mercoledì 29 luglio 2009

Strana ventura della parola totalitarismo

Dott. Giano Accame dal libro "Stato etico e manganello.
Giovanni Gentile a sessant’anni dalla morte" edito da Marsilio, 2004. In questa pubblicazione, ancora reperibile sul mercato, vi sono i testi degli interventi, con correzioni, approfondimenti, ampliamenti, chiarimenti e note):
Il tema che mi propongo di svolgere riguarda il rapporto tra Gentile e la morte: come la concepiva e come l’ha affrontata.
Ma vorrei farlo precedere da un’osservazione sulla strana ventura della parola totalitarismo, immessa proprio da Gentile nel linguaggio politico: nasce dal pensiero liberale e il suo significato è poi stato stravolto facendogli definire le punte massime dell’oppressione nazista e comunista.
Il neologismo si fa risalire al quarto congresso del partito fascista (22 giugno 1925), concluso da Mussolini con tratti d’allegra sbruffoneria caricando all'ostentazione della "volontà totalitaria" l'aggettivo "feroce", che permise di connotare il termine in modo sinistro. Mussolini precisò: "Vogliamo insomma fascistizzare la nazione, tanto che domani italiano e fascista, come presso a poco italiano e cattolico, siano la stessa cosa". Era la parafrasi d’un concetto espresso poco prima (l’8 marzo) da Gentile a Firenze, nel Salone dei Cinquecento, cercando di spiegare cosa fosse il fascismo. Lo presentò come idea organica, e perciò totale, dell'esistenza: una Weltanschaung, visione generale della vita e del mondo. Quindi affermò che il fascismo in quanto "concezione totale della vita" non s'applicava solo in Parlamento o nella Casa del Fascio, ma in officina, a scuola, a casa, nella vita comune. E sulla parola "totale" indicò l'esempio del cattolicesimo, che investe ogni aspetto dell'esistenza.
In questo senso è totalitario anche il liberalismo, perché l'idea o addirittura, come la chiamava Croce, la religione della libertà si riflette su tutti i pensieri e gli attimi della vita. Da dove Gentile ricava questa idea di totalità, se non traducendo il concetto idealista dell'unità dello spirito pur nella varietà delle sue manifestazioni? Applicandola al fascismo l'associava a un sentimento particolarmente intenso dello Stato, proiettandovi l'orgoglio della classe dirigente liberale, che nell’800 aveva finalmente creato lo Stato nazionale unitario. Secondo il filosofo liberale Bertrando Spaventa – ripreso da Gentile - doveva essere "Stato etico" e non agnostico, come altri pensatori liberali avrebbero preferito. Gentile travasò questi concetti nella prima parte, da lui stesso redatta, della Dottrina del fascismo per la Treccani, dove compare un'unica volta l'espressione "totalitario". Non è più impiegata nella seconda parte, scritta da Mussolini, e il termine, così marcato dal gergo dell'idealismo che non tutti gli intellettuali fascisti condividevano, non fu amato né molto usato, tanto che nel Dizionario di politica imposto nei primi anni ‘40 dal Partito fascista alla Treccani in polemica con Gentile non esiste una voce "totalitarismo".
La qualifica di totalitario applicata al fascismo deriva, insomma, dal linguaggio filosofico della personalità più liberale, nel pensiero, nelle rivendicazioni delle proprie origini e nei comportamenti (si pensi alla sua apertura nella scelta dei collaboratori all'Enciclopedia italiana), tra quante vi confluirono. È quindi paradossale che tale espressione abbia finito col riassumere in senso addirittura peggiorativo gli aspetti più orridi del nazismo e del comunismo, anche se né Hitler né Stalin si sono mai proclamati totalitari. Tuttavia va pur detto che tra le accuse a Gentile non sono ricorrenti i richiami al totalitarismo. Lo si bolla piuttosto come "filosofo del manganello", alludendo a violenze almeno inizialmente affidate all’olio di ricino e alle bastonate o al pugnale, cioè a peccati quasi veniali rispetto agli orrori dei lager e del gulag. Eppure peccati che Gentile ha scontati, come si sa, con la vita.
Giovanni Gentile scrisse Genesi e struttura della società, che ha per sottotitolo Saggio di filosofia pratica, uscito postumo nel 1946, nella pesante atmosfera dell'estate 1943 come testamento filosofico. Terminò l’opera con un XIII capitolo, La Società trascendentale, la morte e l'immortalità, estraneo all'argomento. La conclusione più logica, dopo cinque capitoli dedicati allo Stato, un undicesimo sulla storia, parrebbe quella del dodicesimo capitolo su La Politica. Ma la riflessione finale sulle speranze o illusioni dell’immortalità, proprio perché ha poco di pratico, è impressionante. L'ultimo paragrafo ha addirittura per titolo La morte e vi si può già intuire il presentimento d’un destino atteso. Non, ovviamente, quello di morire, perché capita a tutti; ma di morire come i pochi altri filosofi, da Socrate a Tommaso Moro a Giordano Bruno, uccisi per le loro idee. Tra i pensatori e filosofi perseguitati ricordiamo Severino Boezio, che scrisse in prigione il De consolatione philosophiae; Tommaso Campanella, grande anche come poeta in trent’anni di prigionia; e Antonio Gramsci, che elaborò in carcere le teorie (vagamente eretiche rispetto al marxismo, che attribuisce alla cultura un ruolo storico minore dei processi di produzione) sull’importanza dell’egemonia culturale per la conquista della società, avendole apprese proprio studiando i successi di Mussolini e il contributo di Gentile come grande operatore di cultura. L’indicazione venne ripresa dal Pci di Togliatti, che nei decenni durante i quali stava diminuendo statisticamente la classe operaia continuò ad aumentare i voti, raccogliendoli appunto tra la borghesia colta con il prestigio ottenuto attraverso l’egemonia culturale passata a sinistra.
Della morte Gentile si era occupato già tanti anni prima, sia nella Teoria dello spirito come atto puro, ove un capitolo è dedicato all’immortalità, sia nella conferenza del 1907 su Giordano Bruno, ove era ancora lontanissimo dall'immaginare che il tema della morte come dramma di coerenza filosofica l'avrebbe sperimentato alla fine su sé stesso. Ma perché concludervi un libro di teoria della politica?
Nella guerra ormai persa sentiva arrivare il destino e ci rifletteva, trasformando per avversione all'atomismo individualista, in un fatto sociale persino il più intimo degli eventi: "La morte è un fatto sociale. Chi muore, muore a qualcuno. Un'assoluta solitudine - che è impossibile - non conosce morte, perché non realizza quella società di cui la morte è la dissoluzione". Gentile acutamente colloca "in Grecia la culla della fede nella immortalità". Troviamo infatti non nella Bibbia, bensì in Omero, in Platone, infine in Virgilio, accompagnatore di Dante all’Inferno, le più suggestive immagini dell’aldilà. A cui peraltro Gentile credeva poco, in ciò precorrendo Giovanni Papini e visioni più attuali: "La fede nella immortalità è messa a dura prova dal mito dell’Inferno dove il peccatore resta in eterno inchiodato al suo peccato disperatamente".
Nei mesi successivi queste riflessioni si faranno meno teoriche e più personali, giacché la sua morte – ancor più che semplice "fatto sociale" - diventerà un fatto politico e storico di notevole rilevanza.
Il 19 marzo 1944 Gentile aveva premesso alla commemorazione di Vico, tenuta all'Accademia d'Italia a Firenze nel bicentenario della morte, una dichiarazione in cui disse: "Oh, per quest'Italia noi ormai vecchi siamo vissuti: di essa abbiamo parlato sempre ai giovani, accertandoli ch'essa c'è stata sempre nelle menti e nei cuori; e c'è, immortale. Per essa, se occorre, vogliamo morire; perché senza di essa non sapremmo che farci dei rottami del miserabile naufragio...". Meno d’un mese dopo il desiderio di non sopravvivere alla disfatta veniva esaudito: Gentile venne ammazzato da una squadra di partigiani.
La famiglia chiese e ottenne che per la sua morte non ci fossero rappresaglie. Ma morì suicida, buttandosi dalla finestra per sottrarsi a un brutale interrogatorio, il giovane partigiano comunista Bruno Fanciullacci, che gli aveva sparato dopo avergli chiesto se era veramente il professor Gentile. Abituato a esser cercato dai giovani, il vecchio maestro s'era sporto sorridendo dalla macchina. E non si sarebbe meravigliato sapendo che a interpellarlo era un giovane comunista, perché lui stesso aveva lanciato verso di loro dei ponti definendoli dei corporativisti impazienti nel discorso tenuto l'anno prima in Campidoglio, il 24 giugno 1943, per incitare gli italiani alla resistenza contro l'imperialismo angloamericano.
Sconcertante segno dei tempi: nella toponomastica fiorentina non è ricordato il filosofo ma soltanto chi l’ha ammazzato. Tuttavia non sarebbe del tutto giusto nemmeno il contrario, perché comunque Gentile è sepolto con una lapide - molto sobria, come ha notato Gabriele Turi: c’è appena il nome - tra i grandi italiani in Santa Croce, ha il monumento nei suoi libri, che continuano a uscire, e in quelli che su di lui scrivono gli altri – ultimo, per ora, l’agile e acuto profilo che Daniela Coli gli ha dedicato nella collana del Mulino L’identità italiana - mentre anche il giovane gappista, che ha pagato l’uccisione con la vita, è stato in qualche modo parte necessaria d’un momento alto e drammatico della storia e della cultura italiana. Ormai raggiunta la necessaria distanza prospettica, la storia dobbiamo così comprenderla: come conciliazione e sintesi degli opposti.
Alessandro Campi, che ha preceduto la Coli nella stessa collana con un profilo su Mussolini, ha parlato di "morte, non solo annunciata e attesa, ma, in un senso più profondo, inevitabile e necessaria" del filosofo. La tesi mi trova d’accordo e, del resto, per una situazione analoga l’avevo anticipata sin dagli anni ’80 valutando il significato simbolico di Piazzale Loreto, di cui secondo il filosofo crociano Gennaro Sasso "l’uccisione di Gentile potrebbe essere stata […] la prova generale". Sasso ha attribuito agli inglesi, contrari a processi dei vincitori sui vinti tipo Norimberga, la sbrigativa eliminazione (usando i comunisti come braccio secolare) tanto di Gentile, quanto di Mussolini. In realtà, nessun tribunale avrebbe potuto condannare a morte Gentile, ma, come suppone Campi, sarebbe stato ancor più penoso della morte immaginarlo "nei panni dell’epurato, collocato forzatamente a riposo". In ogni caso la feroce e odiosa soluzione fu più decorativa: per lui, anche se forse, passata la prima amarezza, l’avrebbe volentieri evitata; certo per il fascismo e per la storia d’Italia. A un periodo così intenso, ma nato nella violenza e nella violenza destinato a chiudersi col massacro postbellico di quasi ventimila militanti, si addiceva d’essere coronato dalla fine drammatica del Filosofo e del suo Duce.
La morte di Gentile arricchisce l’immaginario etico-eroico della rivoluzione fascista. Si è quindi cercato di confondere e sporcare il quadro attribuendola a dei fascisti estremisti. Pettegolezzi di regolamenti interni di conti, poi rilanciati da Luciano Canfora, erano circolati subito. Ne riferì sdegnato il figlio, Benedetto: "non so tuttora rammentare senza che si rinnovi in me un senso di dolorosa sorpresa, la smania ciarliera di alcuni ambienti fiorentini, che, per la bocca di persona del resto stimabilissima ed anche vecchio amico di casa, non perse tempo quello stesso pomeriggio a voler accreditare presso l’animo di mio fratello, tanto dolorosamente sgomento e tanto provato già dalle sue penosissime sofferenze fisiche e morali, la voce che autori del fatto fossero gli stessi fascisti fiorentini. […] La voce trovò credito a Firenze e fuori, e forse l’avrebbe ancora se le dichiarazioni del partito comunista non fossero venute a sfatare quella leggenda".
Benedetto Gentile sostenne invece, come poi Gennaro Sasso, l’origine britannica dell’assassinio: "Avvenuto per mano dei gappisti fiorentini, il fatto ha naturalmente radici più lontane. Notizie attendibili pervenuteci dopo l’arrivo delle truppe "alleate" in Firenze accennarono ad istruzioni esplicite fatte giungere da ufficiali di collegamento italiani presso il Servizio Informazioni delle truppe britanniche operanti in Italia al centro della Resistenza partigiana in Toscana. Personalmente ho sempre avuto l’impressione che quelle segnalazioni potessero avere fondamento di verità". Concludendo il resoconto sulla morte del padre, Benedetto evitò il vittimismo: "Fu una morte, la sua, consapevolmente accettata: accettata e attesa, resa familiare al suo spirito dalla meditazione che di quel problema si era soffermato a fare nell’ultimo anno di sua vita".
Questa dignità e assuefazione al destino incombente era al tempo stesso personale e epocale. Il costume fascista imponeva il coraggio come un undicesimo comandamento. Valore tipico di quei tempi, da ricordare a chi rimprovera le autorità fasciste d’aver lasciato Gentile, benché esposto a minacce di morte, senza scorta. Sono rimproveri mossi, a onor del vero, sin da allora anche da Italia e Civiltà, la rivista degli intellettuali fascisti fiorentini. In tempi recenti a rafforzarne la credibilità contribuì il costume introdotto negli anni di piombo, quando l’assegnazione della scorta era diventato status simbol. Durante la Repubblica sociale, a parte la scorta germanica che sorvegliava il Duce, non usavano scorte. Il Segretario del Partito, Pavolini, girava per le autostrade del Nord con il solo autista. Aldo Resega, federale di Milano, la più importante tra le federazioni del partito, venne ammazzato a due passi da casa verso le otto del mattino da un gappista in bicicletta mentre aspettava il tram per andare nella federazione del fascismo repubblicano. Almeno Gentile, come presidente dell’Accademia d’Italia, aveva l’autista.
Ezra Pound, che ha citato Gentile in un verso della Sezione perforatrice di roccia (Rock-drill) al Canto LXXXIX, "Tradito Mihailovich, assassinati Henriot e Gentile", iniziando i Canti Pisani con l’immagine di Ben e Claretta appesi a Milano spiegava all’amico Eliot che la fine dei fascisti era avvenuta "with a bang not with a whimper", con uno schianto e senza un lamento. L’orrore di Piazzale Loreto, entrato coi Canti Pisani nella letteratura mondiale, è stato, in forme ancora più atroci dell’assassinio di Gentile, un dono involontario della Resistenza al fascismo per i richiami storici che evocava, ma anche perché contribuisce a rendere più problematici, confusi, incerti i confini tra il Bene e il Male, cui mai nelle umane vicende andrebbe aggiunto il pretenzioso aggettivo Assoluto.
Seicento anni prima qualcosa del genere era capitato a Cola di Rienzo, un altro Tribuno uscito dal popolo e che con un poeta, Petrarca, aveva sognato di far rivivere la grandezza di Roma repubblicana. Ma si era scontrato con alcune potenti famiglie dell’epoca – la plutocrazia del Trecento – ed era finito appeso per i piedi alla Chiesa di S. Marcello sul Corso. I destini che si ripetono attraverso la notte dei secoli hanno una malinconica suggestione. Anche Mussolini aveva sognato la grandezza romana, evocata da un effimero Impero durato appena cinque anni, insieme ai poeti: con d’Annunzio, Marinetti, Ungaretti, Cardarelli e col principale filosofo dei suoi tempi. Finì a sua volta schiacciato dalla plutocrazia angloamericana contro cui Gentile parlando dal Campidoglio aveva tentato di mobilitare l’orgoglio italiano una quindicina di giorni prima dello sbarco in Sicilia.
Rileggendo quel discorso, dove è ignorata l’Unione Sovietica, colpisce il disprezzo antiparlamentare su cui Gentile insisteva evidentemente convinto che fosse condiviso da una larga parte degli uomini della sua età: "Il parlamentarismo è morto in Italia e bisogna che anche i non fascisti, anche i comunisti anelanti in segreto a non si sa quale libertà utopistica, ne sappiano grado a Mussolini. Noi che non siamo di ieri, abbiamo viva nella memoria la cronaca della corruttela parlamentare che venne inchiodando il nostro paese dal ’76 in poi alla croce di un sistema dissolvitore di ogni schietto spirito politico, voglio dire del concetto e sentimento dello Stato e del suo valore, e quindi di ogni energica volontà di elevazione e di grandezza. […] Ma quel liberalismo non è morto soltanto in Italia. Gli Stati che si dicono democratici per avversione ai nuovi Stati totalitari dimostratisi via via sempre più incomodi o pericolosi, hanno trovato il modo di rintuzzare ogni velleità liberalesca individualistica con la forza stritolatrice dei raggruppamenti economici. La libertà in codesti paesi è a terra, e non può aver salvezza […] se non nell’assetto corporativo; ossia nell’idea che il Fascismo, primo, proclamò in Italia…". Una prosa non genericamente patriottica, ma polemicamente impegnata col sentimento d’un fascista allineato, non marginale. Ha buoni motivi Sergio Romano quando spiritosamente sostiene di non aver ben capito perché Gentile sia diventato fascista. Secondo autorevoli studiosi del pensiero filosofico del ‘900, da Eugenio Garin a Gennaro Sasso, la sua filosofia non l’obbligava a quel passo. Sono affermazioni discutibili – con altrettanta autorità proprio adesso il filosofo Biagio De Giovanni le ha contestate - ma sostenibili. Addirittura si è da più parti insinuato che Benedetto Croce fosse concettualmente più prossimo di Gentile alla mentalità fascista. Daniela Coli ricorda come lo stesso Gentile – a dispetto - abbia definito Croce "uno schietto fascista senza la camicia nera". Ma Gentile stesso ha poi saputo spiegare con convincente passione, alla fine della sua vita, perché sia rimasto fedele a Mussolini e al fascismo.
La disperazione per cui Gentile desiderava morire veniva dall’irrimediabile crollo del Risorgimento, mazzinianamente inteso come resurrezione, in un’idea di grandezza e d’universale missione, della Terza Roma: la Roma del Popolo, dopo la Roma dei Cesari e quella dei Papi. Tra tante coincidenze va ricordata anche l’attribuzione di Mazzini al fascismo, sostenuta da due filosofi che pure incarnavano opposti punti di vista: Giovanni Gentile e il logico matematico Bertrand Russell, premio Nobel per la letteratura nel 1950. Nel 1934 Russell, erede della scuola utilitarista inglese, aggredì con l’abituale ironia le concezioni di Mazzini: "Egli ripugnava in pieno alla filosofia dell'utilitarismo: gli uomini dovrebbero vivere per il dovere, non per la felicità. […] Coloro che accettano il principio di utilità - egli pensava - sono portati per gradi a trascurare lo sviluppo di ciò che è più alto, più santo e più imperituro nell'uomo, e a dedicare se stessi al perseguimento di ciò che essi chiamano l'utile. […] Queste dottrine sono state accolte e attuate da Mussolini".
Poco più avanti Russell ribadiva: "l'etica di Mazzini, che suona tanto più nobile del principio di felicità di Bentham, non diventa, nella sua applicazione agli affari pratici, gran che di meglio della legge dei "grossi battaglioni". Gli uomini che si credono i ricettacoli della rivelazione divina sono proclivi a diventare incomodi, e le dottrine di Mazzini potevano sfociare solo o in una guerra perpetua o in una ferrea tirannia. […] Alle dottrine di Mazzini l'Italia deve d'esser diventata quello che è". Cioé, appunto, fascista.
In quello stesso 1934 Gentile forniva a Russell un'implicita conferma ribadendo solennemente la cooptazione di Mazzini tra i precursori del regime: "E venne il Fascismo, che ci fa riudire la voce di Mazzini nel suo accento più profondo. La stessa concezione spiritualistica del mondo; lo stesso carattere religioso; la stessa avversione all'individualismo; lo stesso concetto dello Stato e della nazione, unità fondamentale e sostanza spirituale dei cittadini; lo stesso postulato di un modo totalitario d'intendere la vita umana; la stessa diffidenza verso il liberalismo meccanico della classica economia astratta; e quindi il principio della riorganizzazione delle forze economiche in un corpo che l'atomismo delle leggi economiche assoggetti alla concreta forma dello Stato etico, come dire alla stessa coscienza dell'uomo. Mazzini perciò oggi è con noi; e l'Italia, finalmente, gli rende giustizia e saluta in lui il suo profeta".
Il tramonto di queste illusioni l’aveva gettato nella disperazione, insieme alle migliaia di ragazzi arruolatisi nella RSI per un estremo rifiuto del verdetto della storia. Va notato che speranze di restaurazione analoghe a quella della Terza Roma erano piuttosto diffuse nel Mediterraneo. Ricordo la megali idea dei democratici greci, che con il poeta Kostìs Palamàs, simile per ispirazione patriottica al nostro Carducci, sognavano di rifare a spese dei turchi l’Impero di Bisanzio, ma si scontarono dopo la prima guerra mondiale nell’inatteso vigore di Kemal Ataturk da cui vennero rovinosamente sconfitti. E i sionisti, che con un altro poeta, Hayim-Nahman Bialik, collocabile tra Carducci e d’Annunzio, hanno sognato di ricostituire il regno di Giuda: obiettivo storico più difficile di quanto lasciasse immaginare all’inizio del ‘900 l’inerzia degli arabi e con cui sono tuttora duramente alle prese. Le nostre carte furono giocate male da chi ci ha guidato, compromettendo forse per sempre le velleità di restaurazione romana. In fondo era giusto che accanto agli studenti cadesse anche il Professore (ed il Duce), chiudendo in uno scenario sacrificale un tratto della nostra storia così denso non solo d’errori, ma d’arte, pensiero, avvincenti e generose avventure.
Tratto da. http://www.italia-rsi.org/aaconvegni/gentilesalo.htm#coli

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