Periodico DueSicilie 11/1999
Un po' di luce sull’omertà degli storici
Questo era l’"eroe" del risorgimento: un negriero, cioè un trafficante di schiavi. Esaltato da tutta la storiografia imperante come il paladino della libertà, come il "liberatore" delle popolazioni delle Due Sicilie, "l’eroe dei Due Mondi" invece aveva anche campato trasportando schiavi cinesi (coolies). Cosí come poi ha ridotto le popolazioni del Sud in questa Italia fatta unita al solo vantaggio della dominazione savoiarda e delle lobby di potere che le sono succedute fino ad oggi.
È sintomatico, dunque, che questo personaggio sia il piú grande simbolo di questo potere dal quale è onorato con monumenti, strade, piazze, associazioni, enti, navi, eccetera, in questa Italia ormai ridotta a una sordida puttana, sfruttata da questi ricottari che l’hanno asservita a libidinosi interessi stranieri, mentre lo Stato delle Due Sicilie è diventato una sua colonia interna. Ma chissà fino a quando.
Antonio Pagano
Schiavismo
All’inizio del 1998 l’UNESCO decise di dedicare l’anno alla lotta contro quel terribile, ancora attuale, morbo sociale e mondiale chiamato schiavitú. Iniziativa molto lodevole, non c’è che dire, ché, perfino la fortunata Europa, patria conclamata degli immortali principi del 1789, non può scagliare la prima pietra dato che, anche nel vecchio continente, talvolta si scoprono, e non sono una rarità, lavoratori trattati peggio delle bestie, e, per ironia, animali coccolati e vezzeggiati meglio degli uomini.
Lo scafista ante litteram
Il buon proposito dell’UNESCO ha fatto però ricordare a qualcuno – le solite malelinguacce biforcute sputaveleno che provano lubrico orgasmo ad infangare la Storia Sacra del Risorgimento – che anche un certo eroe, il mitico Garibaldi, non fu, forse, alieno dal dare il suo contributo lenonino al commerciucolo di carne umana, non di bianchi cristianucci ovviamente – perché il Grande Architetto dell’Universo non vuole – ma di asiatici sí in un’epoca in cui era ancora fiorente il losco mercatare di schiavi tra la Cina e l’America meridionale per l’importazione di coolies, «ufficialmente liberi emigranti, in realtà semi-schiavi costretti ad imbarcarsi con violenze e minacce, forza-lavoro venduta e commerciata come bestiame» (Guido Rampoldi) da piegare, con la sferza e sotto buona scorta armata, nelle miniere e nei campi dei ricchi fazenderos sudamericani.
E quei serpentacci linguacciuti sono andati giú di brutto, con scalpello e martello pneumatico, a riscoprire che il plurimondiale eroe, nell’estate (emisfero sud) del 10 gennaio 1852 era partito, con un carico di guano, cioè sterco di cormorani, albatri e simili volatili, dal porto peruviano di Callao, quale comandante della Carmen, un barcone di 400 tonnellate, armatore un certo Pietro Denegri, - genoveese di stirpe neh! -, negriero patentato e proprietario anche di miniere (che altri scrive don Pedro De Negri, nome emblematico), destinazione Canton in Cina.
Noi non vogliamo rimanere spettatori passivi del coro e perciò abbiamo deciso di parteciparvi, ma né come serpenti né come bruciatori d’incenso, anche se ben altro dovrebbe essere il nostro sentimento, considerando che il maledetto ha portato alla distruzione della Patria Due Sicilie ed ha consentito che gli infami savoia ci riducessero a colonia da cui non è possibile risollevarsi neppure con questo Stato repubblicano, i cui presidenti si sbracciano a proclamare urbi et orbi di voler essere presidenti di tutti gli italiani.
Abbiamo perciò deciso di esperire le opportune ricerche, per dare pane al pane e vivo al vino, e ben consci che, a trattare di colui che fu il «Primo Massone d'Italia» (grado 33 ad personam per i grandi servigi resi a calderai, a carbonari e settarii simili, in sintesi alla Massoneria), nonché «Presidente del Supremo Consiglio del Grande Oriente d'Italia» (vedi scheda nella pagina seguente), si rischia di risultare blasfemi e per conseguenza di scottarsi le dita. E dunque per prima cosa ci siamo accinti a compulsare, dopo i tre inchini di rito e lettura dell’incipit del vangelo di Giovanni, le sacre Memorie dell’eroe per vedere se qualche traccia, anche labile, dell’infame commercio non gli sia caduta dalla penna per perdita di smalto in un momento di languidezza senile, o se invece la diceria non sia per caso una bieca calunnia messa in giro da qualche irriducibile suo nemico.
Una pagina autobiografica
Proclamano dunque le sacre Memorie, estasi degli agiografi garibaldesi: «Il sig. Pietro Denegri mi diede il comando della Carmen (15 ottobre 1851, ndr), barca di 400 tonnellate, e mi preparai per un viaggio in China… Veleggiai… colla Carmen verso le isole di Cincia (esattamente «Islas de Chincha», isolotti di fronte alla costa peruviana a circa 100 km a sud di Lima, all'altezza della città di Ayacucho, ndr), ove si caricò guano, destinato per la China; e tornai a Callao per le ultime disposizioni del lungo viaggio. Il 10 gennaio 1852 salpai dal Callao per Canton. Impiegammo circa 93 giorni nel viaggio, sempre con vento favorevole. Passammo alla vista delle isole di Sandwich, ed entrammo nel mare di China tra Luzón e Formosa nelle Filippine. Giunto a Canton, il mio consegnatario mi mandò ad Amoy, non trovandosi a vendere il carico guano nella prima piazza. Da Amoy tornai a Canton: e non essendo pronto il carico di ritorno caricai per Manilla differenti generi. Da Manilla tornai a Canton, ove si cambiarono gli alberi della Carmen, trovati guasti, ed il rame (da usare per il rivestimento protettivo della chiglia, data la sua natura, tossica per i crostacei, che appesantiscono i velieri e ne riducono la velocità, ndr). Pronto il carico, lasciammo Canton per Lima … Dopo una traversata di circa 100 giorni … si sbarcò il carico a Lima» (da edizione BUR n. L1235, G. Garibaldi, Memorie, 1998).
Un dubbio
Dunque, neppure per lapsus, non una parola sulla natura del carico, né nel viaggio di andata alle isole di Cincia, né in quello di ritorno da Canton. Noi, da quelle righe, al massimo possiamo domandarci in quali tasche scivolarono i proventi del viaggio non programmato da Canton a Manilla e viceversa, perché poco dopo (per l’esattezza 9 righe dopo) la stessa biografia riferisce che, dopo il ritorno, in prosieguo di viaggio da Lima a Valparaiso e a Boston via Capo Horn, il ligure duce giunto a Boston ebbe «l'ordine di andare a New York, ove giunto ricevetti una lettera, con alcuni rimproveri dal proprietario della Carmen, che mi sembrò di non meritare; e per cui lasciai il comando di detto legno...». E qui ci viene il tormentoso dubbio se il gran capitano dica la verità o se, invece destituito per appropriazione indebita, menta spudoratamente, perché arrivato a Genova il 10 maggio 1854 se ne stette da quella data fino a febbraio 1859 a Caprera ammazzando il tempo «parte navigando, e parte coltivando un piccolo possesso da me acquistato», un piccolo possesso che poi risultò essere mezza Caprera (sí, proprio mezza isola).
Donde gli vennero i soldi per l’acquisto di tale proprietà visto cha a New York, a Staten Island, precedentemente al viaggio, per sopravvivere si era messo nella fabbrichetta del Meucci a produrre candele di sego che non rendevano un cent e che il comando di due navi poteva avergli fatto guadagnare al massimo cinquecento dollari, chiaramente insufficienti per l’acquisto del «piccolo possesso»?
La leggenda nera.
Circa il carico di ritorno della Carmen da Canton, visto che il nizzardo non ne indica la natura, donde allora è saltata fuori la leggenda nera del capitano Garibaldi negriero? Giuliano Bertuccioli, un sinologo che ricostruí il viaggio del plurimondiale eroe, affermò trattarsi di calunnie propalate dal clero retrogrado (?) di Hong Kong o Macao, ma contemporaneamente asseriva essere impossibile stabilire la natura del carico della Carmen.
Qui, in Italia, la calunnia è invece contenuta in un libro di un certo A. V. Vecchj (pseudonimo Jack La Bolina, prolifico scrittore di cose di mare), pubblicato nel 1882, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi, a cui ha fatto forse riferimento (ma la cosa non è certa perché non menzionata esplicitamente), in una intervista del 20 gennaio 1982 (giornale La Repubblica), nel centenario della morte del plurieroe, anche Giorgio Candeloro, storico del cosiddetto risorgimento. In quella intervista, alla giornalista Laura Lilli che chiedeva una «valutazione su un Garibaldi «vero«, fuori retorica», lo storico confidava: «Comunque Garibaldi, un po' avventuriero, un po' uomo d'azione, non era tipo da lavorare troppo a lungo in una fabbrica di candele. Va in Perú; e, come capitano di mare, prende un «comando« per dei viaggi in Cina. All'andata trasportava guano (depositi di escrementi di uccelli che si trovano nelle isole al largo del Perú), al ritorno trasportava cinesi per lavorare il guano: la schiavitú in Perú era stata abolita e il guano non voleva lavorarlo piú nessuno. Insomma un lavoretto un po' da negriero. Era un avventuriero, un uomo contraddittorio, fantasioso, un personaggio da romanzo».
In sostanza – come afferma Guido Rampoldi – «Candeloro dava per scontato che la Carmen avesse trasportato coolies». Quei cinesi, come già detto, venivano venduti come bestiame, per l’esattezza «come cani e maiali», sui mercati di carne umana di Cuba, Stati Uniti e Perú, e in quest’ultimo paese, guarda un po’, venivano dirottati nelle cave di guano, le cosiddette guaneras, dove il manico del mestolo lo manovrava anche quel Don Pedro Denegri armatore della Carmen.
Un mito infrangibile o quasi
Non siamo in grado di dire se il sasso lanciato da Candeloro nello stagno abbia fatto gracidare i ranocchi, cioè se altri storici si siano degnati di approfondire lo scottante argomento. Forse al vero personaggio nessuno vuol stracciare il manto di retorica e mitologia che lo avvolge, gli storici soprattutto, organici signorsí al potere italiano, temono di mandare in polvere «la ininterrotta, capillare, imponente opera di persistente rivitalizzazione del mito di Garibaldi, culminato nello scoprimento del suo monumento equestre al Gianicolo, opera del Fratello (massone, ndr) Emilio Gallori» (Aldo A. Mola, Storia della Massoneria Italiana, pag. 848, Bompiani). Eppure nella stessa intervista, il Candeloro aveva aggiunto: «La storia del Risorgimento non è sacra; è fatta da uomini, non da eroi».
Un cuor di leone non colluso
A puntino calzano qui le parole che il v. direttore del quotidiano IL GIORNALE, Paolo Granzotto, ha rivolto domenica 18 luglio c.a., ad un lettore di Padova: «Caro XXX, prenda Voltaire. Chi non lo ama? Chi non lo rispetta? Voltaire è un mito inattaccabile perché – cosí recita la vulgata – riassume in sé tutte le virtú intellettuali possibili e immaginabili. E se le dicessi – senza affermare nulla che non corrisponda alla verità – che il campione dell'egalité, della giustizia sociale, dei diritti dell'uomo, possedeva quote nel mercato degli schiavi o, per essere precisi, nella compagnia di navigazione che si incaricava di trasportarli negli Stati Uniti? Potrei stilarle una lista di mostri sacri, da Rousseau a Garibaldi, dei quali si potrebbe, senza dar torto alla storia, anche parlar male. Ma non lo si fa perché lo vietano le convenzioni o le consuetudini ...». Ma noi che non vogliamo lasciarci condizionare da consuetudini o pruderie o reticenze storiche, come l’Edipo Re di Sofocle vogliamo conoscere la verità anche se per noi il suo valore è molto relativo, e perciò ripeteremo insieme al poeta: «Ed io ti lascerò, sí: ma non prima // di avere detto a te quella parola // per cui venni».
Dalla Cina con odore
Passano gli anni, si arriva al 1998, ancora una volta, un altro linguacciuto, un giornalista di La Repubblica, il già citato Guido Rampoldi, in qualità di inviato speciale del foglio, approdato su suolo cinese, rapito dall’incanto della baia di Hong Kong, una delle tappe dell’antico lupone di mare, dal profumo dell’immenso oceano squassato dai monsoni e dal verde dell’ampio golfo, comincia a navigare gratuitamente nell’internet della memoria, un cui file gli ricorda che il navarca Garibaldi aveva fatto scalo nella bellissima baia molti lustri prima con una checchia carica di guano. Destatosi dall’onirico incanto, il nostro, invaso da eroico furore pennarulo, documentatosi a puntino, invia alla redazione un articolo (4 marzo 1998) dal titolo «Garibaldi fu negriero?»
Cosí da lui apprendiamo che anche in Oriente, dove sorge la stella del mattino, nonostante la distanza galattica da Roma, questo superlibertador della Nazione Duosiciliana era odiato, nonostante la dottrina proclami di porgere l’altra guancia, con sincero profondo sentimento dalle gerarchie ecclesiastiche cattoliche, come risulta da qualche nota schernitrice di un certo mons. Rizzolati, vicario apostolico di Hukwang, intrufolatosi nelle pagine della storia solo per essersi accoccolato all’ombra del Grande Fratello: «L'ex Maresciallo Garibaldi è qui giunto dall'America con un carico della piú eccellente Merda d'uccellame di quelle contrade ...» ed ancora, ad un altro destinatario: «Il suo carico di sterco d'uccelli, onorifica proprietà d'un Maresciallo di quella serenissima repubblica (romana, ndr) … Ecco quei grandi avventurieri che tiranneggiarono la Santa Città (Roma, ndr) ritornare a quella vile bassezza da cui indarno cercarono di emergersi». Modi molto eleganti, circonlocuzioni raffinate, da vero mandarino cinese, per comunicare la considerazione che in quelle contrade si aveva di colui che era ritenuto il nemico numero uno della Chiesa, l’incarnazione del demonio, il 666 dell’Apocalisse. E, sul retro di una comunicazione alla Propaganda Fide, da una mano sconosciuta, impropriamente, ma significativamente: «Il diavolo di Garibaldi è andato in Cina con la squadra (navale) peruviana».
La lode che uccide
Ciò che inchioda l’eroe è una frase pronunciata dal Denegri e ripetuta dal Vecchj autore della citata biografia stillante gloria e apoteosi. Come dice Rampoldi, «la sua voleva essere una lode. Ma una di quelle lodi che affossano un uomo».
In che consisteva la lode riferita dal Vecchj, alias Jack La Bolina? Leggiamola insieme: Garibaldi – avrebbe detto l’armatore Denegri a Jack: «m'ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi ed in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie». La quale frase è citata da Jack in una pagina di esaltazione dell’eroe, quindi con assoluto rispetto nei suoi confronti. Tra l’altro era figlio di un compagnone di bagordi rivoluzionari del Titano, aveva avuto con lui dimestichezza da lunga data, ne aveva conservato l’amicizia fino alla morte e perciò è da credergli senza ombra di dubbio.
Tanta lode capace di far precipitare l’eroe dal superbo piedistallo, che gli compete di diritto quale Gran Maestro Massonico di grado 33 della gerarchia iniziatica di Rito Scozzese Antico e Accettato, non poteva ovviamente rimanere senza antidoto antiofidico. I bonzi del mito garibaldino, con la faretra pregna di folgori contro i blasfemi, vegliano amorevolmente sulla loro olimpica creatura.
Il Difensore
E dunque nella rivista Rassegna Storica del Risorgimento (fasc. III, luglio/settembre 1998) [fare attenzione a questo titolo!] a firma di un certo Phillip K. Cowie è riportato un articolo, non sappiamo se in originale o in traduzione, che vorrebbe smontare la lode propalatrice dell’immagine di un Garibaldi «negriero»: «A mio avviso, l'infelice frase riportata dal Vecchi (questo avvocato d'ufficio scrive Vecchi, non Vecchj, il che dimostra che non ha mai aperto il libro del Vecchj) e ripetuta continuamente attraverso gli anni, non è storia. La frase del Vecchi non è altro che il frutto di un lamentevole malinteso linguistico». Cioè, invece di apportare prove inoppugnabili sull’inconsistenza dell’eventuale calunnia, 'sto avvocato cerca di aggirare l’ostacolo brigando sulle parole. Seguiamolo dunque passo passo nella sua arringa filologica.
In che consisterebbe il malinteso linguistico? Nella somiglianza fonetica di chino «che nello spagnolo ufficiale significa cinese» e che in Perú, per derivazione della lingua Quechua, avrebbe significato o significherebbe anche «mezzosangue» o meticcio «figlio di negro ed una donna indiana» il cui mestiere era di solito quello del contadino (colono). E, secondo il Cowie, il «Vecchi tradusse – male – quel poco di spagnolo che conosceva». E dunque fa una disamina in cinque punti:
Analisi della frase del Vecchj (cioè Jack) e studio della parola «chino», origine del malinteso linguistico;
La testimonianza del Vecchj che, a conclusione della sua difesa, il Cowie rettifica come segue: «M'ha sempre portati los chinos nel numero imbarcato e tutti grassi ed in buona salute, perché li trattava come uomini e non come bestie» mentre, abbiamo visto, il Vecchj parla di Chinesi non di los chinos sinonimo peruviano, a suo dire, di contadini (colonos);
Il carico della Carmen;
Analisi di un libro di Pino Fortini che nel 1950 scrisse del plurieroe;
Ipotesi finale.
Punto primo: riferisce sinteticamente il Cowie che «nel 1865, Vecchi, ventitreenne, si trovava a Lima in servizio militare. Era sulla fregata «Principe Umberto», nave scuola del 2° corso suppletivo, «per far sventolare la bandiera italiana nei mari americani meridionali lungo le due costiere dell'Atlantico e del Pacifico», nave italiana di nome, di fatto piemontese. La retorica è, secondo il costume del tempo, di prammatica. Vogliamo qui brevemente segnalare che le navi duosiciliane avevano solcato il Pacifico fin dal 1839.
A Lima il Vecchj conobbe il Denegri del quale fu ospite, guarda un po’, con raccomandazione del Garibaldi. Durante una conversazione amichevole, allietata da piatti della cucina ligure, ebbe la confidenza su riportata. Il Vecchj riferisce che l’idioma usato era «un conglobamento» di genovese e castigliano (cioè spagnolo). Ma lui non conosceva il castigliano, come risulta dal fatto che, facendo l’occhio di triglia a una bella signora di Lima, era costretto a interloquire in francese, e poiché l’altra era digiunissima di lingua gallica il contubernio non andò in porto. E proprio a questa misconoscenza dello spagnolo da parte del Vecchj si appella il Cowie. In sostanza il Vecchj avrebbe capito fischi per fiaschi.
Noi possiamo invece opporre che, per la misconoscenza del castigliano da parte del Vecchj, il Denegri, per non mancar di cortesia nei riguardi dell’ospite, avrebbe dovuto parlargli, per farsi intendere, se non in italiano, almeno in genovese, lingua comprensibile al suo quasi corregionale che non capiva un’acca di spagnolo e interloquire coi commensali (impiegati della ditta) in castigliano. Infatti il Denegri era di Chiavari e il Vecchj nativo di Torino, ma genovese di adozione. A Genova infatti si era diplomato nel 1862 nella Regia Scuola di Marina (corso di cinque anni), che allora «reclutava solo tra i nobili piemontesi e savoini» e a Genova stessa la famiglia Vecchj possedeva una ricca dimora, la cosiddetta Villa Spinola. Quindi, anche se a tavola si parlava in «conglobamento», la parola per forza di cose doveva essere rivolta al Vecchj in genovese, né poteva essere altrimenti.
Allora il Vecchj capí bene quel che si diceva, essendoci anche differenza fonetica tra chino, che si pronuncia «cino» e chinese, che si pronunciava allora «kinese» (infatti ancora oggi si parla di inchiostro di China). E infatti il Vecchj non smentí mai quanto ebbe a scrivere, se si consideri pure che morí nel 1932 e che, lui vivente, ombre sinistre aleggiavano sul mito del Garibaldone. Ma noi non ci siamo fermati alle sue parole. Abbiamo interpellato il Consolato del Perú a Milano. Dal Console, signor Torres, gentiluomo dai modi raffinati e disponibile alle informazioni nonostante l’afosa calura, apprendiamo invece che la parola chino ora, come pure allora, in Perú indica e indicava solamente una persona di etnia cinese, mentre per un meticcio, incrocio di indio con donna nera o di nero con donna india, si usava e si usa il termine zambo. Questa precisazione è il classico colpo che taglia la testa al toro. Dunque nessun fraintendimento da parte di Jack La Bolina.
Reticenze e logorrea
Il punto 3: lo stesso Cowie afferma che «lo stesso Garibaldi, nelle diverse redazioni delle Memorie, non ci ha aiutato, perché non precisò mai la natura di quel cargo che portò dalla Cina a Callao. Ma, per lui, non c'era bisogno di alcuna spiegazione: era stato un cargo come tutti gli altri, niente di particolare».
Però – osserviamo noi che teniamo moltissimo a mantenere immacolata la fedina penale dell’eroe senza macchia e senza paura – il memorialista Garibaldi ci tiene a far sapere (ahi, ahi!) che nel viaggio dalle isole di Cincia (Islas de Chincha) per Canton trasportava guano, ma non precisa la natura del carico sia nell’andata alle Cincia che nel ritorno da Canton. E ci fa sapere pure che dopo il ritorno a Lima e nella immediata prosecuzione del viaggio da Lima a Boston trasportava rame e lana: «si partí in zavorra (perché senza carico commerciale, ndr) per Valparaiso, ove giungendo, si noleggiò la Carmen per un viaggio dal Chilí (cioè dal Cile, ndr) a Boston con rame. Approdammo in vari porti della costa del Chilí: Coquimbo, Guasco, Herradura, e si terminò (cioè si completò, ndr) il carico con lana sopra il rame, a Islay (Perú)». E inoltre ci fa sapere che da Baltimora a Londra trasportava farina e grano, e da Newcastle a Genova carbon fossile. Prosegue infatti la biografia (subito dopo, nella medesima pagina): «Rimasi alcuni giorni a New York … ed in quel mentre, essendo giunto nel porto il capitano Figari, con intenzione di comprare un bastimento, mi propose di comandarlo per condurlo in Europa. Io accettai, e fummo col capitano Figari a Baltimore, ove si acquistò la nave «Commonwealth». Si caricò di farina e grano, e veleggiai per Londra ove giunsi in febbraio del '54. Da Londra andai a Newcastle, ove caricammo carbon fossile per Genova, e giunsimo in quest’ultimo porto il 10 maggio dello stesso anno».
Dunque nel viaggio da Lima a Genova viene indicato tappa su tappa la natura del carico. È solo nell’andata alle Cincia e nel ritorno da Canton a Lima che il nostro ne omette la specificazione. In termini legulei su questi due punti il romantico eroe verrebbe accusato di reticenza interessata.
Rimozione freudiana
È legittimo dunque il sospetto che il nostro abbia compiuto una rimozione consapevole o freudiana per non deflorare la sua immagine eroica? Parrebbe di sí, checché ne dica il Cowie, il quale tiene a precisare di aver ritrovato nel giornale El Comercio di Lima, datato 25 gennaio 1853, la nota delle merci portate dalla Carmen dalla Cina, nella quale nota, sulla cui autenticità nutriamo forti dubbi non essendo copia anastatica e autenticata da notaio, ma semplice trascrizione, effettivamente non risultano esservi cinesi.
In Perú la schiavitú sarebbe stata abolita con due decreti del grande Presidente Maresciallo Ramon Castillo datati 5 luglio e 5 dicembre 1854, come tiene a precisarci il Console peruviano signor Torres, e pertanto, il commercio di schiavi all’epoca dei fatti non era perseguito dalla legge. Per inciso, con gli stessi decreti veniva soppresso anche il tributo che gli indios erano tenuti a pagare fin dall’epoca della conquista spagnola.
I fazenderos avevano bisogno di operai per l’estrazione del guano nelle guaneras e per i lavori delle miniere e dei campi, di qui l’importazione dei chinos, che per il governo erano coloni, ma per i fazenderos invece schiavi a tutti gli effetti. Pare che lo stesso identico trattamento subissero gli zambos locali. Il Garibaldi ottenne il comando della nave il 15 ottobre, ma la partenza avvenne il 10 gennaio dell’anno successivo.
Cosa fece in quei tre mesi? Fu forse in questo periodo che trasportò sempre los chinos da un porto all’altro? La distanza delle Cincia da Callao è di circa 100 km. Una nave a vela, pur movendosi come lumaca, in capo a due giorni riusciva a coprire tale distanza. Una nave efficiente, con venti favorevoli, sappiamo, poteva però percorrere fino a 12 miglia nautiche all’ora, cioè circa 23 km, come dire che in cinque o sei ore avrebbe potuto percorrere la distanza di 100 km.
Dal 15 ottobre al 10 gennaio sono esattamente 87 giorni. Poiché per la Cina fu fatto un solo viaggio, dobbiamo arguire, se non vogliamo dire che la nave rimase alla fonda alle Cincia per quasi tutto quel tempo e che i marinai se ne siano stati con le mani in mano ad osservare il volo dei cormorani, il che è molto improbabile, che, per giustificare l’avverbio sempre usato dal Denegri, Garibaldi abbia fatto la spola per le isole Cincia. E che cosa avrebbe trasportato? La risposta non dovrebbe lasciare dubbi: los chinos, cioè i cinesi ossia i coolies, poveri disgraziati che venivano rapiti e deportati dalle coste della Cina.
L’inferno delle Chinchas
Quando si parla di schiavitú si pensa sempre a quella negra. Quella gialla tuttavia non fu meno imponente, terribile, dolorosa anche se consumata in tempi piú ristretti rispetto a quella negra iniziata a sua volta fin dai primi anni del '500, addirittura con la benedizione della Chiesa, che trovava la giustificazione dell’immorale commercio e sfruttamento in Sant’Agostino che sosteneva avere Dio «giustamente introdotta la schiavitú nel mondo come pena del peccato» e abolirla avrebbe significato andare contro la volontà di Dio (De Civitate Dei, lib. XIX, cap. 15). A quegli schiavi gialli fu dato il nome di coolies, dalla parola Kuli «affitto, noleggio» delle lingue Tamíl e Urdu. In lingua cinese i coolies venivano chiamati sprezzantemente chu-tsai, cioè porci.
La tratta iniziò, pare, nel 1847, prima dal porto di Macao e poi anche da quello di Canton, che ci interessa in modo particolare per il viaggio di cui argomentiamo. Gli schiavi venivano portati a Cuba o lungo la costa sud-occidentale del Pacifico, soprattutto a Callao in Perú, da cui una parte cospicua di loro finiva, almeno fino al 1858, come risulta da statistiche peruviane, nell’inferno delle Islas de Chincha, chiamate anche genericamente Chinchas.
In territorio cinese c’erano sensali (corretores) o pirati che provvedevano alla «merce» che veniva accatastata nei baraccamenti (estabilimientos o chu-tsai-kwan, cioè porcili) degli agenti di Macao e Canton, addirittura con la connivenza di criminali corrotti funzionari cinesi che ne ricavavano il pizzo, oppure scambiata direttamente in mare dai pirati. Le turbolenze e i tentativi di fuga di questi poveri diavoli, che non si arrendevano alle catene della prigionia, venivano domate con la frusta, le torture e perfino con la morte per dare il buon esempio. Ma spesso non occorreva la mano del trafficante-boia per spedire all’altro mondo quei poveracci, che in fin dei conti costituivano una «merce» preziosa: in quei baraccamenti la morte per epidemie e suicidi, persino collettivi, imperversava.
Proviamo ad auscultare quello che ne riferisce Pino Fortini che fece uno studio molto accurato sull’argomento nel suo libro «Audacie sui mari. Ardimenti di navigatori, avventure di pirati e di trafficanti di carne umana» (anno 1940), un libro che andrebbe letto e meditato da tutti per capire anche gli orrori della seconda guerra mondiale e quelli di cui siamo oggi muti spettatori:
«Gradatamente, all'arrivo delle navi-trasporto, la massa dei coolies era avviata verso i luoghi di destinazione fra cui tetramente famose le Chinchas, tre isolotti a sud di Callao fra il 14° e 13° grado lat. Sud … Fu in quel torno di tempo (1850) che nelle Chinchas cominciarono a penare i cinesi; senza pausa, senza sosta, nudi sino alla cintola nella tormenta del polverone. E la pena veniva resa ancor piú grave dall'ingordigia degli imprenditori. Don Domingo Elias, difatti, appaltatore del governo peruviano, riceveva quattro scellini e mezzo per tonnellata di guano, ma egli subappaltava il suo contratto a capiciurma senza scrupoli, che comprimevano le spese vive sino a ridurle sui tre scellini a tonnellata. Questo margine era raggiunto forzando senza pietà i cinesi a dare il massimo rendimento fino ai limiti estremi delle forze; costringendoli con la frusta a zappare un quantitativo non minore di sei–otto tonnellate per ciascuno al giorno. In compenso i viveri erano insufficienti e spesso avariati; gli alloggi sordidi, mentre l'alcole correva a fiumi. E quasi ciò non bastasse, la disciplina era affidata ad un ufficiale peruviano di severità proverbiale. Il pontone ove egli alloggiava portava, di consueto, alle gru o ai pennoni, dall'alba al tramonto un grappolo di otto o dieci coolies, sospesi per la cintola, lasciati sotto il sole tropicale privi di acqua e di cibo. Ma non mancavano torture anche piú sadiche; una di esse, ad esempio, era costituita da una vecchia chiatta che faceva acqua, e nella quale il punito, incatenato, doveva disperatamente aggottare (cioè rigettare l'acqua in mare con la gottazza, una specie di cucchiaia di legno di circa 30 cm, con manico corto, ndr) per non farsi trascinare al fondo. Un altro supplizio era quello di mettere il colpevole su di una boa spazzata continuamente dal mare; si esauriva naturalmente il disgraziato nel tentativo di mantenervisi aggrappato».
Uno studioso americano, Basil Lubbock, nel suo libro «Coolies ships and oil sailors», Boston, 1935, citato da P. Fortini, ibidem, pag. 120, ecco che cosa riferisce circa l’inferno delle Chinchas: «Le crudeltà delle Chinchas sono appena credibili e pochissimi cinesi riuscivano a sopravvivere piú di qualche mese …; chi non si suicidava in un modo o nell'altro, periva per il lavoro eccessivo, il polverone respirato, la deficienza di cibo adatto». Altro che Buchenwald o Auschwitz. Dov’era il cuore «generoso» dell’eroe dei due mondi quando vi si recò? Il lugubre racconto di Pino Fortini cosí continua:
«Ma per arrivare a questo … placido sito o nelle piantagioni, il coolie doveva passare attraverso un altro inferno, quello del trasporto marittimo… Una nave trasporto-coolies era identificata da lontano <
Il quale venne, vide … chiuse gli occhi su quella terrificante tragedia umana e ci mangiò sopra, perché quelli erano tempi in cui la coscienza, la cultura bianca accettava come normale quell’ignobile rivoltante attività. Vedete dunque da che razza di briganti noi del Regno delle Due Sicilie fummo liberati. E da che pulpito tuonava lo schiavista Lord Palmerston, il losco figuro che infangava il Reame nelle cancellerie d’Europa, il comparone, con altri suoi connazionali, di portoghesi, spagnuoli, francesi, americani, liguri (tra cui molto attivo il famigerato Denegri ed altri suoi corregionali i cui nomi possono essere degustati nel libro del Fortini) e piemontesi, i trafficanti di carne umana, tra i quali si trovava a suo bell’agio il cosiddetto eroe dei due mondi, che, prudentemente, nella sua autoagiografia tace riferimenti scottanti sui suoi viaggi alle Chinchas e a Canton in servizio del genovese negriero Denegri, un nome che è tutto un programma.
Alla luce di questi selvaggi precedenti si chiarificano le stragi di Bronte, Biancavilla, Siracusa, Pontelandolfo, Casalduni, Montefalcione, Auletta, Scurcola Marsicana, Pizzoli, Fiammignano, etc, e la frase che S.M. il Re delle Due Sicilie, l’eroico Francesco II, scrisse nel suo proclama agli Abruzzesi il 28 dicembre 1860: «Abruzzesi. Allorquando lo straniero minacciava di distruggere i fondamenti della nostra Patria; allorquando egli non risparmiava nulla per annientare la prosperità del nostro bel regno, e fa di noi suoi schiavi …» (vedi Nazione Napoletana n. 4/1999).
Riusciremo a spezzare le catene di questa schiavitú? Oppure il nostro Popolo vi si è talmente assuefatto da non saperle riconoscere piú?
Qualche dato sul losco traffico dei coolies, sempre secondo Pino Fortini che attinse a fonti americane: su mille schiavi catturati, circa 500 perivano alla cattura per maltrattamenti, torture e sevizie varie; 125 circa nel tragitto; 75 nel periodo di acclimatamento nelle nuove terre.
Sin dal 1841 le grandi potenze, Inghilterra, Francia, Austria, Russia, Prussia, stipularono un trattato che, a chiacchiere, parificava la tratta degli schiavi neri alla pirateria. Da quell’epoca cominciò a scemare la tratta dei negri dal continente africano, ma iniziò quella dei gialli, con metodi non meno brutali e bestiali. Ma solo nel 1854 il Perú aboliva sulla carta, come abbiamo visto, ma con scarsissimi risultati, quel flagello in danno dei Neri, ma non del popolo cinese, in notevole anticipo sugli Stati Uniti (unionisti) d’America, che a loro volta l’abolirono con legge 1° gennaio 1863, estesa, alla fine della guerra di secessione, agli Stati della ex confederazione sudista. Tuttavia ciò che diede il colpo di grazia alla tratta degli schiavi fu l’inizio dell’esportazione dei nitrati del gran deserto salato di Tarapaca: solo allora (1884) suonò a morto la campana per il guano e di conseguenza per le guaneras. Intanto, i negrieri sguazzavano già nell’oro insanguinato … e qualcuno si era comprato mezza Caprera.
Ancora la difesa di Cowie
Al punto 4. della difesa, il Cowie riferisce la tesi del Fortini. Pino Fortini in una altro «suo fondamentale studio» (anno 1950) intitolato «Garibaldi marinaio (pagine di storia marinara)» affermava «che il Vecchj è l'unico biografo, ma mai da nessuno smentito» che coinvolgeva il Garibaldi nel losco traffico un po'negriero. Il Cowie riferisce che esiste un libro pubblicato a Londra nel 1881, autore un certo J. T. Bent, dal titolo «Life of Giuseppe Garibaldi» in cui l’eroe avrebbe detto all’armatore che gli imponeva di completare il carico con schiavi cinesi: «Never will I become a traffiker in human flesh», cioè «non diventerò mai trafficante di carne umana». Già, ma come era venuta in mente al Bent l’idea provocatoria e irriverente di domandargli se era mai stato trafficante di schiavi? Come è possibile che il gianicolato eroe si metta al servizio di un negriero come Denegri senza diventare negriero, connivente, a sua volta? E come mai alle Chinchas non impugnò la durlindana, se ne stette inerte e non fece nulla per liberare gli schiavi?
Ambigua conclusione
Punto 5: alla fine dell’arringa, la conclusione a cui perviene il Cowie è possibilista: «Ovviamente non si può né si deve escludere alcunché circa la testimonianza del Vecchi», ma si contraddice immediatamente in modo lapidario: «La frase del Vecchi non è altro che il frutto di un malinteso linguistico», malinteso che abbiamo visto essere inconsistente. Due posizioni chiaramente antagoniste.
Il negriero dei due mondi
Che il romantico eroe sia stato per un certo tempo un po'negriero era convinzione del Candeloro, che è uno storico che ha sempre soppesato le parole. Ne parlano i preti di Hong Kong, che videro e riferirono e che chissà perché vengono definiti retrogradi. È probabile che, se avessero bruciato incenso in favore dell’eroe e cosparso il suo cammino di fiori, sarebbero stati definiti progressisti. Il Vecchj, amico di famiglia, parla esplicitamente di chinesi senza ombra di scandalo. E ciò è comprensibile. Per la mentalità schiavistica del secolo scorso, lo schiavismo delle etnie diverse dalla bianca non costituiva elemento di scandalo. Il caso Voltaire, il gran repubblicano, il predicatore della libertà e dell’eguaglianza e … della fraternité, insegna. Il console peruviano ha categoricamente precisato che con la parola los chinos i peruviani indicano e indicavano solamente i cinesi e perciò l’escamotage filologico del Cowie fa acqua da tutte le parti. Inoltre il silenzio sul carico per le Chinchas e da Canton è molto eloquente.
Dunque, considerato, visto, ritenuto, etc., etc., secondo la formula stereotipata dei legulei, per questi motivi
P.Q.M.
sentenziamo che l’epiteto negriero usato dal Candeloro non possa essere scrollato di dosso al massonico eroe, una macchia nera come il carbone che gli lorderà la fedina penale fino alla fine dei secoli, a meno che non subentrino elementi probanti inoppugnabili, di cui però dubitiamo.
Deliberiamo altresí che questa sentenza sia pubblicata su Nazione Napoletana – Due Sicilie perché abbia la massima diffusione tra il popolo duosiciliano.
Nei riguardi della gente delle Due Sicilie il discorso merita una considerazione in piú.
A prescindere dai crimini immediati consumati nel 1860, costui è moralmente responsabile, insieme a tutti i banditi del governo piemontese, da lui stesso definito «Governo di ladri» (biografia, pag. 189), della diaspora inarrestabile del Popolo Duosiciliano che, per sopravvivere, ha dovuto abbandonare la sua Patria, le sue radici, andare a produrre ricchezza e a potenziare l’apparato produttivo di altri paesi, lasciando in desolazione il proprio.
Considerato inoltre che, se fosse caduto nelle mani del Regio Governo delle Due Sicilie, sarebbe stato fucilato entro le 24 ore per atti di pirateria, ci è lecito trasformare l’epiteto zuccheroso di «eroe dei due mondi» di quel bandito, coniato dai suoi compari di ideologia, in «Pirata dei due mondi» o meglio «Negriero dei Due Mondi».
Così è detto, così sia (ed è) fatto.
http://www.eleaml.org/sud/storia/negriero.html#Crocco
Nessun commento:
Posta un commento