sabato 4 luglio 2009

Mussolini, il Fascismo e gli Ebrei

presentazione del libro
“Uno schermo protettore”
di Filippo Giannini

Fortunatamente per un Giorgio Fabre, che in un recente libro ha avanzato l’ipotesi di un Mussolini razzista sin dai tempi della militanza socialista, c’è una schiera di studiosi che contestano la fondatezza di affermazioni di questa gravità. Uno di loro, Giorgio Israel, si spinge anzi ad insinuare che il Fabre giungerebbe a selezionare i documenti “forse nell’intento di costruire una storiografia antifascista militante” e di avallare una “tesi surrettiziamente stabilita a priori”. Noi senza dover scomodare l’autorità di Gorge Mosse, che ha negato un fatto del genere, ci limitiamo a registrare che l’accusa ha fatto ribellare Sergio Luzzato e Giovanni Belardelli che non sono certo sospettabili di simpatie fasciste, facendo sì che assumessero atteggiamenti fortemente critici anche sulla stampa.

Ma lasciamo stare Fabre al suo “accanimento storiografico”, nel quale dimostra, secondo Luca Leonello Rimbotti, di “avere molto tempo da perdere”, e veniamo a Filippo Giannini e al suo libro “Uno schermo protettore” (Nuove Idee, Roma, 2006). Premettiamo trattasi non di un accademico, ma di un architetto appassionato di storia, sicché il suo sforzo è ancora più lodevole. Nel suo lavoro egli applica quello che Franco Romano su “Linea” del 31 ottobre 2006 ha definito “il metodo Giannini”, consistente in “una fitta, insistita, caparbia, instancabile e incontrovertibile sequenza di citazioni e di testimonianze”. Il suo volume, che è il risultato di lunghe ricerche d’archivio, va a suggellare una serie di altri quattro libri precedenti sempre dedicati al fenomeno fascista.

Alquanto curioso è il titolo virgolettato, che riprende una frase inserita nell’opera “Il Nazismo e lo sterminio degli ebrei” di Léon Poliakov. L’espressione dello scrittore ebreo viene adottata da Giannini, perché serve a sottolineare la diversità di comportamento osservato rispetto ai tedeschi e agli altri governi dell’Asse da parte delle autorità italiane, le quali “appena giunte nei luoghi di loro giurisdizione, annullavano le disposizioni decretate contro gli ebrei”. Il libro vuol dimostrare con una messe di documenti riprodotti in copia ciò che solo la faziosità imperante impedisce ancora di riconoscere: la sua tesi di fondo infatti è che il capo del fascismo non fu un fanatico persecutore di ebrei. Anzi, assumendo la carica di Ministro degli Esteri nel corso del conflitto, egli riuscì a dirigere meglio le attività delle delegazioni anche nei territori controllate dai tedeschi o dai satelliti di Berlino. I suoi incaricati rischiarono ovviamente di brutto per proteggere ebrei italiani e stranieri dalle persecuzioni, ma spesso ce la fecero in barba a tutte le proteste diplomatiche. In qualche caso il duce intervenne personalmente, come riconobbe l’antifascista Luciana Frassati a proposito della salvezza di 103 professori ebrei arrestati il 6 novembre 1939 a Cracovia.

In realtà, l’antisemitismo, che più correttamente dovrebbe definirsi antigiudaismo perché sono semiti anche popoli diversi, fu elemento costitutivo della sola ideologia hitleriana tanto da non figurare neppure alla voce “Dottrina del Fascismo” pubblicata nell’Enciclopedia Italiana del 1932. Le sue prime apparizioni in forma più o meno ufficiale vanno registrate da noi solo da un certo momento storico in poi. I baresi ancora ricordano il discorso del duce in Piazza Prefettura del 6 settembre del ’34, relativo ai “trenta secoli di storia che ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe, sostenute da progenie di gente che ignorava la scrittura nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio, Augusto”. E allora chi e che cosa spinsero il regime a sposare ufficialmente teorie tanto estranee al Dna del popolo italiano, anche se poi l’applicazione ne veniva ostacolata sottobanco? La circostanza può apparire a prima vista inspiegabile specie se si pensa che persino il Fabre, sia pure con scarsa coerenza rispetto ai suoi stessi assunti, riconosce in Mussolini “equilibrio” e “toni cauti” nel momento in cui tutti attaccavano l’ebraismo sovietico nel 1917. Il famigerato “Manifesto” e la successiva delibera del Gran Consiglio del luglio ’38, secondo Giannini il quale segue in ciò l’orientamento di Renzo De Felice, furono una conseguenza del progressivo allineamento alla Germania nazista, unica ad aver solidarizzato con l’Italia all’atto delle sanzioni economiche. Del resto, il fascismo era finito nel mirino del mondo economico da quando Mussolini aveva affermato che esso rappresentava “l’antitesi netta, categorica, definitiva della democrazia, della plutocrazia e della massoneria” Contrapporre “la civiltà del lavoro a quella del denaro”, per usare un’espressione di Berto Ricci, significava inimicarsi chi nel mondo aveva una concezione mercantile della vita. Alla fine ci si mise pure la politica inglese che, come ammise lo stesso Churchill, finì per forzare Mussolini a schierarsi con la Germania.

All’indomani della proclamazione dell’Impero, erano state le esigenze di evitare il meticciato a determinare una politica di difesa della “stirpe italica”. L’ebraismo non c’entrava affatto. Era seguita finanche la ricerca, che Giannini ben documenta, di una colonia dove ospitare i falascià eritrei, ma il tentativo fu fatto fallire dagli inglesi cui può attribuirsi un atteggiamento contraddittorio relativo agli ebrei persino durante la guerra mondiale.



(Da “Meridiano Sud”)




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Su Mussolini antisemita o non antisemita si sono fatti infiniti vaniloqui, formulati filosofemi d’ogni specie, costruite le più compiaciute astruserie. Giorgio Fabre ci si è spremuto in un intero libro per convincere la gente che Mussolini è stato sempre antisemita. Il giornalista Giovanni Belardelli lo ha rimbeccato: no, Mussolini diventò razzista solo dopo la campagna etiopica. Dilettevoli divagazioni. Più serio è lo scrittore ebreo Giorgio Israel, secondo il quale è bene, appunto, piantarla con queste dispute a perdere. La realtà è che Mussolini, vedendo con favore, per precise ragioni di politica mediterranea, uno Stato d’Israele (nel 1934, durante un colloquio, a Palazzo Venezia, con Chaim Weizmann, lo aveva incoraggiato: “Continuate, continuate”), dopo il maledetto errore delle cosiddette “leggi razziali”, peraltro prive di incisività, si oppose alla politica antiebraica hitleriana, tacciandola di barbarie.
Adesso non varrebbe nemmeno la pena di ricordare che tre anni fa il signor Pacifici della Comunità ebraica di Roma, sproloquiando affermò che “Mussolini faceva parte della macchina per la ”. Proprio su questo giornale lo informammo che Mussolini aveva dato l’ordine categorico di “salvare quanti più ebrei era possibile” e che lo scrittore Menachem Shelach su tale argomento si era impegnato seriamente affermando: “Non vi sono dubbi che l’Italia, alleata della Germania nazista, si oppose alla politica di sterminio degli ebrei”. Il signor Pacifici - scrivemmo allora - dovrebbe leggersi almeno i libri dei suoi correligionari. E adesso sarebbe bene che si leggesse anche “Uno schermo protettore” di Filippo Giannini.
Con questo libro, edito da “Nuove idee”, Giannini conclude una importante collana di quattro volumi dedicata a Mussolini “uomo della pace”, riassumendo in una lucidissima sintesi l’intero controverso argomento degli ebrei. Prima che il volume arrivasse in libreria gli avevamo chiesto: “Perché ”? “E’ una locuzione usata dallo storico ebreo Léon Poliakov per indicare gli Italiani che durante l’ultima guerra proteggevano gli ebrei sottraendoli ai rastrellamenti dei tedeschi”. “Quale è il centro focale della trattazione?”. “La documentazione. Una buona parte del volume è costituita da documenti, molti dei quali inediti”.

Vero. Duecentonovanta densissime pagine che sono il risultato di anni di ricerche e di interviste anche nell’ambiente ebraico. Un prodotto tipico di quello che potremmo definire addirittura “il metodo Giannini”: una fitta, insistita, caparbia, instancabile e incontrovertibile sequenza di citazioni e di testimonianze realizzata da un appassionato architetto e scrittore che porta nei suoi libri la chiarezza concettuale, la solidità dell’impianto e la logica concatenazione strutturale tratte dalla sua prima professione.
Il numero dei personaggi che si affacciano dalle pagine del libro è notevole. Vi troviamo, naturalmente i tre benemeriti salvatori di ebrei: Giovanni Palatucci, Giorgio Perlasca e Guelfo Zamboni. Palatucci, Questore di Fiume durante la Repubblica Sociale Italiana, già nel 1939 aveva tolto dalle mani della Gestapo 800 ebrei fuggiti dalla Germania, sistemandoli ad Abbazia. Altri ne mandò a Campagna, in provincia di Salerno, dove si trovava un suo zio Vescovo. Nel 1944 riuscì a salvarne un altro migliaio, imbarcandoli per Bari e facendo sparire dagli archivi ogni documentazione. Alla fine fu arrestato dai tedeschi e mandato a morire a Dachau. Giorgio Perlasca agì a Budapest, fingendosi ambasciatore spagnolo, firmando lasciapassare e salvacondotti e salvando così 5 mila ebrei ungheresi. Guelfo Zamboni, Console a Salonicco, zona occupata dai tedeschi, dovette limitarsi a salvare ebrei italiani e quelli greci che a vario titolo potevano rivendicare il diritto di essere considerati italiani. Lo stesso fece il suo successore Giuseppe Castruccio, malgrado che il rabbino capo Zvi Hirsh Kiretz avesse consegnato ai tedeschi gli elenchi di tutti gli ebrei che vivevano nella città.
Insieme a questi “benemeriti” troviamo nel libro gli ebrei fedelissimi, Ettore Ovazza, Alberto Liuzzi, Medaglia d’Oro della guerra di Spagna, Caduto in combattimento alla testa delle sue “banderas”, e poi il simpatico, estroso, umanissimo editore Angelo Fortunato Formiggini che entrava nelle case degli Italiani scodellando “collane” originali, divertenti e istruttive con le quali invitava giocosamente ad amare il libro.
Uno dei fili conduttori della trattazione è la profonda differenza fra l’ideologia nazionalsocialista e quella fascista. La filosofia hitleriana si fondava sul misticismo dell’arianesimo a noi del tutto estraneo. Ma più interessante ancora è la ricca messe di testimonianze ebraiche non solo nei confronti della questione che li riguarda, ma anche in merito al Fascismo stesso. Sentite l’ebreo Zeev Sternhell, docente di Scienze politiche all’Università di Gerusalemme: “Il Fascismo fu una dottrina politica, un fenomeno globale, culturale, che riuscì a trovare soluzioni originali ad alcune grandi questioni che dominarono i primi anni del secolo… L’attrazione esercitata dal Fascismo su eminenti uomini della cultura europea è determinata dal fatto che molti vi trovarono la soluzione dei problemi relativi al destino della civiltà occidentale. Ed ecco, infine, la messianica dichiarazione dell’ebreo Richard Arwey: “Quando il Giorno del Giudizio arriverà e i Libri del Tempo verranno prodotti, allora saremo obbligati a presentarci al tribunale con l’innegabile testimonianza che anche nel più tragico periodo della storia recente il popolo italiano portò alto, con fermezza e fierezza, il vessillo d’oro dell’umanità”.
Fra i non citati c’è Leo Valiani. Ma non è certo dimenticanza, quanto, piuttosto, una deliberata omissione, trattandosi di una delle figure più negative fra quelle che ci sono capitate davanti. L’ebreo Weiczen, che si era italianizzato il cognome in Valiani, era un comunista che per motivi di utilità politica si trasformò in azionista. Come tale fece parte, nel 1945, nel famigerato Comitato di Liberazione Alta Italia e insieme al comunista Luigi Longo e al socialista Sandro Pertini decretò l’uccisione di Mussolini. Poi divenne granduomo nazionale, il compare Pertini lo fece senatore a vita e Giulio Andreotti lo ha sistemato fra i “nonni della repubblica”. Democratico onore al merito. Però il suo nome non figura nel “Giardino dei Giusti” di Gerusalemme.

(Franco Monaco)
(Documenti Italia 30 ottobre 2006)

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