mercoledì 24 giugno 2009

La questione sociale alla fine del '700

Il Regno siculo-partenopeo

La questione sociale alla fine del '700

di Fara Misuraca ed Alfonso Grasso

La classe media meridionale

Quando durante una delle più nefande guerre di religione dei cristiani contro se stessi [1], le armate cattoliche del Giglio di Francia misero sotto assedio Lione, roccaforte protestante, si pose loro il problema se uccidere in massa, come era già stato fatto altrove, o risparmiare almeno parte della classe dirigente della città. Non si trattava di un dilemma etico, ma squisitamente pratico e utilitaristico: Lione, con i suoi professionisti, artigiani, ingegneri, commercianti, rappresentava il maggiore concentrato di ricchezza economica e intellettuale del Paese.

Gli ugonotti avevano formato una gruppo sociale del tutto speciale e originale rispetto al resto dell'Europa cattolica: si erano arricchiti con il loro lavoro ed il loro ingegno, ricercando e utilizzando nuove tecnologie e nuovi saperi. Praticavano la curiosità intellettuale e la dedizione alla propria attività come un'unica virtù; ripudiavano il dogmatismo e la superstizione, ed investivano i capitali ricavati dal loro lavoro in imprese utili alla collettività che si arricchiva tutta partecipandovi.

Ma soprattutto, ciò che orripilava gli inquisitori papali è che compravano molti libri e li leggevano in gruppo con i loro amici; addirittura le loro donne leggevano e si riunivano per discutere! Una classe sociale che si identificava quindi non solo per disponibilità materiale ma anche e soprattutto intellettuale, che non avendo le rendite di posizione di clero e nobiltà, era spinta alla libertà ed al rinnovamento.

Ciò che accadeva a Lione alla fine del XVI secolo, accadeva anche altrove, in Inghilterra, in Olanda, nelle città anseatiche, in quel territorio geografico sociale, segnato dalla riforma protestante, che diventerà il perno della modernità. Così, anche se i cattolici "sistemarono" Lione, massacrando gli ugonotti, non riuscirono ad arrestare la progressiva ascesa di quella che ancora oggi chiamiamo "classe media", da allora sempre presente e riconosciuta nei mutamenti e nelle rivoluzioni degli ultimi secoli, dalla rivoluzione americana a quella francese, sino a quella sovietica.

Nel sud siculo-partenopeo, la “classe media” – o meglio, la sua “antenata” – era stata distrutta già secoli prima, con l’avvento dei nobili creati dai conquistatori di turno, Normanni inclusi, e dalla messa al bando di Ebrei e Islamici (nel 1200 all’avanguardia nell’economia e nell’artigianato) operata da Federico II di Svevia. Feudo della Chiesa, il sud siculo-partenopeo ancora alla fine del 1600 era sottoposto all’attenta cura dell’inquisizione.

Non mancava nel sud quella che Indro Montanelli chiamava "la plebe borghese", ma che non ha niente a che fare con la classe media, poiché non ne possedeva né la propensione etica, né quella democratica, né il senso civico-nazionale. Il “popolo grasso” napoletano non aveva questa “forma mentis” e perseguiva più semplici, carnali, interessi di bottega.

L’illuminismo napoletano

La cultura meridionale esplose nel secolo dei lumi, quando nel 1734, con Carlo di Borbone, Don Carlos, come amava esser chiamato, fu rifondato nel Sud lo Stato nazionale e per vari decenni cultura e dinastia procedettero in parallelo, attuando "La filosofia in soccorso dei governi" per citare Filangieri, autore della "Scienza della legislazione" e uno dei massimi esponenti dell'illuminismo napoletano.

Gli illuministi meridionali proponevano al giovane re oltre la scienza della legislazione, la trasformazione della classe dirigente, come suggeriva il Genovesi, incentrando l'educazione sull'economia, in modo da creare una mentalità e una classe di imprenditori; una cultura anticuriale, propugnata dal Giannone, per emancipare il Regno dall’influenza papalina; l’istituzione di scuole pubbliche per diffondere l’alfabetizzazione curata dal De Cosmi [2]; una rivoluzione in campo medico, con le sperimentazioni sulle malattie infettive portate avanti dal Cotugno e la ristrutturazione dei manicomi del Pisani, con la fondazione della Real Casa dei matti, dove i malati di mente non venivano trattati come bestie da domare ma come persone da curare; una legislazione sociale che ebbe felice applicazione alla Reale Seteria di San Leucio.

La cultura in soccorso dei governi per realizzare la città dell'uomo, visto il fallimento della realizzazione della città di Dio in terra.

Gli uomini di cultura suggerivano programmi per i ministri spagnoli, toscani e inglesi che operavano alla Corte di Napoli, a dimostrazione dell’universalità della cultura europea del settecento illuminato. La cultura diventava “napoletana” se espressa a Napoli o francese se espressa a Parigi, ma scevra dal timore di perdere quella “identità” che, contrariamente a quanto oggi si predica da più parti, viene ad essere persa proprio per la mancanza di confronto e di apertura con altre tradizioni e “culture” popolari.

La rivoluzione del 1799

Nonostante tutto questo, nonostante le felici premesse, è indubbio che Croce ebbe ragione ad affermare che il regno di Napoli iniziò il suo declino nel 1799 allorché, quando la rivoluzione in Francia era già finita, a Napoli esplose… la rivoluzione.

Questo evento lacerante annullò la collaborazione tra gli illuministi e i Borbone (hanno avuto paura, che male c’è?) [3]. Alcuni degli intellettuali infatti passarono dal ruolo di collaboratori del governo al ruolo di governanti di una Repubblica con una Costituzione di cui dirà razionalmente lo stesso Cuoco, uno dei padri costituenti, che "se è buona per tutti gli uomini, vuoi dire che non è buona per nessuno".

Nel '99 le riforme del Regno siculo-partenopeo erano ancora quasi tutte da fare solo alcune cose erano state realizzate dai governanti del "dispotismo illuminato". C’erano certamente San Leucio; il catasto onciario che rendeva certe le proprietà; la stazione marittima; l'Albergo dei Poveri; la limitazione del potere feudale a difesa della libertà personale; un principio di rivoluzione industriale con garanzie sociali, sanitarie e previdenziali. Ma si trattava di “fiori all’occhiello”, e a quei fiori mancava l’asola (e la giacca) su cui portarli!

Mancava la cosa più importante: la ricca borghesia imprenditrice [4] e la classe operaia. Mancava un forte substrato sociale e consapevole su cui costruire una società solidale [5].

La mancanza di una classe borghese e operaia diffusa nel regno faceva si che nei bassi della capitale o delle città più importanti e a pochi chilometri da esse, nelle campagne, cominciasse la miseria ed il degrado sia fisico che civile. I “lazzari” saranno stati una “simpatica” curiosità per i viaggiatori ma non erano certamente un segno di benessere!

Purtroppo quella rivoluzione ormai fuori tempo, la repressione violenta operata dalle truppe del cardinale Ruffo, il taglio netto con gli intellettuali, impedirono lo sviluppo dell’imprenditorialità che aveva visto il sorgere di promettenti industrie che riguardavano la lavorazione del lino e della canapa, le fonderie, gli stabilimenti meccanici, i cantieri navali, il legno, la trasformazione dei prodotti della terra.

Duecento anni fa il regno meridionale non aveva niente da invidiare a nessuno e, in Italia, per popolazione, forma urbana, arte, rapporti con l'estero, era tra i primi. Poi accadde qualcosa, una rivoluzione fuori tempo e soprattutto senza “corpo”. Il centro della vita rimase quello di sempre: di qua la plebe, di là gli aristocratici, il piano nobile e il “vascio”. Non si può istaurare una democrazia se non c’è un popolo che la esercita. Non bastano “repubbliche” né “costituzioni” se la società è costituita soltanto da due fasce estreme, i servi e i padroni. Londra e Parigi, che avevano gli stessi problemi, andarono avanti: ebbero la rivoluzione borghese e industriale e man mano instaurarono la democrazia. Realizzarono ciò che G.B. Vico aveva teorizzato da tanto tempo: posero davanti a tutto il diritto delle genti.

Non dissimile da allora è oggi la situazione in buona parte dei territori meridionali: la mancanza di una classe sociale intermedia matura, capace di muoversi in maniera indipendente e socialmente. Ci troviamo di fronte ad una massa amorfa, ignorante, a-sociale, disposta solo a farsi sfruttare nel miraggio di un facile guadagno quotidiano. Niente di nuovo rispetto al popolo dei “lazzari” con la differenza che oggi lo sfruttatore non è l’aristocrazia “illuminata” ma la criminalità.

Con il 1799, gli intellettuali avevano di fatto rinunciato a quello che era stato un elemento basilare e peculiare dell’illuminismo napoletano: l’originalità, l’essere precursori e propulsori. Con l’arrivo delle truppe francesi, si inizia la fase dei “liberatori” a cui spalancare le porte e con cui collaborare in posizione gregaria. Quest’atteggiamento si stabilizzerà nell’Ottocento dei “paglietti”, e resterà presente fino ai nostri giorni con i politici meridionali incapaci di elaborare strategie e politiche originali.

A Napoli, la porta del palazzo Serra di Cassano, fu riaperta nel 1995 in segno di riconciliazione con la cultura partenopea, dopo duecento anni di ostinata chiusura. Alla fine della rivoluzione napoletana del 1799, i Serra di Cassano avevano deciso di fare il muso duro al re che aveva mandato a morte Gennaro, il principe rivoluzionario, trasformando la facciata del loro palazzo in un retro accecato, da esporre, per spregio, alla prospiciente reggia dei Borbone. Nella odierna défaillance dell'ordine pubblico napoletano, colpisce l'aggressione sistematica delle famiglie alle volanti che vanno ad arrestare i loro criminali congiunti. A questa resistenza tribale della malavita che capita solo a Napoli, almeno nel mondo occidentale, vengono contrapposte riunioni, dibattiti, statistiche, giudizi, invettive che, però, non recepiscono l’essenza del problema: a Napoli si era rotto da tempo il tessuto sociale.

Napoli

Colpisce ancor più l'ignoranza della storia. Napoli non è una città qualunque, ma una delle due (ex) capitali italiane (l'altra è Milano) che non hanno assimilato l'illuminismo dall'esterno, ma l'hanno prodotto in loco. Nel Settecento la patria di Giambattista Vico è stata una delle più importanti metropoli europee, assieme a Parigi, Londra, Vienna, Pietroburgo e Madrid, e ha sviluppata una sottile vocazione razionalista, ben rappresentata da Filangieri, Cuoco, Giannone e tanti altri. Ma nell'Ottocento l'eredità illuminista era stata persa di vista. E così il velo di civiltà che copriva una plebe immensa e via via sempre più povera, deportata dalle campagne e stipata nei bassi, si era rotto e la città era rimasta senza educatori.

Da allora vi è come una nube a sostenere il castello delle incongruenze napoletane: quella strana indulgenza e comprensione per i difetti, e la convinzione di esserne individualmente esenti. Continuiamo ad agire con la nostra teatralità, attenti a ben figurare ed a pronunciare frasi ad effetto, farcite di antichi detti e proverbi, indovinelli, perifrasi, insinuazioni.

Dal Settecento ad oggi

Nel ‘700 gli intellettuali meridionali - magari numericamente pochi, ma molto forti ideologicamente – furono capaci di ragionare in termini di programmi e prospettive. Costoro perseguivano fini ideali come il risveglio del pensiero, la diffusione dell'istruzione e il rinnovamento culturale e civile che tuttavia avevano un importante risvolto pratico come fisiocrati ed economisti, filosofi, moralisti e legislatori ben sapevano nella convinzione che la conquista dell’istruzione avrebbe portato ad un generale miglioramento delle condizioni del popolo. La riforma settecentesca, contrariamente a quanto piace credere, non voleva mirare all’indebolimento della monarchia ma al suo rafforzamento con la conquista della pubblica opinione, la preparazione di funzionari capaci e di sudditi fedeli, la vittoria nel contrasto con il potere della Chiesa, in una parola la realizzazione dell'assolutismo “illuminato”. Nel '700 per voce di Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri, Scipione Maffei si iniziò a realizzare quel legame tra scuola e mondo del lavoro che da allora sarebbe stato considerato una conquista acquisita nella storia delle istituzioni scolastiche e che ha portato allo sviluppo di una “società civile”. E' proprio questo ceto, ricco di curiosità intellettuale e critico nei confronti delle superstizioni religiose, che sparirà completamente e definitivamente da Napoli e dal regno a seguito del 1799. Ancora oggi non esiste.[6]

il problema odierno dei “fetenti”, cioè di quella enorme massa di napoletani che vivono nella violenza, malvivenza ed ignoranza, è tuttora insoluto proprio per l'incapacità di formare una classe media, istruita quanto basta per farle riconoscere ed amare la legalità. Napoli si delinea così come un “luogo”, dove vivono comunità diverse che si disprezzano tra di loro, in un'incomunicabilità sociale che salva solo le apparenze.

Indicativa della perdita dei valori dell’illuminismo fu la maniera di diffusione della costituzione siciliana del 1812: non ci fu una versione “in siciliano”, ma la divulgazione e l’interpretazione per il popolo fu affidata ai “preti”, unico "mezzo di comunicazione/ persuasione/ superstizione/ coercizione" tra classi che, pur vivendo fisicamente nello stesso “topos”, erano tra di loro distanti anni luce: i padroni, grandi o piccoli, ma pur sempre padroni, l’aristocratico ed i suoi “campieri” e i servi da sfruttare e manipolare.

Tutti attaccatissimi alla terra, alla città, alla civiltà, ai prodotti, alla cultura … nessuno però che si curi di "uomini": l'umanità si ferma alla famiglia e agli antenati, i simili non esistono, o tutt'al più sono un fastidio.

È questo eccesso di individualismo che sta alla base dell'asocialità meridionale, sfruttata e alimentata ad arte da approfittatori-politici-malviventi di varie latitudini. L'eccesso di individualismo genera anche la perversa questione sociale, cioè la comunità (sic!) suddivisa economicamente in caste, e razzialmente in "signori" e "popolo".

Tra la fine del 700 ed oggi non c'è molta differenza, in fondo!

Fara Misuraca

Alfonso Grasso

novembre 2006

Note

[1] La guerra iniziò nel 1562, quando i cattolici massacrarono i protestanti di Vassy, e terminò nel 1598 con l’editto di Nantes, che riconosceva in parte la libertà di culto. Culmine della violenza di quella guerra fu la notte di San Bartolomeo, tra il 23 ed il 24 agosto 1572, in cui migliaia di ugonotti vennero massacrati dai cattolici a Parigi.

[2] Giovanni Agostino De Cosmi (Casteltermini-Agrigento 1726- Palermo 1810) divenne sacerdote nel 1749 e passò la sua vita soprattutto nell'insegnamento in vari istituti, negli studi e nell'attività pastorale. Nel 1770, all'indomani della cacciata dei gesuiti dal Regno (1768) vinse una cattedra di teologia dogmatica nell'ex collegio dei Gesuiti a Catania e nel 1777 ebbe l'incarico di riorganizzare gli studi del seminario; due anni dopo il governo borbonico lo incaricò di redigere un piano di studi per la riorganizzazione dell'università di Catania e nel 1788 divenne direttore generale delle scuole normali di Sicilia.

[3] Un male ci sarebbe: un re, un capo non dovrebbe mai mostrare di aver paura, ma in Italia ne abbiamo avuto altri re che sono fuggiti dinanzi al pericolo!

[4] Molte delle imprese erano a capitale straniero. Il regno borbonico anche successivamente non sembra rientrare nel modello ottocentesco dello sviluppo capitalistico contestuale alla liberalizzazione della società civile. Il caso della ferrovia data in appalto a Bayard, o delle industrie vinicole affidate agli inglesi, il capitale straniero e la penetrazione finanziaria e tecnologica straniera nel Regno napoletano anziché avere un ruolo propulsivo, al contrario di quanto avveniva in altri Paesi europei, non condusse ad esperimenti e atti politici di tipo liberal-borghese.

[5] E interessante a questo proposito il commento che il Cuoco fa nell’introduzione alla seconda edizione del suo “Saggio…”

“I primi repubblicani furono tutti delle migliori famiglie della capitale e delle province: molti nobili, tutti gentiluomini, ricchi e pieni di lumi; cosicché l'eccesso istesso de' lumi, che superava l'esperienza dell'età, faceva lor credere facile ciò che realmente era impossibile per lo stato in cui il popolaccio si ritrovava. Essi desideravano il bene, ma non potevano produrre senza il popolo una rivoluzione; e questo appunto è quello che rende inescusabile la tirannica persecuzione destata contro di loro.

Chi legge con attenzione vede chiaramente che questo appunto ivi si vuol dire. Io altro non ho fatto che riferire quello che allora disse in difesa de' repubblicani il rispettabile presidente del Consiglio, Cito; e Cito era molto lontano dall'ignorare le persone o dal volerle offendere.

Sarebbe stoltezza dire che le famiglie Carafa, Riari, Serra, Colonna, Pignatelli... fossero povere; ma, per produrre una rivoluzione nello stato in cui allora era il popolo napoletano, si richiedevano almeno trenta milioni di ducati, e questa somma si può dir, senza far loro alcun torto, che essi non l'aveano. La ricchezza è relativa all'oggetto a cui taluno tende: un uomo che abbia trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo privato, ma sarebbe un miserabile sovrano.

Si può occupare nella società un grado eminentissimo, e non essere intanto atto a produrre una rivoluzione. Il presidente del Consiglio occupava la prima magistratura del Regno, e non potea farlo: ad un reggente di Vicaria, molto inferiore ad un presidente, ad un eletto del popolo, moltissimo inferiore al reggente, era molto piú facile sommovere il popolo.

Lo stesso si dice del nome. Chi può dire che le famiglie Serra, Colonna, Pignatelli... fossero famiglie oscure? Che Pagano, Cirillo, Conforti fossero uomini senza nome?... Ma essi aveano un nome tra i saggi, i quali a produr la rivoluzione sono inutili, e non ne aveano tra il popolo, che era necessario, ed a cui intanto erano ignoti per esser troppo superiori. Paggio, capo de' lazzaroni del Mercato, è un uomo dispregevole per tutti i versi; ma intanto Paggio, e non Pagano, era l'uomo del popolo, il quale bestemmia sempre tutto ciò che ignora."

[6] A. Genovesi nelle sue analisi mette in luce lo stretto rapporto fra istruzione ed economia è messo in luce dalle analisi di, che sostengono l'importanza di una estesa rete di scuole di base e la moltiplicazione delle scienze utili e di uomini che producano. “ In un popolo colto – scrive Genovesi - sono sì importanti le teorie, ma non è necessario che siano “troppo comuni”, “ben è importante, che il sieno le pratiche delle Scienze utili. E’ bene che vi sieno de’ gran Geometri, Fisici, Astronomi, Architetti, ecc. Teologi: ma non è necessario, né utile, che sieno soverchi”. “Io non comprendo già in questo le scuole del leggere, e di scrivere la propria lingua: conciosiacché non faccia male, ch’elleno sieno alquanto più numerose di quelle delle Scienze, servendo a dare dello spirito alla nazione, e più di destrezza e finezza all’Arti”.

Il legame fra lo sviluppo delle attività produttive ed economiche e la crescita culturale e civile delle popolazioni è sottolineato anche da Giovanni Agostino De Cosmi in Ragionamento su la pubblica educazione, che parte dall’analisi delle condizioni di miseria e di arretratezza della Sicilia; osservava De Cosmi che "la condizione estremamente povera è d'un ostacolo invincibile alla formazione sociale della mente e de' sentimenti; toglie il coraggio alle radici, impicciolisce lo spirito, e lo rende pressoché insensibile al dolce senso del dovere di uomo, di padre, e di cittadino". Il governo doveva quindi farsi carico di una istruzione di base per tutti con un "metodo chiaro, spedito, uniforme" per offrire gli strumenti della cultura nazionale, utili "quanto basta al comune servigio" e allo svolgimento dei diversi mestieri e delle principali attività professionali.

Bibliografia

*

Gleijeses Vittorio, La Storia di Napoli, Società Editrice Napoletana, 1977
*

Gleijeses Vittorio, La guida storica, artistica, monumentale, turistica della città di Napoli e dei suoi dintorni, Società Editrice Napoletana, 1979
*

Maggiani Maurizio, La classe media non si misura sui soldi, articolo 11/06, Il Secolo XIX
*

Vertone Saverio, Napoli e il tabù della tolleranza zero, articolo 11/06, Il Secolo XIX

Pagine correlate

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Renato Guttuso
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I Normanni
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Federico II di Svevia
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Carlo ed il ministro Tanucci
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I successori di Tanucci
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Gaetano Filangieri
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Antonio Genovesi
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Domenico Cotugno
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La Reale Seteria di San Leucio
*

L'istruzione ed educazione nell'ultimo cinquantennio borbonico
*

La Costituzione della Repubblica Napoletana
*

Giambattista Vico
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Vincenzo Cuoco
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Pietro Giannone
*

La Costituzione siciliana del 1812

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