lunedì 21 ottobre 2019
INTERVISTA AL GIUDICE GUIDO SALVINI 12 DICEMBRE 1969
Maurizio Barozzi
Intervista al giudice Guido Salvini (1953), già giudice istruttore dal 1989 al 1997 su piazza Fontana.
Noi riteniamo che è stato il giudice che più di tutti ha inquadrato esattamente la realtà e la portata della strage di Piazza Fontana.
Altri magistrati che si sono occupati di queste vicende: i D’Ambrosio, i Casson, ecc., hanno finito per formulare una “verità” che risulta non troppo sconvolgente e compromettente per lo Stato, indicando più che altro eversori neri, massonerie deviate e Servizi infedeli o deviati (e “malori attivi” per la morte di Pinelli),
Salvini ha scoperto il velo che nascondeva la presenza degli americani, della Nato con gli ordinovisti del Triveneto che frequentavano le basi Nato Ftase di Verone e Setaf di Vicenza e il ruolo della famigerata Aginter Press di Lisbona dietro cui si celava la Cia, portando alla luce quel Carlo Digilio, ordinovista e spia della Cia e altri ordinovisti del Triveneto facenti parte della rete di informatori per gli americani o per il Sid.. .
Salvini era scomodo e pertanto usarono ogni mezzo per togliergli l’inchiesta, che proprio in quei primi anni ’90 metteva a rischio l’assunzione al governo delle sinistre che, oramai sdoganate, avevano interesse ad una verità non troppo compromettente per lo Stato con eversori neri (capirai, che “eversori”, tutti sotto controllo degli Apparati di sicurezza dello Stato), massonerie deviate (come se esistessero massonerie democratiche) e Servizi infedeli (una vera barzelletta).
Eppure nel 2005 la Cassazione sentenziando che con le nuove prove, dietro la strage di piazza Fontana, c’era la cellula di Freda e Ventura (che non sono però più processabili) e qualche anno dopo impartendo l’ergastolo a Carlo Maria Maggi capo di ON del triveneto per la strage di Brescia, ha dato ragione a Salvini.
Questa intervista ha stata pubblicata nel libro di Luciano Lanza "Bombe e segreti. Piazza fontana: una strage senza colpevoli", Elèuthera, 2009 (il testo completo del volume è anche online dal sito MicriMega e riportata, con versione aggiornata al 2009 http://temi.repubblica.it/…/piazza-fontana-quella-verita-d…/
Qui nel testo le domandee le risposte sono separate dallo spazio interlinea
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PIAZZA FONTANA, QUELLA VERITÀ DA NON DIMENTICARE.
Intervista di Luciano Lanza a Guido Salvini
Con la sentenza della Cassazione del 3 maggio 2005 si chiude l’infinita storia giudiziaria legata alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Una storia complessa, contraddittoria, piena di reticenze, di «misteri». Eppure in primo grado, il 30 giugno 2001, erano stati condannati all’ergastolo tre neonazisti (Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi e Giancarlo Rognoni) e un altro (Stefano Tringali) a tre anni per favoreggiamento. Poi il 12 marzo 2004 la Corte d’appello assolve i tre e riduce a un anno la pena a Tringali. La Cassazione ha confermato quella sentenza. Per quali ragioni si passa da una condanna a un’assoluzione?
A questo bilancio apparentemente solo negativo vorrei aggiungere subito la circostanza spesso dimenticata dagli organi di informazione che, comunque, alla fine di queste indagini, per la strage di piazza Fontana un colpevole c’è ed è Carlo Digilio. Lui per più di dieci anni, prima di fuggire a Santo Domingo, aveva svolto per il gruppo veneto di Ordine nuovo, non solo mestrini ma anche padovani, il ruolo di «tecnico» in materia di armi e di esplosivi.
La Corte d’assise di appello e la Cassazione, pur assolvendo gli altri imputati per incompletezza delle prove raccolte, non hanno infatti toccato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto Digilio colpevole quale partecipe alla fase organizzativa degli attentati, dichiarando in suo favore, come vuole la legge, la prescrizione (che in quel caso scattava automaticamente) grazie alle attenuanti dovute per la sua collaborazione. Digilio era il «quadro coperto» di Ordine nuovo: si occupava della logistica, e non era certo un anarchico né un seguace di Giangiacomo Feltrinelli o un agente del kgb. E ciò significa, lo si legge nella stessa sentenza di appello, come la strage e tutti gli attentati collegati abbiano una paternità certa sul piano storico-politico: sono stati ideati e commessi dai gruppi neonazisti, cioè quelli già al centro della prima indagine dei giudici Giancarlo Stiz e Pietro Calogero.
Sul piano tecnico in sostanza le dichiarazioni di Digilio, di Martino Siciliano (che aveva partecipato solo ad alcuni attentati «preparatori») e degli altri testimoni sono state ritenute sufficienti per quanto concerne le loro responsabilità ma, in sede di appello, non sufficienti, e incomplete, per affermare la responsabilità delle persone da loro indicate come complici.
Tutto questo nella grande maggioranza dei commenti è sfuggito. Così si è dimenticato come le indagini milanesi negli anni Novanta abbiano definitivamente collocato la strage nella casella politica già intuita da coloro che, pochi mesi dopo il 12 dicembre1969, avevano pubblicato il modello di ogni lavoro di «controinformazione»: il libro La strage di Stato. Ma oggi i principali imputati sono stati assolti tagliando, se non la paternità dell’operazione, buona parte di quel «film della strage» descritto nei verbali istruttori. Perché poi si passi da una condanna a un’assoluzione è evidentemente un problema di valutazione delle prove raccolte. Prove che è stato difficile portare in dibattimento anche perché a distanza di trent’anni molti ricordi sfumano, molti testimoni non sono quasi più in grado di testimoniare in un’aula anche per ragioni di salute e molti sono morti o comunque scomparsi.
Nella mia veste professionale, io rispetto ovviamente tutte le sentenze e non ho timore di dire che sia la sentenza di condanna sia la sentenza di assoluzione erano serie e motivate. Ma mi sento anche di dire che nelle sentenze di appello e della Cassazione si è tornati un po’ alla discutibile logica, presente anche nei primi processi per piazza Fontana e negli altri processi per strage, della «frammentazione» degli indizi. Tale logica porta invariabilmente all’assoluzione perché ciascun indizio, valutato singolarmente come insufficiente, non viene aggiunto e concatenato a quelli successivi ma quasi «buttato via», e la somma finale resta sempre zero. Se qualcuno esalta le stragi, possiede i timer, commette gli attentati preparatori e magari il 12 dicembre 1969 era a Milano e non a casa sua, è vero che ciascun indizio preso da solo non prova in sé la responsabilità per la strage di piazza Fontana, ma l’interpretazione complessiva e non frammentaria di questi stessi indizi può dare un risultato diverso. Soprattutto mi sembra sia stata un po’ tralasciata nelle sentenze l’analisi del movente di un fatto simile, in quel particolare contesto storico-politico, a sua volta in grado di illuminare gli indizi e i personaggi. Una strage non è un reato a fini di lucro, ma ha un movente politico che va sempre cercato per capire se è in consonanza con i moventi ad agire degli imputati. E questa ricerca è quasi del tutto assente nelle motivazioni anche se lo scenario fornito dai documenti, tra cui quelli acquisiti da alcuni archivi, è assai ricco. E mi sento di dire che il movente, se preso in esame, sarebbe stato giudicato in sintonia con l’ideologia e la strategia dell’ambiente degli imputati.
Non dimentichiamo: Ordine nuovo ha compiuto molti attentati prima e dopo il 12 dicembre 1969, era l’unica organizzazione terroristica che non si poneva il problema dell’eventuale verificarsi di vittime civili e, nei documenti cui si ispirava, era teorizzata la necessità di contrastare subito e con ogni mezzo, compreso il caos, l’avanzata del comunismo, favorita da un sistema parlamentare borghese ritenuto imbelle e putrescente in cui si salvavano, forse, solo i militari.
C’è però un elemento importante: in tutte quelle tre sentenze viene confermata la responsabilità di due protagonisti: Franco Freda e Giovanni Ventura. Quegli stessi personaggi individuati dal giudice di Treviso Stiz come responsabili degli attentati del 25 aprile 1969 a Milano, degli attentati sui treni tra l’8 e il 9 agosto e infine delle bombe del 12 dicembre. Senza dimenticare Guido Giannettini, informatore del sid, il servizio segreto italiano dell’epoca, uscito però dall’iter processuale nel 1982. Insomma, i giudici riconoscono che c’erano dei colpevoli, che erano dei neonazisti, ma non sono condannabili perché ormai definitivamente assolti. Allora la matrice di quegli attentati e della strage è indiscutibile o no?
Certamente, la matrice della strage è ormai indiscutibile, la sua firma è la croce celtica di Ordine nuovo. Come lei ha detto, anche le ultime sentenze di assoluzione hanno una «virtù segreta», e cioè scrivono esplicitamente cose chiare: dopo le nuove indagini, è da ritenersi raggiunta la «prova postuma» della colpevolezza di Freda e Ventura, non più processabili perché assolti per insufficienza di prove per la strage di piazza Fontana, anche se già condannati per gli attentati precedenti. In Italia, come in tutti gli altri paesi civili, le sentenze di assoluzione tecnicamente non sono soggette a revisione. Si può scoprire anche vent’anni dopo che un’assoluzione è stata pronunziata per sbaglio ma ormai è così, solo le sentenze di condanna possono essere riviste.
L’elemento nuovo e storicamente determinante nei confronti dei padovani sono state le sofferte testimonianze del 1995 di Tullio Fabris, l’elettricista che attaccava i lampadari nello studio legale di Freda. Una persona ignara ed estranea al gruppo. Ma Freda, con una certa imprudenza e impudenza, l’ha coinvolto nell’acquisto dei timer. Nel 1995 Fabris (aveva già raccontato sin dall’inizio di aver accompagnato Freda ad acquistare i timer) ha spiegato di non aver mai rivelato la parte più consistente di quella storia perché più volte minacciato nel suo negozio dagli ordinovisti padovani dopo aver saputo che lui aveva rilasciato la sua prima deposizione. Fabris ha raccontato, con molti particolari tecnici, come qualche giorno dopo l’acquisto, nello studio di Freda, mentre Ventura prendeva appunti, fosse stato costretto a tenere loro delle lezioni sul meccanismo di innesco, con tanto di batterie e fiammiferi antivento, e aveva fatto con loro delle vere e proprie prove di apertura e chiusura del circuito. Dopo la strage ovviamente aveva capito subito, essendo un esperto, che proprio quei congegni erano serviti a innescare le esplosioni, ma non era riuscito a vincere la propria paura e aveva raccontato ai giudici solo una piccola parte della storia.
E Giannettini, e i rapporti tra i servizi segreti di allora e gli ordinovisti padovani?
Quanto a Giannettini e agli uomini del S.I.D., le nuove indagini hanno arricchito, con molti episodi che non sono stati smentiti dalle sentenze ma semplicemente non riguardavano direttamente Zorzi e Maggi e quindi non sono serviti per delle condanne, il quadro dei rapporti tra i nostri servizi segreti e Ordine Nuovo, che non erano occasionali ma organici in un reciproco scambio di favori contro il "nemico comune" compresa sopratutto la tutela del segreto su quanto avvenuto.
Ricordo, tra i tanti esempi possibili, il ritrovamento di un documento non solo autografo ma addirittura interamente manoscritto dal gen. Maletti, risalente al 1975 e riguardante la fonte "Turco" cioè un ordinovista di Padova, tale Gianni Casalini.
Il vice-capo del S.I.D. scriveva, con una evidente preoccupazione, che Turco "voleva scaricarsi la coscienza" e riferire quanto sapeva delle attività del gruppo padovano, comprese le bombe sui treni.
Conseguenza:"bisogna chiudere la fonte" incarico subito affidato da Maletti ad un ufficiale piduista.
Abbiamo chiamato Casalini 20 anni dopo e ci ha confermato che era tutto vero, che aveva molte conoscenze sulla cellula padovana di cui aveva fatto parte ma che a un certo punto nessuno si era più occupato di lui e di coltivare le notizie che poteva fornire. ….ma quanto aveva detto allora non era mai giunto alla magistratura.
Era rimasto nei cassetti del S.I.D. Il povero Casalini quindi aveva sbagliato porta... (…)
Comunque, siamo sempre nell’ambito degli esecutori, dei manovali o al massimo dei quadri intermedi, ma restano, come al solito, fuori i nomi dei personaggi di spicco. Tanto per farne qualcuno famoso: Giulio Andreotti, Giuseppe Saragat, Mariano Rumor, Mario Tanassi, Franco Restivo...
Tutti questi nomi, a eccezione del senatore Andreotti, sono di politici già morti quando abbiamo riaperto le indagini e su questo versante non c’era quasi più nessuno da sentire. Solo il senatore Paolo Emilio Taviani poco prima di morire, mentre stava scrivendo la sua autobiografia uscita postuma con il titolo Politica a memoria d’uomo, ha voluto lasciare qualcosa di quanto sapeva. Anche il generale Maletti, uno dei capi del vecchio sid e uno degli uomini più ascoltati dagli ambienti politici del tempo, si è reso per tutta la durata delle indagini irraggiungibile, restando latitante in Sudafrica e ha fatto una fuggevole comparsa solo nel dibattimento di primo grado.
Sul campo erano rimasti ormai solo i personaggi minori come il capitano Antonio Labruna, un vecchio spione quasi simpatico, un subalterno che aveva pagato per tutti. Nel 1993 ci ha portato la copia dei nastri relativi al golpe Borghese (a ogni buon conto se l’era tenuta per venti anni) consentendo così di provare al di là di ogni dubbio che la copia consegnata allora alla magistratura era stata dai suoi superiori alleggerita dei nomi più importanti, militari e civili (Licio Gelli compreso), coinvolti a vario titolo in quel progetto di golpe non proprio da operetta come si è voluto far credere poi.
Sul fronte delle aspettative e delle reazioni politiche a livello più alto insite nei progetti degli autori materiali e dei quadri intermedi della strage non si è potuto quindi lavorare molto, se non per acquisire la conoscenza del fatto, riferito da vari testimoni ma stranamente del tutto assente nelle sentenze, che dopo il 12 dicembre gli autori del progetto si aspettavano non solo l’arresto di Pietro Valpreda o di qualcuno come lui ma una dichiarazione di stato di emergenza come primo passo di una stabile svolta autoritaria. Ciò è del resto in sintonia con la strategia di aree radicali come Ordine nuovo. Queste non potevano certo prendere il potere da sole, ma piuttosto fungere da detonatore: agire affinché altri, soprattutto i militari, si muovessero a loro volta. Del resto, «strategia della tensione» ha significato, non solo in Italia, un’azione combinata per creare tramite il terrore le condizioni per l’accettazione da parte dell’opinione pubblica di una stretta autoritaria.
Complessivamente, la mia personale opinione è che comunque ben difficilmente a livello politico potesse essere concepita o accettata l’idea di una strage con la sua carica criminale, ma al di sotto di tali atteggiamenti vi sono livelli di collusione più sottili che comprendono la possibilità di accettare di divenire «beneficiari occasionali» di una strategia capace di utilizzare le bombe. Bombe e attentati potevano essere una manna per l’area moderata, e non dimentichiamo che dopo il 12 dicembre 1969 i contratti con i sindacati si chiusero più in fretta e più facilmente. Del resto Edgardo Sogno, nel suo Testamento di un anticomunista, raccontò, poco prima di morire, come nell’area democristiana torinese più conservatrice si caldeggiasse in quegli anni la fase dei «piccoli botti», aiutando economicamente anche chi prometteva di commetterli, perché spaventare l’opinione pubblica serviva a mantenere lo statu quo.
Una campagna di bombe dimostrative, come quelle deposte prima del 12 dicembre 1969, probabilmente era in qualche modo accettata in alto, ma forse l’eccidio di piazza Fontana è stato un’accelerazione o un mutamento di programma voluto dai suoi autori materiali.
E veniamo alla nuova inchiesta che la vede giudice istruttore. Per quale ragione lei nel 1989 inizia un’altra indagine sulla cosiddetta strategia della tensione, sull’attività degli estremisti di destra? Quali nuove piste individua? Quali scenari inediti si aprono?
L’indagine è ripartita quasi per caso dopo che per molti anni a Milano l’impegno a indagare sulla vecchia destra eversiva era stato quasi abbandonato. Una destra molto attiva e con molte collusioni. Accadde un fatto imprevedibile a margine dell’inchiesta sull’omicidio dello studente missino Sergio Ramelli. Una persona in cerca di un tetto sfondò la porta di un abbaino e vi trovò, in stato di abbandono, il vecchio archivio di Avanguardia operaia, il gruppo di cui alcuni componenti erano proprio in quei giorni accusati dell’omicidio.
Oltre alle solite e ormai inutili schede sui «fascisti», vi era un documento anonimo ma riferibile al gruppo milanese di Ordine nuovo. Quel documento conteneva notizie inedite sui legami appunto tra la cellula milanese e le cellule venete ai tempi della strage e sul fatto che alcuni dei timer rimasti dopo il 12 dicembre erano stati consegnati dopo la strage alla cellula milanese. Questa avrebbe dovuto collocarli in una villa di Feltrinelli non per farla saltare in aria ma per indirizzare le indagini nei suoi confronti.
Era un episodio misterioso, ma alcuni testimoni ci diedero conferma dell’esistenza di questo progetto e ripartimmo quindi proprio dagli spunti offerti da quel documento.
Nel giro di poco tempo circostanze e notizie nuove cominciarono a depositarsi nell’indagine, come i frammenti di un puzzle, inizialmente disordinati ma poi sempre più leggibili. Quasi in successione Carlo Digilio, latitante da più di dieci anni, fu espulso da Santo Domingo e portato in Italia. Un vecchio «pentito» della destra milanese, passato in seguito alla malavita comune, Gianluigi Radice, ci indicò Martino Siciliano, sino a quel momento personaggio quasi sconosciuto, come una persona molto informata sulla strage di Milano avendo fatto per molti anni la spola tra la cellula di Mestre, in cui militava, e il capoluogo lombardo. Vincenzo Vinciguerra accettò di ricostruire i rapporti tra il vecchio mondo di Ordine nuovo e gli apparati dello Stato, e questo avvenne quando si rese conto che io, a differenza della procura di Venezia, non gli affibbiavo l’etichetta di «gladiatore», non lo accusavo, ipotesi questa tanto propagandata quanto priva di fondamento, di aver commesso l’attentato di Peteano con l’esplosivo di Gladio, e gli riconoscevo invece la sua identità, cioè quella di «fascista rivoluzionario» puro che aveva sempre rifiutato le collusioni con pezzi dello Stato e con la logica delle stragi contro i civili.
A un certo punto si presentò anche il capitano Labruna (degradato e rimasto in Italia senza una lira a pagare anche le colpe dei suoi superiori) e ci portò la copia originale e impolverata dei nastri del golpe Borghese, quella non «alleggerita» dei nomi più importanti. L’arrivo in Italia di Digilio fu decisivo, perché solo allora, grazie a una serie di testimonianze incrociate, riuscimmo a provare definitivamente che proprio lui era lo «zio Otto», il personaggio misterioso comparso sullo sfondo delle indagini fatte a Catanzaro e indicato da Sergio Calore e da altri testimoni con il soprannome, pur senza conoscerlo, come il «quadro coperto» di Ordine nuovo in Veneto, incaricato di occuparsi dell’esplosivo utilizzato anche per piazza Fontana.
Digilio, una volta in carcere in Italia e perso l’anonimato e le protezioni di cui aveva goduto, cominciò, seppur faticosamente e centellinando le sue dichiarazioni, a collaborare. Riuscimmo anche a raggiungere Siciliano in Francia. Alle prime avvisaglie delle nuove indagini era incerto se accogliere l’invito dei suoi ex camerati a raggiungerli in Russia, dove avevano impiantato una serie di attività commerciali, o a stabilirsi in Colombia, dove c’era la sua nuova famiglia. Comunque sarebbe sparito per sempre se, ironia della storia, non si fosse mosso proprio il sismi per rintracciarlo e convincerlo a collaborare. Sembra un paradosso, uno dei molti di questo processo, ma fu proprio qualche funzionario del sismi, con una mentalità nuova e con l’obiettivo di riscattare in questa vicenda il passato dei servizi segreti italiani, a compiere il lavoro migliore, mentre molti colleghi magistrati guardavano con indifferenza, per non dire fastidio, alle nuove indagini su piazza Fontana.
Intanto anche gli archivi dei servizi segreti, civili e militari, cominciavano ad aprirsi. Fu possibile acquisire nuovi documenti e certamente l’indagine, pur rimanendo non facile, fu almeno resa possibile da alcuni fenomeni politici quali la rivelazione di Gladio e la caduta del Muro di Berlino con la fine di fatto della guerra fredda.
Coloro che, direttamente o indirettamente, avevano lavorato come «forze irregolari» a fianco dei servizi segreti occidentali, alleati o «prigionieri» delle loro strategie, erano ora più liberi di parlare perché, in un certo modo, la «guerra» era vinta, o comunque terminata ed era possibile alzare il velo anche sui suoi risvolti più tragici. In molti testimoni c’era orgoglio e insieme rammarico, perché erano consapevoli di essere stati usati, e se anche il nemico sovietico non si era impadronito dell’Italia, il futuro politico era di compromesso e non certo quello fatto di tradizione, gerarchia e fanatismo militare da loro auspicato.
Un altro vantaggio fu, all’inizio della nostra indagine, poter lavorare in silenzio perché Mani pulite e il crollo della prima repubblica monopolizzavano l’interesse dei mass media e nessuno si era accorto di noi, almeno sino a quando qualche collega, forse indispettito dal fatto che la semplicistica equazione «Gladio uguale stragi» stesse venendo meno, non cominciò a porre un ostacolo dopo l’altro alla nostra inchiesta, diventando quasi il «salvatore» dell’ambiente su cui aveva indagato fino a poco tempo prima.
Come è proseguita l’indagine?
La dinamica è stata molto particolare, in pratica un percorso a cerchi concentrici che portava però progressivamente al centro della strategia del terrore. Inizialmente abbiamo fatto luce su avvenimenti più esterni, anche avvenuti in luoghi diversi da Milano e qualche tempo prima o dopo il 12 dicembre, ma sempre ricollegabili a quella strategia certamente unica, almeno sino alla metà degli anni Settanta con il colpo di coda della destra estrema e golpista costituito dalla strage di Brescia. Queste sono anche le conclusioni cui è giunta la Commissione stragi.
Vennero alla luce tanti episodi sotto questo profilo collegati tra loro. Ne ricordo solo alcuni: l’arsenale in un casolare di Camerino «scoperto» dai carabinieri e attribuito a giovani di sinistra della zona, in realtà allestito, prima della «scoperta», dagli stessi carabinieri e dal sid; le esercitazioni e gli attentati del mar di Carlo Fumagalli in Valtellina, con armi e divise fornite dall’esercito e tanto di avviso alla più vicina stazione dei carabinieri quando c’era da spostare una macchina carica di armi; la strage dell’estate 1970 sul treno Freccia del Sud prima della stazione di Gioia Tauro, attribuita a un errore del macchinista ma in realtà, come scoprimmo, causata da un ordigno deposto sui binari da avanguardisti di Reggio Calabria; l’attentato alla caserma dei carabinieri di Este commissionato dal sid a uomini di Ordine nuovo del posto per creare tensione; le bombe a mano srcm riconsegnate dal gruppo dei milanesi ai romani del gruppo di Paolo Signorelli dopo essere state usate nell’aprile 1973 nella manifestazione in cui fu ucciso l’agente Antonio Marino. E ancora i Nuclei di difesa dello Stato (quello sì, molto più di Gladio, un caso più politico che penale), una struttura pericolosa e con fini eversivi in cui ordinovisti e militari si addestravano insieme, all’inizio degli anni Settanta, in vista dell’imminente presa del potere.
Ma fu solo quando Digilio e Siciliano, e anche Giancarlo Vianello, cominciarono a parlare degli esplosivi di tutti i tipi a disposizione del gruppo mestrino, dei contatti con Milano, che avevano portato Siciliano a commettere un attentato qualche tempo dopo (nel 1971, all’università Cattolica di Milano), e ancor di più quando emerse l’attentato alla Scuola slovena di Trieste del 3 ottobre 1969, davanti alla quale il gruppo al gran completo aveva deposto una cassetta metallica con chili di gelignite, che vi fu la sensazione di avvicinarsi al cuore della strategia: la strage di piazza Fontana.
Ricordo altri due episodi che portavano in quella direzione: le riunioni nella libreria Ezzelino di Freda, quella di cui si è molto parlato anche nella prima indagine, dove Siciliano ci raccontò di essere stato presente nel 1969 e dove non si parlava solo del misticismo pagano e dei falsi «manifesti cinesi», attacchinati a Padova dai mestrini dopo averli ritirati dagli stessi padovani. Libreria e «mascheramento» da estremisti di sinistra erano esattamente la continuazione dei contesti, con voci questa volta dall’interno, in cui si era mossa anche la prima indagine. Davanti a questi episodi faccio fatica a spiegarmi come mai le sentenze abbiano respinto l’idea che tra gli amici di Freda e quelli di Maggi vi fosse una sintonia ben finalizzata. (…)
Dalla lettura delle sentenze di appello e della Cassazione sembrerebbe che tutta la sua inchiesta si basi sulle confessioni dei pentiti Digilio e Siciliano.
Non è così. I riscontri obiettivi e gli apporti di altri testimoni sono stati molti nonostante lavorassimo su episodi lontani nel tempo, anche sugli attentati precedenti da noi definiti «preparatori» alla strage di piazza Fontana.
Quando scoprimmo la responsabilità per gli attentati in contemporanea del 3 ottobre 1969 alla Scuola slovena di Trieste e a un cippo di confine a Gorizia del gruppo di Delfo Zorzi, attentati per i quali fra l’altro furono utilizzati almeno sei chili di gelignite, riuscimmo a trovare, grazie a un vecchio giornale dell’epoca, addirittura il titolo del film in programmazione quella sera in un cinemino di Gorizia che Siciliano ci aveva raccontato di aver visto insieme agli altri mentre attendevano l’ora propizia per andare a deporre l’ordigno. Ricordo ancora il titolo di quel vecchio film, La realtà romanzesca, un titolo quasi allusivo. Poi per caso, nel 1996, durante un accesso alla questura di Firenze dove non immaginavamo si potesse trovare del materiale sul gruppo sotto indagine, trovammo un pacco di lettere e di fax scambiati fra Tringali e Zorzi. Da questi documenti, nonostante qualche tentativo di «criptarne» il significato, si capiva chiaramente come già vent’anni or sono la maggiore preoccupazione del gruppo era Siciliano. Considerato evidentemente un debole, temevano «crollasse» psicologicamente e raccontasse la storia del gruppo mestrino, inclusi i segreti «scottanti» (così definiti in una lettera) di cui anche Tringali era depositario. Un bel riscontro anticipato quindi, risalente a tempi non sospetti, del valore complessivo di quanto Siciliano ci avrebbe poi detto.
In quelle lettere si faceva anche riferimento al terrore che gli inquirenti potessero scoprire l’«anello di congiunzione», all’epoca, tra il gruppo mestrino e l’«amico Fritz», cioè certamente Freda o Fachini del gruppo di Padova. Era un elemento importante perché la sentenza di appello, in alcuni passaggi per la verità un po’ discutibili, ha indicato come elemento di debolezza dell’accusa il fatto che non fossero sufficientemente provati i rapporti operativi tra il gruppo mestrino e quello di Padova, tralasciando tra l’altro di rilevare, sul piano storico e geografico, l’ovvia circostanza che Mestre era in pratica la periferia di Padova perché in tale città quasi tutti i mestrini, ordinovisti e non, andavano a frequentare l’università.
Comunque quelle lettere (una prova documentale importantissima) non sono state nemmeno fotocopiate dalla procura e portate nell’aula della Corte d’assise, e questo non è l’unico caso di atti importanti che avrebbero dovuto essere usati e, con una certa disattenzione, sono stati invece dimenticati.
Vi sono state poi altre testimonianze in grado di illuminare la fase preparatoria degli attentati del 12 dicembre 1969, come quella, confermata anche in dibattimento, di Ennio Peres, da giovanissimo vicino ad Avanguardia nazionale, amico personale di Mario Merlino e in seguito allontanatosi rapidamente da tale mondo. Attualmente, fra l’altro, cura una brillante rubrica di enigmistica sulla rivista «Linus».
Ecco cosa ci raccontò Peres: poche settimane prima del 12 dicembre 1969 Merlino gli aveva chiesto di «darsi da fare per la causa» e di deporre una borsa all’Altare della patria di Roma senza preoccuparsi più di tanto perché «la colpa sarebbe ricaduta su altri». Peres non accettò e, una volta avvenuti gli attentati, capì subito quale avrebbe dovuto essere il suo ruolo, anche se non ha avuto il coraggio di raccontarlo se non dopo tanti anni. Una testimonianza apparentemente minore la sua, ma importante se si ricorda che gli attentati di Milano e di Roma furono un tutt’uno e, come hanno poi spiegato Vinciguerra e altri testimoni, Ordine nuovo e Avanguardia nazionale si erano in pratica divisi i compiti, e Avanguardia si era ritagliata il suo ruolo a Roma ove da sempre era più forte e radicata.
Non dimentichiamo poi le intercettazioni, poco valorizzate nelle sentenze di assoluzione, come quelle in cui, nel 1986, si sentono in diretta i tentativi del gruppo mestrino di indurre a ritrattare una testimone che aveva confermato il racconto di Siciliano in merito a un attentato commesso da membri del gruppo nel marzo 1970 a danno del grande magazzino Coin di Mestre. Un attentato modesto e sul piano penale ormai prescritto, ma sul quale fare piena luce era molto pericoloso per il gruppo in quanto l’esplosivo usato, forse imprudentemente, poteva riportare all’intera dotazione del gruppo stesso e ai ben più gravi attentati precedenti.
Tornando a Siciliano, sempre combattuto tra la scelta di affidarsi allo Stato e le lusinghe dei suoi ex camerati, bisogna anche sottolineare come dopo il 1995 sia stato fatto tutto il possibile per scoraggiarne la collaborazione. Le iniziative singolari della procura di Venezia, subito riversate sulla stampa locale, hanno reso la sua collaborazione di pubblico dominio delegittimandola proprio nel momento cruciale dell’indagine. In seguito le strutture addette alla sua protezione lo hanno lasciato in uno stato pressoché di isolamento, costretto a condurre una vita stentata e a pagarsi anche le telefonate ai suoi familiari in Colombia. Alla fine Siciliano ha testimoniato e confermato tutto il suo racconto nel processo di appello, ma forse era ormai troppo tardi.
Gli ostacoli e gli atteggiamenti di gelosia e di insofferenza che avevano contrassegnato l’indagine negli anni precedenti, ne avevano irrimediabilmente segnato l’esito. È stata la prima volta, nelle indagini sulle stragi, in cui i boicottaggi non sono venuti dai servizi segreti o da altre «forze oscure» ma dall’interno stesso della magistratura. (…)
Nell’attività dei gruppi di estrema destra in che misura e con quale funzione intervengono i servizi segreti americani?
La presenza e la funzione dei servizi segreti americani sono rimaste, soprattutto nei dibattimenti, un po’ sullo sfondo, di loro si è parlato poco. Non credo del tutto a Digilio (sicuramente un informatore delle basi americane in Veneto come molti altri militanti di on) quando sostiene che gli ufficiali americani avrebbero direttamente ispirato e coordinato gli attentati. Questa versione poteva servire a Digilio per attenuare un po’ le sue responsabilità, presentarsi più come osservatore dei fatti che come responsabile della loro decisione ed esecuzione. Credo però nel contempo che lo scambio di informazioni reciproco tra le basi americane e le strutture di on fosse continuo e ben accettato da entrambe le parti in quanto i militanti di on erano visti come «cobelligeranti» nella guerra contro il comunismo. Quindi i servizi segreti americani erano a conoscenza della campagna di attentati, dei loro autori, della loro progressione e hanno assunto un atteggiamento di «osservatore benevolo» non facendo mancare qualche aiuto logistico al gruppo come, per esempio, la fornitura di armi alla cellula ordinovista di Verona. Ovviamente in questo «controllo senza repressione» si guardavano bene dall’informare le autorità italiane perché quanto stava accadendo poteva risultare funzionale al mantenimento del quadro politico e delle alleanze per cui lavoravano le forze del Patto atlantico. Inoltre, da documenti recentemente declassificati degli archivi di sicurezza statunitensi e resi pubblici è emerso come gli Stati Uniti fossero perfettamente al corrente anche degli sviluppi del golpe Borghese. E il generale Maletti nella sua fugace e prudente deposizione al dibattimento di primo grado, nel 2001, ha tenuto a sottolineare come i servizi segreti italiani, in cui aveva ricoperto ruoli di alto livello, all’epoca dipendevano in tutto e per tutto da quelli americani.
Il meccanismo direi non solo politico ma anche quasi psicologico che ha permesso sino alla metà degli anni Settanta l’esecuzione di stragi e attentati in una condizione di impunità e di sicurezza quasi garantita per i loro autori è quindi in un certo senso a gradini: c’è chi li commette, i gruppi terroristici di estrema destra; c’è chi appronta o ha già approntato false piste o si incarica di far fuggire chi sia stato inopinatamente individuato come Marco Pozzan, e mi riferisco ai servizi segreti italiani; c’è chi è soddisfatto di quanto avviene e certo non lo contrasta, e mi riferisco ai servizi stranieri alleati; e c’è infine chi, una parte del mondo politico, è convinto, magari a torto, di essere un potenziale beneficiario o di poter trarre comunque vantaggio da tutto questo. Quest’ultima aspettativa tuttavia, salvo qualche risultato immediato, a lungo termine non si realizza perché gli attentati impuniti suscitano alla fine una risposta democratica contro le ambiguità del potere contribuendo a portare verso nuovi equilibri anche all’interno della stessa Democrazia cristiana. Piuttosto, conseguenza probabilmente non prevista, piazza Fontana e le altre stragi con il loro fondo di irrazionalità sono certo non la causa ma almeno una forte concausa del passaggio delle organizzazioni armate di sinistra da azioni dimostrative al terrorismo perché, dinanzi alle stragi impunite, salta psicologicamente in molti giovani ogni remora a usare la violenza estrema. È come se si pensasse: se lo Stato protegge gli autori delle stragi allora la mia violenza cessa di essere moralmente illegittima. In realtà questa onda lunga e non calcolabile da chi il pomeriggio del 12 dicembre ha deposto la valigetta sotto il tavolo nell’atrio della Banca nazionale dell’agricoltura, finisce per lambire, sul piano delle conseguenze a lungo termine, l’unico crimine politico italiano che effettivamente ha avuto conseguenze dirette e in parte previste anche dai suoi autori e cioè l’omicidio di Aldo Moro. Dopo quell’omicidio, infatti, il disegno del compromesso storico e della solidarietà nazionale è entrato subito in crisi e sono comparsi come attori soggetti politici prima comprimari sulla scena. (…)
Appare chiaro: l’attività politica in Italia e quella dei governi, ma in una certa misura anche dei partiti d’opposizione, era fortemente condizionata dall’attività del sid e dell’ufficio affari riservati del ministero dell’Interno guidato da Federico Umberto D’Amato. Un uomo diventato personaggio noto praticamente dopo la sua morte nel 1996. Infatti passano solo sedici giorni dalla morte di D’Amato e vengono ritrovati dal suo consulente, Aldo Giannuli, ben centocinquantamila fascicoli del ministero dell’Interno non catalogati nel deposito della via Appia. Chi era D’Amato e quanta parte ha avuto nella strategia della tensione?
Sin dalle prime indagini funzionari del ministero dell’Interno vicinissimi a D’Amato furono coinvolti nel sottrarre all’attenzione della magistratura reperti importantissimi tra cui la cordicella della borsa in cui era nascosto l’ordigno trovato alla Banca commerciale e si impegnarono nel non fare le indagini con le quali si sarebbe potuto facilmente risalire agli acquirenti a Padova delle cinque borse utilizzate il 12 dicembre 1969. Del resto fu proprio il ministero dell’Interno (mentre i carabinieri a Roma seguivano inizialmente la pista di Delle Chiaie) ad accompagnare immediatamente la magistratura sulla falsa pista anarchica. Non vi è da stupirsi. Dai documenti rinvenuti da Giannuli proprio nel deposito di via Appia, quelli contenenti i verbali del Club di Berna (gli incontri informali degli anni Sessanta tra i rappresentanti dei vari servizi segreti europei di cui D’Amato era fra gli animatori), si legge che la sinistra e l’estrema sinistra, viste come l’unico pericolo, dovevano essere oggetto di operazioni di infiltrazione da parte di agenti ben addestrati anche «all’uso delle armi e degli esplosivi», come se loro compito fosse non solo prevenire attentati ma anche crearne le condizioni o ispirarli. In proposito non mi sembra sia stato mai abbastanza approfondito per quale ragione il ministero dell’Interno abbia avvertito la necessità di infiltrare a tempo pieno in un gruppetto insignificante come il Circolo 22 marzo di Roma, in cui Avanguardia nazionale aveva già inserito Merlino con compiti di provocazione, il finto anarchico Andrea, e cioè l’agente Salvatore Ippolito. C’erano forze ben più agguerrite nella nascente sinistra extraparlamentare in cui sarebbe stato più utile, tenendo conto dei non molti uomini di cui il ministero disponeva, infiltrare per mesi un agente segreto. L’unica spiegazione ragionevole? Da molto tempo doveva essere già in atto il progetto di creare una pista anarchica, studiando i movimenti di alcuni di loro, verso cui indirizzare la responsabilità di alcuni attentati. Tornando a via Appia, in quel deposito dimenticato, oltre a tante informative mai fatte pervenire alla magistratura, sono stati trovati nel 1996 addirittura «pezzi di bomba», cioè alcuni reperti, tra cui una sveglia bruciacchiata, dell’ordigno deposto alla stazione di Pescara, l’8 agosto 1969, giorno in cui furono collocate altre nove bombe in altrettante strutture ferroviarie. Se quel reperto fosse giunto in tempo alla magistratura inquirente, avrebbe potuto essere utilizzato per utili comparazioni, ma così non è stato. Mi viene in mente la confidenza fatta da Freda a Filippo Barreca, un esponente della ’ndrangheta calabrese che lo aveva aiutato e nascosto durante la prima fase della sua fuga da Catanzaro. Freda, come ha riferito poi Barreca divenuto collaboratore di giustizia, disse: «Se le cose vanno male tiro giù l’Italia, dirò quello che è successo, che la strage l’ha organizzata un prefetto». Una frase su cui meditare. Può spiegare come una parte delle istituzioni, coprendo e favorendo certi imputati, abbia fatto anche un’opera di autotutela.
Servizi segreti, ufficio affari riservati, esponenti delle forze dell’ordine erano dunque impegnati a depistare e occultare. Riguardando quegli anni si vede una sorta di lungo filo nero di manomissione della verità, se non peggio.
L’intera storia dell’Italia, sin dal primo dopoguerra, è attraversata, come da un fiume carsico, da manovre e operazioni sotterranee fatte per condizionare gli equilibri politici e istituzionali. Solo negli ultimi anni, anche grazie alle ricerche di un valente storico come Giuseppe Casarrubea, sta venendo alla luce la presenza di uomini del principe Borghese e di esponenti americani negli avvenimenti che hanno portato la banda di Salvatore Giuliano a compiere una delle prime stragi politiche, quella di Portella della Ginestra. Solo oggi, grazie al lavoro solitario del collega Vincenzo Calia della procura di Pavia, è possibile affermare con certezza che la morte del presidente dell’eni Enrico Mattei nel 1962 a Bescapè non fu dovuta a un temporale capace di far precipitare l’aereo su cui viaggiava ma a una piccola carica esplosiva sapientemente collocata nel vano del carrello dell’aereo alla partenza dalla Sicilia.
Solo nel 1994 è stato scoperto in uno stanzino di un palazzo della magistratura militare a Roma l’«armadio della vergogna» con 695 fascicoli relativi a eccidi nazifascisti commessi in Italia contro la popolazione civile tra il 1943 e il 1945, insabbiati negli anni Sessanta con un provvedimento di «archiviazione provvisoria», quando ancora la maggior parte dei responsabili tedeschi e italiani era viva e raggiungibile. Sulle responsabilità, in ipotesi anche politiche, di tale «confisca di giustizia», una Commissione parlamentare di inchiesta sta ancora lavorando.
Il fenomeno dei depistaggi e dell’occultamento riguarda quindi anche il nostro passato meno recente ed è sempre espressione, pur con forme diverse, della stessa strategia. La strage di piazza Fontana quindi non è un’eccezione. Come ha scritto il senatore Giovanni Pellegrino, l’attività storica e giudiziaria di questi anni, nonostante tutto, ha ristretto il campo dell’«indicibilità» aggiungendo costantemente frammenti di verità che si sommano alle acquisizioni precedenti rendendo progressivamente visibile l’invisibile. Pellegrino, citando Thomas Mann, ha ricordato: «Senza fondo è il pozzo del passato. Dovremmo per questo dirlo insondabile?». La domanda è retorica. No, il passato va continuamente sondato e non cessa mai di sorprenderci. (…)
Qual è stato l’atteggiamento delle forze politiche di sinistra negli anni in cui stava conducendo la sua indagine?
Ondivago, a tratti indifferente. Il quotidiano «l’Unità» trattava nei suoi articoli quasi con sufficienza le nuove indagini ripartite a Milano o addirittura in modo quasi ostile nella fase tra il 1994 e il 1996. Quello stesso quotidiano diede invece ampio e del tutto acritico risalto all’azione della procura di Venezia contro di me e fu proprio un esponente ds, Giovanni Fiandaca, componente del csm scelto da tale partito e presidente della prima Commissione, a firmare l’atto di accusa per l’incompatibilità ambientale, cioè quel procedimento che non esito a definire una pagina nera della storia dello stesso csm con il quale si cercò di farmi trasferire con la forza lontano da Milano, con il risultato obiettivo di affossare definitivamente le indagini su piazza Fontana.
Per non parlare del ministro della Giustizia del governo di sinistra, Oliviero Diliberto. Nel 1999, quando fui assolto da tutte le incolpazioni del procedimento disciplinare aperto parallelamente a quello di «incompatibilità ambientale», Diliberto fece personalmente qualcosa che non accade quasi mai: impugnò l’assoluzione pronunziata nei miei confronti dinanzi alla Cassazione, la quale l’anno successivo gli diede sonoramente torto. Ma intanto un altro ostacolo era stato posto sulla strada già impervia delle indagini.
Tornando all’«incompatibilità ambientale», cioè il tentativo di mandarmi via da Milano, il presidente della Commissione stragi, Pellegrino (una persona indipendente e che mi fu molto vicino perché aveva sin da subito compreso l’importanza dei nuovi elementi raccolti e da raccogliere) disse che quel tentativo del csm, se fosse riuscito, avrebbe fatto impallidire le conseguenze causate dalla sentenza della Cassazione quando negli anni Settanta aveva disposto il trasferimento del processo a Catanzaro. In quel momento una possibile verità sulla strage di piazza Fontana non era più politicamente spendibile. Intorno al 1996 l’ex pci, infatti, era entrato per la prima volta nel governo e non aveva interesse a rimestare il passato e soprattutto a confrontarsi con un’indagine nella quale si cominciavano a scoprire i rapporti esistiti tra Ordine nuovo e gli alleati statunitensi, cioè il soggetto dinanzi al quale l’ex pci si stava legittimando come credibile forza di governo in Italia. Insomma, la mia indagine non aveva un «fatturato» politico. Solo più tardi, intorno al 2000, il gruppo ds nella Commissione stragi, con una lunga relazione, condivise e fece propri i risultati e gli scenari delle mie indagini, ma è stato un recupero tardivo dettato dal fatto che, paventando la sconfitta alle vicine elezioni politiche, di nuovo piazza Fontana poteva servire in chiave di polemica politica.
Prima era bastata la verità parziale di Gladio. Quella andava bene a tutti, a quella larga parte del mondo politico, della magistratura e dell’informazione che aveva diffuso come verità indimostrabile ma sufficiente la responsabilità generica delle stragi di Gladio. Come dire tutto e nulla.
Ma si poteva fare di più? La magistratura, così attiva negli anni Novanta nell’affrontare la corruzione politica e altri fenomeni criminali, cosa ha fatto per gettare luce su piazza Fontana e le altre stragi?
La magistratura per altre inchieste come Mani pulite e anche per l’indagine sull’omicidio del commissario Luigi Calabresi, ha messo in campo, in termini di indagini, i suoi uomini di punta e più preparati, ma non ha avuto altrettanta cura quando si è trattato di completare il lavoro su piazza Fontana da me iniziato e percorso per un bel tratto come giudice istruttore.
Non giudico le intenzioni o la buona volontà ma un fatto obiettivo. Chi doveva finire di percorrere la strada tracciata era completamente digiuno di indagini sul terrorismo e non era certo propenso a «un gioco di squadra». Mentre il gioco di squadra, come si sente nelle stesse intercettazioni degli indagati, è in questi casi invece decisivo. L’ambiente degli ex ordinovisti ha favorito la divisione tra gli inquirenti, ne ha tratto poi il massimo vantaggio possibile e ha continuato a fare quel «gioco di squadra» mancato invece fra magistrati.
Del resto, dalla fine del 1997, quando, scaduta l’ultima proroga si è conclusa la mia parte di lavoro, piazza Fontana è stata quasi la storia di un abbandono. Digilio non è stato quasi più interrogato da quando io ho terminato il mio lavoro: eppure, ne sono convinto, aveva ancora molte cose da dire. Infatti, quando io lo sentii per l’ultima volta proprio nel dicembre 1997, aggiunse ancora nuovi particolari, il suo non era ancora un discorso concluso. Ma da allora ben raramente ha visto nella stanza dell’ospedale dove si trovava qualche inquirente e nessuno ha avuto voglia di tener viva la sua attenzione e la sua motivazione anche in vista delle deposizioni in aula nel 2001, un impegno enorme per lui anziano e semiparalizzato. Questo lungo distacco, percepito quasi come un’indifferenza degli inquirenti, dopo tanti anni in cui invece io lo avevo sentito con regolarità, certo ha contribuito molto alle sue difficoltà in aula, sotto il fuoco di fila delle domande dei difensori.
Invece c’era ancora molto da fare. Nessuno è andato a cercare Giampietro Mariga (militante del gruppo mestrino, indicato da Digilio come l’autista della vettura che portava nel bagagliaio le bombe del 12 dicembre 1969) e individuato dai carabinieri in Francia con la nuova identità assunta dopo aver lasciato la Legione straniera. Questo possibile uomo chiave di quegli eventi si è ucciso a casa sua poco prima del processo di primo grado. Sembra soffrisse di una forte depressione: forse portava dentro di sé qualcosa. E avrebbe potuto raccontarla. Nessuno è nemmeno andato a cercare Salvatore Ippolito, l’agente Andrea infiltrato dal ministero dell’Interno nel gruppo di Pietro Valpreda qualche mese prima delle bombe del 12 dicembre, e Ippolito abitava e abita ancora più vicino, dopo essersi dimesso dalla polizia: vive a Genova e fa l’assicuratore. Anche lui, non più alle dipendenze di qualcuno, avrebbe potuto fornire delle spiegazioni.
Nessuno soprattutto, quando il tempo per la mia indagine era ormai scaduto, si è soffermato a effettuare certi riscontri, come l’individuazione del furto presso una cava del vicentino grazie al quale, secondo il racconto di Siciliano e anche di un altro giovane presente, Piercarlo Montagner, il gruppo si era approvvigionato della sua prima dotazione di esplosivi. Individuare l’episodio e sapere con precisione di quale esplosivo si trattasse avrebbe fornito informazioni utilissime per verificare l’attendibilità complessiva di quanto raccolto, perché in un’accusa di strage nulla è più importante dell’esplosivo. Tale verifica, con esiti molto interessanti, è stata avviata invece solo dalla procura di Brescia alla fine del 2004, ma ormai il processo di piazza Fontana si era concluso. Sempre sullo stesso tema, l’accusa non si è premurata di affidare a un perito uno studio comparativo tra gli esplosivi descritti negli interrogatori di Digilio e di Siciliano e le conclusioni delle confuse e artigianali perizie svolte nel 1969 subito dopo la strage. Così, in questo vuoto, la difesa ha avuto buon gioco, e non so darle torto, a nominare (essa sola) un suo consulente le cui conclusioni hanno pesato molto nell’orientare la sentenza d’appello verso l’assoluzione.
Leggendo la sentenza d’appello (in mancanza di altro aveva fatto proprie queste conclusioni di parte) mi sono accorto, spulciando qualche manuale e consultando alcuni esperti, come tali conclusioni siano molto discutibili. In realtà, studiando bene la composizione di tutti gli esplosivi in quel periodo sul mercato, e non solo di alcuni di essi, vi era la compatibilità, negata nella sentenza, tra il racconto dei collaboratori su certi tipi di esplosivo da cava che avevano avuto in mano e le incerte tracce di esplosivo raccolte nella banca. Anche la parte civile e la procura generale se ne accorsero e portarono questi dati in Cassazione, ma ormai era tardi. Non era più quella la sede per discutere del merito dei fatti e introdurre nuovi argomenti.
Il disinteresse sin dall’inizio dell’accusa nel nominare suoi periti ha quindi contribuito, non poco, all’esito del processo, e questo lascia l’amaro in bocca visto che gli uffici inquirenti portano in aula fior di specialisti spesso per processi assai meno importanti.
Infine, e mi è sembrata la circostanza più inspiegabile, non sono state portate in aula nemmeno tutte le relazioni mediche che, dopo visite collegiali e accurate, testimoniavano la piena capacità di Digilio di raccontare spontaneamente e lucidamente i fatti anche dopo l’ictus del 1995. La Corte d’assise d’appello, senza nemmeno disporre delle registrazioni di tutti gli interrogatori sostenuti da Digilio con me negli anni 1995-1997, è giunta infatti alla conclusione, ancora una volta offerta solo dalla difesa, che la voce stanca e rallentata del testimone era quella di un uomo non più in grado di rievocare il passato, ma al massimo di ripetere quanto sentito dai carabinieri o da qualcun altro. L’assoluzione si è basata molto anche su questa sensazione; la Corte si è accontentata di una mera impressione su un uomo mai visto prima.
Mi chiedo allora perché la procura milanese non abbia portato in aula la perizia fatta fare un paio di anni prima, nominando un collegio di eminenti docenti, dalla procura di Brescia, avendo anch’essa Digilio come indagato. Gli esperti avevano ascoltato tutte quelle stesse cassette registrate e avevano parlato a lungo con Digilio. Quella perizia giungeva a conclusioni del tutto opposte rispetto alle impressioni della Corte, spiegando in termini scientifici e neutrali come Digilio fosse perfettamente in grado di ricordare e di esporre autonomamente il suo pensiero. «Coscienza lucida, conservazione della memoria, efficienza critica» c’era scritto, lo ricordo ancora, nella perizia dei tre medici. I colleghi di Brescia avevano inviato quella importante perizia a Milano, dove però è finita in un cassetto dell’accusa e non nel fascicolo della Corte d’assise. No, c’era veramente molto da fare o almeno si poteva non dimenticarsi di quanto era già stato fatto. (...)
Fin qui l’intervista che le ho fatto nel 2005, da allora a oggi, 2009, è successo qualcosa di nuovo?
Si ricorda di Gianni Casalini? Ne abbiamo già parlato, era un frequentatore della libreria Ezzelino di Freda, un tipo depresso e introverso amante più dei libri che delle azioni operative, uno che forse il gruppo aveva coinvolto solo quando c’era penuria di uomini per agire.
Aveva comunque saputo, visto e forse fatto qualcosa, e negli anni Settanta si era messo in contatto con il sid di Padova: voleva «scaricarsi la coscienza». Il maggiore Giuseppe Bottallo, capo del sid di Padova, una persona corretta, aveva coltivato questa fonte preziosa chiamata in codice Turco, i suoi uomini ne avevano raccolto le informazioni e avevano cercato di farle arrivare a Milano, dove allora erano in corso le indagini. Ma il generale Maletti, lo abbiamo letto in un suo appunto manoscritto che abbiamo trovato, aveva ingiunto di chiudere la fonte, prima che parlasse per esempio degli attentati ai treni, e aveva fatto distruggere le relazioni impedendo così che arrivassero all’autorità giudiziaria di Milano mentre era in corso il processo Freda-Ventura.
Questa è storia di ieri e l’abbiamo scritta nelle ordinanze.
Quando nel 1992 lo identificai come la misteriosa fonte Turco di Padova, Casalini ci disse già qualcosa, ma aveva ancora paura dei suoi ex-camerati. Si era limitato a confermare che il sid di Padova lo aveva incaricato di un tentativo fallito di agganciare Pozzan in Spagna, proprio quel Pozzan che, ironia della storia, il generale Maletti e il sid di Roma avevano fatto fuggire.
Poi, nel dibattimento per piazza Fontana, in aula, nel 2000 Casalini aveva già fatto un timido accenno alla sua partecipazione agli attentati ai treni, ma quel suo racconto embrionale era rimasto lì e nessuno si era premurato di risentirlo.
Ed ecco che nel settembre 2008 Casalini mi scrive una lettera, è meno angosciato, ha meno paura, e mi comunica che vuole raccontare qualcosa e meglio. Mi anticipa il suo racconto e dopo più di due mesi, in questi casi non c’è mai troppa fretta, un sostituto procuratore di Milano lo sente.
Facciamo attenzione a un particolare.
Nessuno in tutti questi anni, nemmeno Digilio, aveva mai ammesso di aver preso parte personalmente a qualcuno dei ventidue attentati che dall’aprile al dicembre 1969 avevano segnato il cammino in crescendo della campagna terroristica. Invece Casalini racconta in dettaglio non quello che ha sentito ma quello che ha fatto lui. Racconta di aver personalmente messo le due bombe sui treni alla stazione Centrale di Milano la notte dell’8 agosto 1969 e racconta ogni particolare, compreso il numero del binario su cui si trovava uno dei treni, la carta da regalo in cui erano avvolti gli ordigni per mascherarli e, particolare curioso, il fatto che presi dalla fretta e dalla paura di essere individuati, per tornare a Padova erano saliti su uno dei due convogli in cui, in un altro scompartimento, avevano collocato un ordigno poi esploso proprio vicino a loro nel viaggio di ritorno.
La circostanza più importante, però, è questa: Casalini racconta anche chi lo ha reclutato alla Ezzelino per l’operazione, un giovane che chiameremo il «figlio della gerarca», vicinissimo a Freda, un elemento operativo del gruppo che aveva fiutato il pericolo e, a indagini iniziate, aveva lasciato Padova, raggiunto la Spagna e si era trasferito poi in un altro continente. Questo giovane non è uno sconosciuto, il suo nome compare nelle telefonate con Freda dell’aprile 1969 in cui lui aveva dato la disponibilità della accogliente casa della madre (una esponente della corrente più oltranzista del msi) per ospitare i partecipanti alla riunione della notte del 18 aprile in cui fu deciso di dare impulso operativo alla campagna di attentati.
Per di più, da un documento che abbiamo trovato nel 1995 e che è già nei miei atti, risulta che costui era, guarda caso, amico di Delfo Zorzi, e vari testimoni qua e là nelle indagini ne avevano parlato come uno dei «duri» della cellula di Padova.
Ora, ricordiamo che proprio nell’ultimo processo milanese si è confermato in modo definitivo che tutti i ventidue attentati del 1969, da quelli di aprile alla Fiera campionaria e all’ufficio cambi della stazione Centrale di Milano sino alla strage del 12 dicembre, erano frutto di un progetto unico condotto dalle stesse persone, quello che in termini giuridici si chiama un «unico disegno criminoso».
Se questo militante, che non era una persona raccolta all’ultimo momento come Casalini, ma un organizzatore e un reclutatore per gli attentati ai treni che hanno preceduto solo di quattro mesi la strage, è stato l’ospite della riunione decisiva del 18 aprile, come si può non pensare, in via di ipotesi di lavoro, che non abbia avuto un ruolo anche nel 12 dicembre?
La campagna era la stessa e non risulta che si sia tirato indietro. Certo si sono aperte indagini nei confronti di persone per molto meno. Oltretutto il giovane, ora meno giovane, è vivo e vegeto, non è mai stato giudicato e gestisce ancora dall’estero i suoi interessi economici in Italia. Quindi non è un fantasma che è inutile cercare e di cui è inutile occuparsi.
Mi scusi giudice Salvini, ma il ritratto che sta facendo di «questo giovane» legatissimo a Freda, figlio di una esponente dell’ala dura del Movimento sociale di Padova, amico di Zorzi, non imporrebbe di indagare ? Sbaglio?
Si, perdipiù Casalini non ha parlato solo di lui ma degli attentati di aprile a Milano alla Fiera campionaria e all’Ufficio cambi e ha dato nuovi elementi sul ruolo di Giannettini che andava freneticamente a Padova nei giorni precedenti la strage di Milano.
Giannettini è morto, ma sapere qualcosa di più su ciò che ha fatto non è un optional. Giannettini era il SID e quindi lo Stato, proprio a causa della sua presenza la strage viene chiamata «strage di Stato», il SID lo ha fatto fuggire e il presidente del Consiglio, non si è mai compreso se Mariano Rumor o Giulio Andreotti (era un momento di passaggio di consegne) avesse cercato di coprire il suo ruolo di elemento di collegamento tra il SID e, quindi il ministero della Difesa e Ordine Nuovo opponendo il segreto di Stato. Proprio quel segreto di Stato di cui si è parlato ancora di recente nel caso Abu Omar. (…)
D’accordo, ma adesso cosa si può fare ? E poi non è un mistero che l’opinione della procura di Milano è che non ci sia più ragione di occuparsi di piazza Fontana, nemmeno nei ritagli di tempo…
Il motivo ci sarebbe… perché tutto questo (solo una parte di quello che potrebbe muoversi oggi) Casalini lo ha confermato per filo e per segno anche in aula a Brescia nel luglio 2009, durante un’udienza nel processo per la strage di piazza della Loggia, un’indagine che la procura di Brescia, a differenza di altre, lo sottolineo, ha seguito con tenacia e su cui continua a lavorare. Ma non è accaduto nulla.
Ci sono state anche richieste delle parti civili di piazza Fontana per riprendere, nel quarantennale che si avvicina, le indagini, ma tutto è rimasto fermo. A Milano nessuno ha più sentito Casalini, né coltivato i vari spunti investigativi, e non solo quelli che ho ricordato. È singolare poi che il fascicolo che contiene il racconto di Casalini, l’unico cha ha avuto il coraggio di riconoscere le proprie responsabilità, sia stato aperto e subito chiuso a modello 45. Per i profani del diritto spiego cosa vuol dire modello 45. In quei fascicoli si mettono gli atti che si ritiene non costituiscano notizia di reato, compresi gli esposti dei matti, con la comodità per il pubblico ministero di chiudere il fascicolo (come difatti è avvenuto) con una archiviazione interna. In questo modo non bisogna trasmettere il fascicolo a un gip, cioè a un giudice terzo che potrebbe anche ritenere necessario qualche approfondimento o qualche indagine.
Insomma, nel 2009 piazza Fontana è arrivata al punto finale, è stata declassata a fatto che non costituisce reato…
Io continuo a chiedermi, e non sono l’unico, perché per indagini vecchie e nuove, dall’omicidio Calabresi alle Brigate rosse, ad Abu Omar, per non parlare di mafia e corruzione, si siano spese a Milano le forze e l’impegno migliori, si sia lavorato con intelligenza, e perché piazza Fontana sia invece rimasta nell’armadio delle scope.
Tratto da:
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