martedì 30 giugno 2009

Industria metalmeccanica e siderurgica -- Il Regno delle Due Sicilie prima dell’Unità

Testo di Giuseppe Ressa
Editing e immagini a cura di Alfonso Grasso

Nel Sud esistevano circa 100 industrie metalmeccaniche di cui 15 avevano più di 100 addetti e 6 più di 500 [1]; a Pietrarsa, era attiva la più grande industria metalmeccanica d’Italia estesa su una superficie di 34mila metri quadri, l’unica in grado di costruire motrici navali[2] e le Due Sicilie erano l’unico Stato della penisola a non doversi avvalere di macchinisti inglesi per la loro conduzione poiché, dalla sua fondazione, fu istituita la “Scuola degli Alunni Macchinisti”.

Erano costruiti, oltre agli oggetti dell’industria metalmeccanica (torni, fucine, cesoie, gru, apparecchiature telegrafiche, pompe, laminati e trafilati, caldaie, cuscinetti, spinatrici, foratrici, affusti di cannone, granate, bombe) anche locomotive e vagoni, inoltre solo Pietrarsa, in Italia, possedeva la tecnologia avanzata per realizzare i binari ferroviari. Questa officina meccanica, nata nel 1840, tra Portici e S. Giovanni a Peduccio, precedeva di 44 anni la costruzione della Breda e di 57 quella della Fiat ed era molto rinomata in tutta Europa. I Savoia, ben quindici anni più tardi, a metà dell’800, chiesero e ottennero di poterla riprodurre in scala, senza pagare i diritti, nel primo stabilimento metalmeccanico del regno di Sardegna, la futura Ansaldo di Genova; anche lo Zar Nicola I, dopo averla visitata, la prese come esempio per la costruzione del complesso di Kronstadt.

Alla vigilia dell'unità, al Nord solo l'Ansaldo di Genova è a livello di grande industria, tuttavia essa aveva 480 operai contro i 1.050 di Pietrarsa di cui 820 “artefici paesani” (disegnatori, modellatori, cesellatori, tornitori, limatori, montatori) e 230 “operai militari” che alloggiavano in una caserma all’interno dello stabilimento.

Inoltre, accanto a Pietrarsa sorgevano la Zino ed Henry (poi Macry ed Henry) e la Guppy entrambe con 600 addetti; la prima specializzata nel produrre materiale destinato ai cantieri navali, macchine cardatrici per l’industria tessile, materiale rotabile per le ferrovie; la seconda, oltre a essere uno dei maggiori fornitori di prodotti per uso delle navi (guarnizioni, chiodi, viti, vernice) e la seconda fabbrica italiana di questo specifico settore, fornì il supporto delle 350 lampade per la prima illuminazione a gas di Napoli (che fu la terza città europea ad averla, dopo Londra e Parigi). Giovanni Pattison, entrato in società con Guppy, progettò una locomotiva tecnologicamente all’avanguardia, in grado di superare anche pendenze del 2.5%, come nel tratto collinare Nocera-Cava [3] e questo dimostrò “il potenziale raggiunto dall’industria metalmeccanica del Mezzogiorno, che a passi da gigante aveva compiuto un ciclo iniziato solo pochi anni prima…….attrezzi agricoli erano prodotti nel casertano dall’industria del marchese Ridolfi, che oltre a fabbricare vomeri, zappe, vanghe, erpici….fu l’ideatore di un nuovo e più razionale aratro detto “coltro toscano” che venne anche esportato, perché riconosciuto perfetto e più agevole”[4]

Nel 1861, al momento dell’unità, vi erano tre fabbriche in Italia in grado di produrre locomotive: Pietrarsa, Guppy ed Ansaldo, due erano al Sud e la loro efficienza e concorrenzialità è comprovata dal fatto che prima dell’unità esportassero in Toscana, affrontando maggiori costi di trasporto rispetto alla più vicina Ansaldo di Genova. La prima locomotiva italiana fu finita di costruire a Pietrarsa il 19 giugno 1836; nel 1846 furono vendute al Regno di Sardegna, allora privo di fabbriche industriali, alcune locomotive che furono consegnate dal 1847 e regolarmente pagate, i loro no­mi erano: Pietrarsa, Corsi, Robertson, Vesuvio, Maria Teresa, Etna e Partenope[5]; alla riunione degli scienziati italiani, tenuta a Genova nel settembre 1846, si magnificava il fatto che “artefici italiani costrutte già 30 macchine locomotive, e macchinisti italiani che le governano”[6].

Nel cuore dell’aspra montagna calabra, attorno a Serra San Bruno, sorgeva, in un’area di 12.000 metri quadrati, il Complesso siderurgico di Mongiana, il cui primo nucleo era stato creato nel 1768 e che, in tempi successivi, andò a comprendere, oltre alla fonderia, le ferriere di San Bruno, San Carlo, San Ferdinando e Real Principe, era il primo produttore in Italia di materia prima e semi-lavorati per l'industria metalmeccanica, lavorando a pieno regime 13.000 cantaja di ghisa annue (1.167 tonnellate) senza alcun segnale di crisi; la materia prima era fornita dai giacimenti calabresi di Pazzano, ricchi di ferro e grafite. Oggi Mongiana è un piccolo borgo con pochi abitanti e Ferdinandea è spopolata, ma nel trentennio che precedette la fine del regno il fermento era vivissimo; il numero massimo di operai raggiunse le 1500 unità[7] (che salivano a 2000, compreso l’indotto) e si produceva ghisa e ferro malleabile d’ottima qualità, compreso quello che servì per la realizzazione delle catene, di circa 150 tonnellate, dei due magnifici ponti sul Garigliano e sul Calore, costruiti rispettivamente nel 1832 e nel 1835. La regione Calabria annoverava, insieme ad altri stabilimenti siderurgici minori: industrie tessili con 11 mila telai complessivi (solo quella della seta impiegava tremila persone), estrattive (sale a Lungro con più di mille operai, liquirizia, tannino dal castagno), industria manifatturiera (cappelli, pelletteria, mobili, saponi, oggettistica in metallo, fino ai fiori artificiali), distillerie di vino e frutta; tutto questo ne faceva la seconda regione più industrializzata del Sud dopo la Campania.[8].

Trecento operai (fonditori, staffatori, fuochisti, forgiatori) lavoravano nella Real Fonderia di Castelnuovo producendo cannoni, fornaci ed altri utensili di tipo industriale; un altro impianto metallurgico notevole era la Real fabbrica d’Armi di Torre Annunziata, attiva già dal 1759, che produceva fucili e armi varie comprese alcune di lusso considerate tra le migliori d’Europa.

Citiamo anche lo stabilimento Oomens (macchine agricole e tessili), la fonderia di S.Giorgio a Cremano, l’opificio di Atina, quello della Società ferroviaria Bayard, 8 ramerie e 4 ferriere nel salernitano ma altre fabbriche erano attive in tutti il Sud ma è “impossibile elencare tutti i piccoli e medi opifici metalmeccanici sorti grazie all’intraprendenza degli artigiani locali o di imprenditori del settore tessile interessati ad acquistare le macchine necessarie”[9]

Giuseppe Ressa


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[1] Gennaro De Crescenzo, op..cit. pag 112

[2] “perchè il braccio straniero \ a fabbricare le macchine mosse dal vapore \ il Regno delle Due Sicilie più non abbisognasse”, così era scritto nell’epigrafe della lapide a ricordo della fondazione.

[3] N.Ostuni, Iniziativa privata e ferrovie nel Regno delle Due Sicilie, Giannini, Napoli, 1980, pag.72

[4] D. Capecelatro Gaudioso, Una capitale un re un popolo, , Gallina, Napoli, 1980, pag.88

[5] Cfr. Il centenario delle ferrovie italiane 1839-1939 (Pubblicazione celebrativa delle FF.SS.), Roma 1940, pp.106,137 e 139

[6] D.Mack Smith, Il Risorgimento italiano, Laterza, 1999, pag. 122

[7] da “Sole 24 ore” del 12\03\2004

[8] ibidem

[9] Eduardo Spagnolo in “Due Sicilie” settembre-ottobre 2001

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