande costruttore, che analizza i rapporti per trasformarli, che studia i problemi per risolverli praticamente". Nel 1950: "Non solo gli scienziati marxisti, ma tutti gli studiosi serii e onesti hanno unanimemente reso omaggio alla profondità e all'importanza dei giudizi e delle definizioni di Stalin relativi alla linguistica, al suo carattere, alla sua evoluzione". Nel 1952: "Millenovecentoventiquattro: l'anno della morte di Lenin, l'anno di difficoltà economiche e di aspre lotte all'interno del Partito. Preoccupazione costante di Stalin in questo anno, come sempre, è lo sviluppo democratico del Partito". Nell'aprile 1956, dopo la divulgazione del rapporto Kruscev: "Dirò che anche per me, intellettuale e "vecchio" militante comunista, si pongono molti nuovi e difficili problemi. Nessun "rimorso", ho detto, anzi orgoglio per aver tenacemente in questi venti anni difeso ed esaltato l'Urss e con essa il compagno Stalin, non solo perché egli in quel periodo la rappresentava di fronte al mondo, ma anche per il suo grande contributo personale, che un esame critico dei suoi errori e sue colpe non annulla"; "continuo a considerare Stalin un classico del marxismo, uno dei più grandi pensatori e rivoluzionari della nostra epoca". Anche i linguisti Giacomo Devoto e Tullio De Mauro ritengono opportuno citare gli insegnamenti di Stalin nel campo della linguistica. Lo storico Gastone Manacorda nel 1948, a dieci anni dalla pubblicazione del Breve corso (la Storia del Partito comunista dell'Unione sovietica, in cui Stalin codifica il marxismo e dell'Urss presenta una storia incredibilmente deformata), lo celebra su "L'Unità" con l'articolo Nel decimo anniversario di un grande libro. Valentino Gerratana nel 1951: "Viene così sfatata la leggenda piuttosto diffusa, e tuttora difesa come vangelo dalla pubblicistica reazionaria, secondo cui nei primi anni del potere sovietico, fino alla morte di Lenin, Stalin avrebbe avuto una parte di secondo piano rispetto a quella, ad esempio, di un Trotskij. Certo Trotskij conosceva assai bene l'arte borghese di mettersi in mostra, ma la verità è che, ancor prima di smascherarsi definitivamente, già nei primi anni di esistenza dello stato sovietico, tutta la sua attività era rivolta a sabotare la rivoluzione, a tradirne le conquiste, a liquidarne al più presto i risultati. Ed e merito di Stalin aver saputo riconoscere fin dall'inizio i piani di Trotskij, intervenendo energicamente per neutralizzarli e farli fallire". Concetto Marchesi nel 1953: "L'opera di Stalin è opera liberatoria da qualunque oppressione: da quella che fa l'uomo schiavo della fame e della fatica a quella che lo fa strumento e oggetto di rovina. Ciò che è avvenuto in Russia per opera sua avverrà in tutto il mondo". Il critico d'arte Antonello Trombadori nell'agosto 1956, dopo le denunce kruscioviane: "Lenin e di Stalin, due uomini diversi, due diverse figure, ma l'una e l'altra indissolubilmente, organicamente inserite nella trasformazione rivoluzionaria del vecchio, decrepito impero russo in quella fucina di problemi moderni, avanzati, contraddittori, liberatori di masse sterminate, che è l'attuale Unione Sovietica". La venerazione ufficiale si estende peraltro ai più biechi collaboratori di Stalin. Nel 1948, morto Zdanov, coordinatore del Cominform e zelante esecutore della politica staliniana nei confronti degli intellettuali, il pittore Renato Guttuso lo commemora come "uno degli uomini migliori del mondo". Ma anche il poeta cileno Pablo Neruda segue commosso i funerali di Vishinskij, il pubblico accusatore dei processi-spettacolo staliniani: "La luce di Vishinskij ritorna nelle viscere della madre patria sovietica". Il culto della personalità travalica del resto gli stretti confini del partito. In occasione della morte di Stalin, il discorso più commosso al Parlamento italiano è pronunciato da Sandro Pertini, che si definisce "umile e piccolo uomo davanti a tanta grandezza, a una simile pietra miliare sul cammino dell'umanità": "si resta stupiti per la grandezza di questa figura che la morte pone nella sua giusta luce. Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l'immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto".
Il mito dell'Unione sovietica è stato coltivato sistematicamente ben oltre la morte di Stalin. Nel 1946 il Pci diffonde l'opuscolo ad uso dei militanti Russia, paese libero, pacifico e felice. Lucio Lombardo Radice nel 1949: "Per la prima volta nella storia dell'umanità lo sviluppo della società avviene non più per il giuoco cieco di leggi elementari, molecolari, non più attraverso il contrasto di classi in lotta, ma in forma pienamente consapevole, davvero umana". Mario Alicata nel 1952 dichiara che in Urss "l'uomo è più libero che in tutti i paesi del mondo" e che "questo è il primo paese della storia del mondo in cui tutti gli uomini siano finalmente liberi". Lo storico Giuseppe Boffa nel 1957: "Questo è il paese dove più avanti è stata portata la causa della liberazione sociale, con lo sprigionamento di un immenso potenziale di autentica libertà". Ancora nel dicembre 1981 Giancarlo Pajetta dice che "la crisi del mondo capitalistico non ha eguali e non è reversibile" mentre il socialismo, benché drammaticamente imperfetto, è "qualcosa di perfettibile".
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OCCIDENTE: LA CORRESPONSABILITA' DEI PARTITI COMUNISTI E DEGLI INTELLETTUALI DI SINISTRA
a cura del prof. Marco Messeri
Seconda Parte
Gli intellettuali apologeti dello stalinismo.
L'esaltazione di Stalin, dell'Urss e del terrore comunista non sono rintracciabili solo presso gli intellettuali italiani. Già nel 1919 lo storico della rivoluzione francese Albert Mathiez giustifica il terrore ed esalta Lenin paragonandolo a Robespierre. E nel 1931 il poeta francese Louis Aragon in Prélude au temps des cerises: "Canto la Ghepeù che si forma / In Francia adesso. / Canto la Ghepeù necessaria di Francia. / Canto la Ghepeù di nessuno e dappertutto. / Chiedo una Ghepeù per preparare la fine di un mondo. / ... / Viva la Ghepeù contro il papa e i pidocchi. / Viva la Ghepeù contro la sottomissione alle banche. / Viva la Ghepeù contro le manovre dell'est. / Viva la Ghepeù contro la famiglia. / Viva la Ghepeù contro le leggi scellerate. / Viva la Ghepeù contro gli assassini tipo / Caballero Boncour MacDonald Zoergibel. / Viva la Ghepeù contro tutti i nemici del proletariato. / VIVA LA GHEPEÙ". Il romanziere americano Upton Sinclair scrive a proposito della collettivizzazione: "Buttano fuori i contadini ricchi dalla terra e li mandano a lavorare, in gran numero, nei depositi di legname e nelle ferrovie"; costerà "un milione di vite, forse cinque milioni", ma "non c'è mai stato nella storia umana un qualche grande cambiamento sociale senza che ci fossero dei morti. La Rivoluzione francese è costata milioni di morti". Dopo l'assassinio di Kirov (dicembre 1934), lo scrittore Maksim Gorkij lancia un appello a "sterminare il nemico senza pietà né misericordia", avallando in questo modo le purghe staliniane. Il filosofo Maurice Merleau-Ponty, che nel 1950 si sarebbe allontanato dallo stalinismo, in Umanesimo e terrore (1947), polemizzando con Koestler, giustifica ancora il Grande terrore come premessa necessaria per la costruzione di "una nuova società nel segno del proletariato". Ma è Bertolt Brecht, autore tra l'altro anche di una Lode del Partito e di una Lode dell'Urss, che sa esprimere al meglio l'atteggiamento degli intellettuali che difendono il terrore comunista. Lode del comunismo (1933): "Gli sfruttatori lo chiamano delitto. / Ma noi sappiamo: / E' la fine dei delitti". A coloro che verranno (1938): "Voi che sarete emersi dai gorghi / Dove fummo travolti / Pensate / Quando parlate delle nostre debolezze / Anche ai tempi bui / Cui voi siete scampati. / Andammo noi, piú spesso cambiando paese che scarpe, / Attraverso le guerre di classe, disperati / Quando solo ingiustizia c'era, e nessuna rivolta. / Eppure lo sappiamo: / Anche l'odio contro la bassezza / Stravolge il viso. / Anche l'ira per l'ingiustizia / Fa roca la voce. Oh, noi / Che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, / noi non si poté essere gentili. / Ma voi, quando sarà venuta l'ora / Che all'uomo un aiuto sia l'uomo, / Pensate a noi / Con indulgenza". Nel marzo 1953: "Gli oppressi di tutti e cinque i continenti devono avere provato una stretta al cuore alla notizia della morte di Stalin. Egli era l'incarnazione delle loro speranze". Nel giugno 1953, in occasione della rivolta operaia repressa dai carri armati sovietici, Brecht scrive a Ulbricht per rinnovargli la manifestazione del suo attaccamento al regime. In quei giorni, dopo avere citato l'insoddisfazione di parte dei lavoratori berlinesi, dichiara: "Elementi fascisti organizzati hanno cercato di sfruttare questa insoddisfazione per i loro sanguinari propositi. Per diverse ore Berlino è stata sull'orlo di una terza guerra mondiale. Soltanto grazie al rapido e puntuale intervento delle truppe sovietiche questo tentativo è stato vanificato. E ovvio che l'intervento delle truppe sovietiche non era diretto in alcun modo contro le dimostrazioni dei lavoratori. E' evidente che era diretto esclusivamente contro il tentativo di provocare un nuovo olocausto"; "una marmaglia fascista e guerrafondaia", composta "di giovani diseredati di ogni risma", aveva invaso Berlino Est e soltanto l'esercito sovietico aveva impedito una nuova guerra mondiale. E il filosofo György Lukacs, ancora nell'intervista alla "New Left Review" del luglio-agosto 1971, sentenzia: "Il peggiore dei regimi comunisti è meglio del migliore dei regimi capitalisti".
Un posto a parte hanno le testimonianze degli intellettuali sulle condizioni di vita sovietiche (frutto di itinerari turistici sapientemente pianificati dal governo comunista). Nel 1928 Maksim Gorkij, vecchio simpatizzante bolscevico, deluso dei primi anni del regime sovietico ed esule in Occidente, accetta di visitare le isole Solovetskie, primo nucleo del Gulag, e le descrive in un libro assai elogiativo. Non è che il primo dei viaggi compiuti in Russia dai "compagni di strada". Il commediografo inglese George Bernard Shaw visita l'Urss nel 1931: ammira il realismo di Stalin, che a suo avviso corregge le utopie internazionalistiche di Lenin. Dichiara: "il socialismo della Russia è socialismo fabiano". Testimonia che l'Urss del 1930 non ha alcun problema alimentare e dice delle prigioni: "In Inghilterra un delinquente entra come un uomo normale e ne esce come "un tipo criminale", mentre in Russia egli entra come un tipo criminale e ne verrebbe fuori come un uomo ordinario, se lo si convincesse a venir fuori del tutto. Ma per quanto ho potuto capire loro potevano star dentro quanto tempo volevano". Si rifiuta di condannare la repressione staliniana: "Non possiamo permetterci di abbandonarci ad atteggiamenti morali quando il nostro vicino più intraprendente umanamente e coscienziosamente sta liquidando un manipolo di sfruttatori e di speculatori in modo che il mondo sia più pulito per l'uomo onesto"; "Stalin ha mantenuto le promesse fino a un livello che sembrava impossibile dieci anni fa; ed io, di conseguenza, mi tolgo il cappello davanti a lui". L'ex-presidente del consiglio francese Édouard Herriot visita l'Ucraina nel 1932 e non trova traccia di carestia. L'ascoltato giornalista della destra tedesca Ernst Niekisch visita l'Urss nel 1932 e torna impressionato dalle realizzazioni del piano quinquennale. I coniugi Webb, teorici del riformismo laburista, esaltano l'Urss già nel 1931, vedendovi la realizzazione di un socialismo tecnocratico. Visitano insieme l'Urss nel 1932 e Sidney vi tornerà da solo nel 1934. Il loro resoconto di viaggio si intitola Comunismo sovietico: una nuova civiltà? nella prima edizione del 1935 e Comunismo sovietico: una nuova civiltà (senza interrogativo) nella seconda del 1937. Definiscono "evidentemente libero da ogni forma di atrocità fisica" il sistema penale sovietico. Visitato anche il cantiere del canale del Mar Bianco, gestito dalla polizia politica, esaltano la capacità di redenzione del lavoro là svolto dai deportati, che, dicono, "facevano a gara" tra loro, coinvolti nell'"emulazione socialista"; sostengono che "questa partecipazione appassionata equivaleva a riconoscere ufficialmente la capacità dell'Ogpu non soltanto nel realizzare una grandiosa opera di ingegneria, ma soprattutto nell'ottenere una vittoria nel campo della rieducazione umana". Affermano: "Stalin non è un dittatore, ma un rappresentante al Soviet supremo dell'Urss regolarmente eletto in un collegio elettorale di Mosca". Non sono peraltro i soli laburisti inglesi ad ammirare Stalin: anche il teorico Harold Laski nel 1935, dopo un viaggio nell'Urss, giudica la prigione sovietica "infinitamente più avanzata" dell'inglese; e lo storico del socialismo G.H.D.Cole: "E' molto meglio essere governati da Stalin che da un gruppo di scemi e apatici socialdemocratici". Il romanziere Herbert Wells incontra Stalin nel 1934. Tornato in Inghilterra, riconosce la mancanza di libertà esistente nell'Urss, ma afferma che essa è giustificata dallo sforzo della creazione di una società razionale. Nel 1935 anche il filosofo di Cambridge Ludwig Wittgenstein visita l'Urss e per alcuni anni coltiva l'idea di trasferirvisi, convinto che essa rappresenti un'alternativa valida alla decadenza dell'Occidente. Lo impressiona l'assenza di disoccupazione. Dice: "La tirannia non mi indigna". Non mutano il suo atteggiamento né i processi di Mosca né il patto Stalin-Hitler. Vorrebbe vivere nell'Urss di Stalin, oppure nell'Italia di Mussolini, che gli paiono "paesi austeri". Nei primi anni '30 l'economista John Maynard Keynes studia l'agricoltura sovietica, ma non si accorge della carestia che la sta travolgendo. Dei processi pensa che siano sostanzialmente corretti e che sventino un tentativo rivoluzionario contro Stalin. L'industriale elettrico e petroliere francese Ernest Mercier visita l'Urss nel 1935 e torna entusiasta dei risultati del piano quinquennale. Anche lo scrittore pacifista Romain Rolland la visita nel 1935 e ne riporta un'impressione molto positiva. Nel 1936, a sua volta, l'ambasciatore americano Joseph Davis esalta il "liberalismo" della nuova costituzione sovietica. I riconoscimenti americani vengono anche da cariche più elevate. Nel 1944 sono nell'Urss il vicepresidente Henry Wallace e il democratico Owen Lattimore, professore alla John Hopkins. Visitano il campo di lavoro di Madagan a Kolyma, che per la durata della loro permanenza viene trasformato in campo modello senza torri di guardia e filo spinato, tanto che essi ne possono fare una descrizione idilliaca. Invece, gli italiani non comunisti, ovviamente, visitano l'Urss solo dopo la guerra. Nel 1950, la "diretta esperienza" di viaggio permette allo storico della letteratura Luigi Russo di testimoniare che "nessun altro popolo come i popoli sovietici è tanto geloso della propria libertà".
Esemplare anche la vicenda del filosofo e scrittore Jean-Paul Sartre. Nel 1947 rompe con Raymond Aron, nel 1948 con Arthur Koestler, nel 1951 con Maurice Merleau-Ponty, perché non accetta di seguire gli ex amici nella condanna dello stalinismo. Dopo un lungo periodo di polemiche col Pc francese, che ha raggiunto il culmine all'epoca di Le mani sporche, nel 1952 si riavvicina al partito e lo difende dalle accuse di dogmatismo dell'intellettuale comunista Pierre Hervé. Nel 1951-52 Sartre rompe anche con Albert Camus, a causa di L'uomo in rivolta, nel quale legge un attacco allo stalinismo. Rifiuta di pronunciarsi nelle polemiche sui campi di concentramento sovietici ("Non essendo noi membri del Partito né simpatizzanti dichiarati, non era nostro dovere pronunciarsi sui campi di lavoro sovietici") e sull'affare Slansky. Nel 1952 partecipa alla conferenza del movimento per la pace organizzata dai comunisti a Vienna, dichiarando, in modo evidentemente menzognero, che i tre più importanti eventi della sua vita sono stati il Fronte popolare del 1936, la Liberazione e "il presente congresso". Nel 1954, dopo un viaggio in Russia, in una serie di articoli per "Libération": "In Urss la libertà di critica è totale"; "I cittadini sovietici criticano il loro governo molto più apertamente e in modo più efficace di quanto non facciamo noi"; "La condizione dei cittadini sovietici è in costante miglioramento in una società che continua a progredire"; essi sono "ammirevolmente nutriti ed alloggiati", e che non si recano all'estero non perché il governo lo impedisca, ma perché non hanno alcun desiderio di farlo; "Il cittadino sovietico vive in un sistema competitivo a tutti i livelli, ma l'interesse del singolo e quello della collettività gli appaiono coincidenti"; "Oggi, nell'Urss, l'emancipazione delle donne è totale"; "L'appartenenza alla classe dirigente, qui, non è una sine cura, perché essa è sottoposta alla critica permanente di tutti i cittadini"; "L'Urss marcia verso il futuro". Rifiuta di accettare il rapporto segreto di Kruscev "per non togliere la speranza a Billancourt", cioè agli operai comunisti. Dichiara nel 1956: "Io, come voi, trovo inammissibile l'esistenza di quei campi di concentramento, ma è altrettanto inammissibile l'uso giornaliero che ne fa la stampa borghese". Lamenta che la denuncia sia stata compiuta da Kruscev "senza spiegazioni, senza analisi storica, senza prudenza".
L'antifascismo spesso induce anche i non comunisti a guardare con simpatia a Stalin e all'Urss. Nel giugno 1935, Willi Münzenberg, l'abile propagandista del Comintern, organizza a Parigi in chiave antifascista un "Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura". Vi partecipano nomi eccellenti della cultura progressista europea: Alain, Rolland, Barbusse, Aragon, Malraux, Gide, H.Mann, Brecht, Erenburg, A.Tolstoj. Il comunismo viene proclamato maggiore alleato dell'antifascismo. Ma Gaetano Salvemini è accolto con freddezza quando denuncia il caso di Victor Serge, perseguitato in Russia per le sue idee libertarie. Nella Cambridge della metà degli anni '30 i sovietici possono reclutare come spie alcuni studenti (il "ring of five": Anthony Blunt, Guy Burgess, David Maclean, John Cairncross e Kim Philby, tutti destinati a occupare ruoli di grande responsabilità nei ministeri e nei servizi segreti inglesi) che vedono nell'Urss il "baluardo contro il fascismo". Anche i progressisti italiani non comunisti si lasciano affascinare dall'Urss. Nel 1936 il giurista democratico Silvio Trentin, esponente di Giustizia e Libertà, esalta la nuova costituzione sovietica e dichiara che il terrore in Russia è ormai una pagina chiusa. Dopo la guerra, il filosofo Norberto Bobbio, in Politica e cultura (1955), pur sostenendo che il socialismo deve creare "nuove forme di libertà" senza abolire le antiche, ai paesi socialisti attribuisce il merito di avere "effettivamente iniziato una nuova fase di progresso civile, di democrazia sostanziale con la collettivizzazione degli strumenti di produzione", e concede che "il regime socialista, lungi dal sopprimere la libertà in astratto, sopprime le libertà che son diventate privilegi".
Neppure il Grande terrore staliniano del 1936-38 riesce a distruggere negli intellettuali il credito che l'Urss si è conquistata come baluardo dell'antifascismo. Nel 1936-37, impressionata dagli eventi sovietici, la Lega dei diritti dell'uomo (l'associazione formatasi tra gli intellettuali francesi all'epoca dell'affare Dreyfus per difendere i principi della libertà e della democrazia) promuove un'inchiesta: malgrado le critiche di una minoranza, la maggioranza, guidata dal radicale Victor Basch, sostiene la credibilità delle confessioni, ritenendo impossibile che esse siano tutte estorte e ricordando comunque che le rivoluzioni, come la francese, aprono la strada del progresso anche se possono occasionalmente macchiarsi di violenze. Henri Barbusse, scrittore premio Goncourt 1916, crede alle confessioni di Mosca. Lo scrittore tedesco Lion Feuchtwanger e l'ambasciatore americano Joseph Davis assistono personalmente ai processi e ne escono convinti della colpevolezza degli imputati. Upton Sinclair dice che le confessioni ai processi di Mosca non possono essere estorte, perché sono rese da personaggi che hanno saputo resistere alle torture della polizia zarista. Lattimore trova che i processi dimostrino il potere di denuncia di cui in Urss gode il cittadino comune e parla di "democrazia". I giornali liberal americani "The Nation" e "The New Republic" difendono con ostinazione la regolarità dei processi. Alcuni esponenti della sinistra libertaria americana, con l'appoggio del filosofo John Dewey, creano una commissione d'inchiesta per riesaminare i processi di Mosca. Ma contro di essa prendono pubblicamente posizione altri intellettuali, tra i quali gli scrittori Theodore Dreiser, Granville Hicks e Corliss Lamont. Brecht: "Anche i più feroci nemici dell'Unione sovietica e del suo governo sono stati costretti ad ammettere che i processi hanno chiaramente accertato l'esistenza di attive cospirazioni contro il regime. [...] A queste cospirazioni si sono uniti tutti i parassiti, i criminali di professione, gli informatori, tutta la feccia in patria e all'estero". Quando la sua ex amante Carola Neher viene arrestata a Mosca, dice: "Se è stata condannata, dovevano esserci delle prove contro di lei". Brecht peraltro commenta anche cinicamente: "più innocenti sono, più si meritano una pallottola in testa". Lo scrittore francese André Malraux: "Proprio come l'Inquisizione non distrusse la fondamentale dignità del cristianesimo, così i processi di Mosca non hanno diminuito la fondamentale dignità del comunismo".
Anche le denunce del Gulag trovano scarso seguito. André Gide visita l'Urss nel 1936, e, a differenza dei più, non ne riporta un'impressione positiva. In Ritorno dall'Urss (1936) denuncia la repressione staliniana, ma la denuncia viene accolta con indignazione dagli intellettuali comunisti e antifascisti. In Ritocchi (1937) Gide ribadisce le sue osservazioni e anzi paragona il terrore comunista a quello fascista. Le prime ampie testimonianze sul Gulag vengono dai polacchi rilasciati nel 1941-42. I casi più significativi sono però del dopoguerra. Viktor Kravcenko, un membro della commissione sovietica per gli acquisti tecnologici inviato dall'Urss negli Stati Uniti nel 1943, decide di restare in America. Nell'aprile del 1944 rompe con Mosca e quindi scrive e pubblica un libro, Ho scelto la libertà, dove spiega le cause di questa rottura, racconta della vita in Unione Sovietica e della politica di Stalin nei confronti dei contadini, degli ingegneri e dei vecchi bolscevichi. Il libro viene tradotto in ventidue lingue e letto dappertutto. In Francia esce nel 1947. Per al prima volta, la Francia e il mondo occidentale tutto discutono dei lager sovietici. Allora, il settimanale letterario francese vicino al Pcf "Les Lettres Françaises", diretto da Aragon, inizia una campagna contro Kravcenko, infangandone il nome, offendendolo, sostenendo che il libro non è stato scritto da lui e che l'autore è un fascista che porta acqua al mulino di Hitler. La rivista soprattutto nega l'esistenza dei campi di concentramento. Kravcenko reagisce e intenta causa per diffamazione contro la rivista. Il processo si tiene tra il gennaio e il marzo 1949, concludendosi peraltro con una sentenza favorevole a Kravcenko. Ma è significativo il fatto che la rivista abbia potuto citare come testimoni intellettuali e politici prestigiosi: Fernand Grenier, deputato comunista, ministro nel 1944, racconta che nei suoi due viaggi in Urss, 1933 e 1936, ha visto solo contadini russi felici. Vercors, resistente, autore del Silenzio del mare, dichiara che nel libro di Kravcenko si sente "aria di Vichy" e che esso non avrebbe mai potuto essere pubblicato all'indomani della liberazione. Lo storico Jean Baby dichiara che il resoconto della situazione russa è del tutto implausibile. Il presidente dell'Associazione francese dei deportati, Lampe, dichiara che i russi amano la patria, e che quelli che dicono di scegliere la libertà, scelgono di fatto il tradimento. Il filosofo Roger Garaudy mette in ridicolo il libro e ironizza sull'affermazione che sotto lo zarismo c'erano migliaia di persone in carcere, mentre sotto il comunismo ce ne sono milioni. Lo scienziato premio Nobel Frédéric Joliot-Curie testimonia che i russi sono felici e sostengono il regime, definendo quello di Kravcenko "un libro sporco". Quando Kravcenko viene invitato in Italia, il Pci stesso organizza prontamente una serie di manifestazioni ostili. Dal novembre 1950 al gennaio 1951 si tiene a Parigi un secondo processo tra "Les Lettres Françaises" e David Rousset, intellettuale ex trotskista, già deportato dai tedeschi, che nel 1946 ha ricevuto il premio Renaudot per il libro L'univers concentrationnaire e che nel novembre 1949 ha lanciato un appello agli ex deportati nei lager nazisti perché formino una commissione d'inchiesta sui lager sovietici. In seguito al suo appello, nel febbraio 1950, Margarete Buber-Neumann in Pour l'enquête sur les camps soviétiques. Qui est pire, Satan ou Belzébuth? sul "Figaro littéraire" racconta della sua duplice esperienza di deportata nei campi sovietici e nazisti (comunista esule in Russia all'avvento del nazismo, poi deportata nel Gulag all'epoca del Grande terrore, con altri 500 comunisti tedeschi era stata riconsegnata alla Gestapo, dopo il patto Stalin-Hitler). In appoggio ai dissidenti sovietici e per contrastare le iniziative dell'Urss per guadagnare un'egemonia sul mondo della cultura occidentale, i maggiori intellettuali anticomunisti (tra gli altri, Croce, Dewey, Jaspers, Maritain, Russell, Aron, Auden, Caillois, Camus, Faulkner, Malraux, Th.Mann, Queneau, Seton-Watson, Salvatorelli, Salvemini, Spadolini, Silone, Soldati) promuovono un Congresso per la Libertà della Cultura, che si insedia a Parigi nel 1952, ma trova un ambiente complessivamente ostile. Pablo Neruda ancora nel 1972 giudica "problemi assolutamente personali" quelli incontrati da Solzhenitsyn, aggiungendo: "non ho alcuna voglia di diventare uno strumento di propaganda antisovietica".
Le case editrici ritardano la denuncia dei crimini comunisti. Boris Souvarine, francese convertito al bolscevismo dall'Ottobre, poi espulso dall'Urss per trotskismo, nel 1935 trova difficoltà a pubblicare il suo Stalin, che Gallimard rifiuta e accetta invece Plon, malgrado l'opposizione del filosofo Gabriel Marcel. All'epoca il timore è quello di indebolire il Fronte popolare e l'antifascismo. Negli anni '40 il timore sarà quello di incrinare l'alleanza occidentale-sovietica. Nel 1944 lo scrittore inglese libertario George Orwell scrive La fattoria degli animali, opera di critica molto radicale, e abbastanza trasparente, al regime sovietico. Cerca di farla pubblicare dalla casa editrice Macmillan, diretta in quel momento dal grande poeta inglese di orientamento cattolico conservatore Thomas Eliot, ma ottiene un rifiuto. Del tutto speciali le resistenze editoriali in Italia. La società aperta di Popper (1945) viene pubblicata in Italia solo nel 1974. Socialismo di von Mises dopo 70 anni. La via della schiavitù di von Hayek dopo quasi 60 anni. Gustaw Herling, Un mondo a parte (1951) è la prima opera letteraria a denunciare il gulag. In Italia resta quasi sconosciuta fino alla terza edizione del 1992 presso Feltrinelli. Nel 1975 Einaudi respinge la pubblicazione di Kolyma di Varlam Shalamov, proposta da Vittorio Strada. Il "Corriere della Sera" sotto la direzione di Ottone decide di annullare un'anteprima dall'edizione di racconti che stava per essere edita da Savelli nel 1976. Guido Ceronetti, che giudica Shalamov testimone dell'orrore del XX secolo pari a Kafka e Céline, propone Kolyma ad Adelphi a metà degli anni Ottanta, ma Adelphi lo pubblica solo nel 1995. Nel 1995, infine, Einaudi pubblica l'intera opera, ma annulla l'introduzione di Herling e Piero Sinatti. Il Grande Terrore di Robert Conquest, l'opera fondamentale sulle purghe staliniane, tradotta per Mondadori nel 1970, resta introvabile per decenni, finché Rizzoli non la ripubblica nel 1999.
Gli intellettuali cercano nuovi paradisi. Col XX congresso del Pcus e l'invasione dell'Ungheria, nel 1956, il fascino dell'Urss sugli intellettuali comincia a declinare. Ma non pochi trovano presto nuovi miti. All'indomani della rivoluzione di Castro, l'economista americano Paul Baran prevede che a Cuba il socialismo riuscirà a produrre una ricchezza "di proporzioni gigantesche". Sartre, che è diventato antisovietico dopo i fatti d'Ungheria, e il sociologo americano Charles Wright Mills visitano a Cuba. La lasciano pieni di speranza. Dichiara Sartre: "Il paese emerso dalla rivoluzione cubana è una democrazia diretta". Molti intellettuali occidentali, soprattutto americani, si recano annualmente a Cuba per partecipare al taglio della canna da zucchero insieme alla Brigata Venceremos. Molto affascinati da Castro sono in particolare i leader della protesta nera negli Usa. Così, Angela Davis: "tagliare la canna da zucchero era diventata una cosa qualitativamente diversa con la rivoluzione". E il teorico delle Pantere Nere Huey Newton: la società cubana "è veramente, per ognuno, una grande famiglia che si preoccupa del benessere di tutti". Al Congresso culturale cubano del 1968 partecipano tra gli altri lo psichiatra David Cooper, lo scrittore e disegnatore Jules Feiffer, lo storico Eric Hobsbawm, gli scrittori H.M.Enzensberger e Susan Sontag. Tutta la sinistra europea condanna l'intervento americano in Vietnam, ma la guerra spinge anche diversi intellettuali americani a solidarizzare con il governo di Hanoi, chiudendo gli occhi sulla brutalità della dittatura comunista. Le scrittrici Susan Sontag e Mary Mc Carty visitano il Vietnam e assicurano che i vietnamiti si preoccupano molto coscienziosamente della salute degli americani catturati. La Sontag: "Quando l'amore entra nella sostanza delle relazioni sociali, il legame di un popolo ad un singolo partito non è necessariamente disumanizzante". L'attrice Jane Fonda invita le truppe americane a solidarizzare con i vietnamiti parlando da Radio Hanoi. Neppure il disimpegno americano del 1973 consente sempre di recuperare un atteggiamento lucido nei confronti del regime vietnamita. Un manifesto del 1977, firmato tra gli altri, dall'economista Paul Sweezy, dallo scrittore David Dellinger e dal filosofo e poeta Corliss Lamont, dichiara: "l'attuale stato di sofferenza in cui si trova il popolo vietnamita è in gran parte conseguenza della guerra, di cui gli Stati uniti continuano ad avere la responsabilità". Nel 1979 Corliss Lamont e altri attaccano la cantante Joan Baez che ha osato criticare il regime vietnamita, assicurando che "il Vietnam gode ora di diritti umani come non è mai avvenuto nel corso della sua storia". Ma è soprattutto la Cina di Mao, in particolare la Cina della Rivoluzione culturale, che si conquista negli anni '60 e '70 la fama di regime capace di realizzare un vero protagonismo popolare. La scrittrice Maria Antonietta Macciocchi è la sua propagandista più entusiasta: la Cina è "il più straordinario laboratorio politico del mondo", dove "la politica significa sacrificio, coraggio, altruismo, modestia e frugalità". Sartre e la sua compagna, la scrittrice Simone De Beauvoir, la visitano e la esaltano. La De Beauvoir sentenzia: "la diversità con il sistema staliniano è evidente, dal momento che in Cina non esiste nessun tipo di internamento amministrativo". Esalta il sistema carcerario cinese, contrapponendolo alle prigioni di Chicago, che ha visitato, e loda il sistema maoista della delazione, perché in Cina "la giustizia è organizzata per il bene della gente". Nega che gli intellettuali siano sottoposti a pressioni: "Ogni scrittore decideva per suo conto su che cosa avrebbe scritto il suo prossimo libro". Inoltre, è pensando alla Rivoluzione culturale che Sartre dichiara nel 1971: "L'intellettuale che non combatte, sia fisicamente che intellettualmente, in prima linea contro il sistema è uno che, fondamentalmente, sostiene il sistema, e dovrebbe essere giudicato di conseguenza"; "Quando i giovani si scontrano con la polizia, nelle piazze, il nostro dovere non è soltanto di dimostrare che i poliziotti sono violenti, ma unirci alla gioventù nella pratica della controviolenza"; "L'intellettuale, più di ogni altro, deve capire che ci sono soltanto due tipi di persone: l'innocente e il colpevole. Quindi comportarsi di conseguenza". Sotto l'influenza del maoismo, Sartre è disposto a tollerare ogni forma di violenza, purché non esercitata attraverso apparati burocratici. Dice: "Devi sempre stare dalla parte della rivoluzione e se finisce male, se sarò tradito, cambierò idea". Esalta il terrorismo palestinese: "il terrorismo è l'arma del povero"; e giunge perfino a difendere la strage di Monaco. Ma già negli anni '60 aveva fatto l'apologia della violenza. Aveva scritto nella prefazione a Franz Fanon, Dannati della terra (1961): "uccidere un europeo è conseguire contemporaneamente due scopi: eliminare l'oppressore e l'uomo che di quell'oppressione è il frutto". Nel 1962: "A mio giudizio il problema di fondo è di rifiutare la tesi secondo cui la sinistra non dovrebbe mai rispondere alla violenza con la violenza". Nel 1968 saluta le barricate studentesche in un'intervista a Radio Lussemburgo: "La violenza è l'unica cosa che resta agli studenti che non sono ancora entrati nel sistema creato dai loro padri"; "Nei nostri paesi occidentali infiacchiti, l'unica forza di contestazione di sinistra è costituita dagli studenti". Nella primavera 1970 accetta di fare parte del gruppo maoista Sinistra Proletaria e diviene direttore responsabile del suo giornale "La Cause du Peuple" (che incita i militanti a chiudere nelle "prigioni del popolo" i direttori delle fabbriche e a linciare deputati e ministri). Della Cina anche lo storico inglese Basil Davidson loda il "rimodellamento" degli scrittori, mentre lo svedese Jan Myrdal, esponente del movimento studentesco, loda la maoista "rieducazione" degli intellettuali nelle campagne come provvedimento capace di abolire il carattere castale della cultura. Davidson nota anche come dopo la rivoluzione cinese "non ci fosse più bisogno di scioperare per i lavoratori". Perfino la Cambogia dei Khmer rossi ha trovato difensori. Il linguista americano Noam Chomsky ancora nel 1977 giudica "storie" quelle delle atrocità khmer e "assolutamente inattendibili" i racconti dei profughi. Sostiene che le esecuzioni si contano al massimo nell'ordine delle centinaia, e che esse, comunque, vanno spiegate con "la minaccia di fame derivante dalle distruzioni e dagli assassinii americani". Mentre Jan Myrdal e il vecchio radicale americano Scott Nearing (già apologeta dell'Urss negli anni '30) descrivono con entusiasmo anche l'Albania comunista di Enver Hoxha, che hanno potuto visitare.
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