La storia attraverso i documenti e le testimonianze -
Ecco quanto scrive don Pietro Scaccia al Prefetto: una denuncia pesante, che deve far riflettere.
Dal lavoro egregio di Giorgio Pisanò e dalle ricerche negli Archivi emergono fatti troppo a lungo negati
La
Resistenza per certi aspetti è un falso storico. Non esiste nessun mito
da celebrare, nessuna moralità superiore. Piuttosto sarebbe meglio
descriverla in molti casi come una canea urlante.
Quello che conta davvero è la verità, quella storica, quella che ci arriva direttamente dai documenti negli archivi di Stato.
La
Resistenza è stata la causa principale della guerra civile che ha
dilaniato la nostra Patria. Ed è evidente come la resistenza politica e
armata si sia svenduta all'invasore. Divenendo eversiva nel momento in
cui l'interesse nazionale è stato tradito.
È
stata inoltre ladrocinio ed omicidio. La costruzione della casa
Repubblicana poggia sul sangue e sul risentimento di una parte. L'epopea
dei vincitori ha quel puzzo stantio dell'inganno.
Giorgio Pisanò scrive in Io Fascista:
“non aveva nessuna importanza che avessimo sempre rispettato le leggi
di guerra. Anzi, proprio perché lo avevamo fatto dovevamo essere
diffamati, calunniati, uccisi. Questa era la nuova legge dei vincitori
secondo la quale chi aveva fatto il suo dovere, difeso la sua terra,
servito le sue idee, era soltanto un criminale”.
Quello
che colpisce è l'evidenza dei fatti: i militari Repubblicani erano
inquadrati in un esercito, palesavano gradi e armi, rispondevano a dei
superiori. Difendevano l'idea e la Patria da un esercito nemico.
Rispettavano le leggi di guerra.
Non
possiamo affermare lo stesso per i partigiani, capaci di colpire
all'improvviso, spesso rifugiati nell'ombra, privi del coraggio
necessario per affrontare uno scontro armato vero. Spesso, infatti, alla
prova del fuoco, i partigiani dovevano battere in ritirata.
Continua
Pisanò: “chiunque vestisse la divisa fascista stava per diventare un
bersaglio. Di qui la paura della gente, il girarci alla larga nel timore
di restare vittime di qualche attentato. E la gente aveva paura: ma non
di noi. Aveva paura degli attentati comunisti, dei gappisti. Sapevo
che, ogni tanto, apparivano alla periferia della città. Circolavano in
bicicletta, e quando avvistavano un fascista o un tedesco, gli
scaricavano addosso le rivoltelle e fuggivano. Ma i gappisti agivano
soltanto nei confronti di soldati isolati. E io e Mafilas eravamo in
due: troppo per loro”.
Giorgio
Pisanò il 19 aprile 1945 si trova a Milano in attesa di partire per il
Ridotto Alpino. È un giovane militare, fascista coerente con le proprie
idee (rifiuta di mettersi in abiti civili e di salvarsi come gli ha
proposto un amico a Como), soprattutto è capace di elaborare gli
avvenimenti di quei mesi lasciando una testimonianza decisiva.
Assiste
alla discussione avvenuta in uno stabile fra viale Maino e viale
Vivaio. Alcuni individui in borghese chiedono ai militari disposti in
fila di intervenire perché i capi dei partigiani vengano passati per le
armi, prima di lasciare Milano.
I
ragazzi di Salò insorgono. Il coro è lo stesso e Pisanò la pensa allo
stesso modo. “Noi siamo soldati non assassini”. Qualcuno gridò “Ma il
Duce è al corrente di questo piano?” Da un altro gruppo si leva un
pensiero che tutti condividono prima di uscire dal palazzo e tornare ai
reparti di appartenenza “Sono loro che hanno la responsabilità di tutto
il sangue versato. E loro se lo devono tenere”.
E
di partigiani, in quella primavera del 1945, non c'è traccia. Nessun
tentativo di prendere Milano con le armi. Anzi, le brigate comuniste si
guardano bene dal farlo. Verrebbero spazzate via.
I
capi partigiani non vengono passati per le armi, per intervento diretto
di Mussolini: non avvalla quelle mattanze. Continua a preparare la
smobilitazione, direzione Valtellina. Lo stesso Pisanò parte la sera del
19 aprile.
Milano
viene così presa dai partigiani e dalla Resistenza quando ormai in
città non si trova più nessun presidio Fascista. E fanno quello che gli
riesce meglio: distruggono tutto ciò che ricorda l'Italia Fascista.
Devastano i locali della Milizia.
Pisanò
intanto raggiunge la Valtellina. Per giorni non vede un partigiano.
Nella difesa di Grosio, ogni tanto qualche partigiano tira un colpo di
fucile ben nascosto nelle montagne. Sono i cecchini. E uno di questi è
particolarmente stupido.
Alberto
Ravot, 18 anni, sottotenente al comando della Guardia Repubblicana
racconta a Pisanò: “Un cecchino tiene l'arma puntata sulla porta. Ogni
volta che ci tocca aprirla, spara una fucilata. Ma noi abbiamo imparato a
fregarlo, e quel cretino non l'ha ancora capita. Prima spalanchiamo il
battente. Lui allora spara. La pallottola entra qui dentro ma, mentre
lui ricarica, c'è tutto il tempo per saltare fuori”.
I
Fascisti abbandonano Grosio solo per un ripiegamento in appoggio ad
altri reparti. I partigiani sono alle porte del paese ma non si vedono. I
militi pensano che se non hanno attaccato frontalmente, potrebbero
farlo durante il loro ripiegamento. Decidono così di anticipare la
manovra.
Pisanò
sente i colpi di mitra e di fucile quando ormai si trova a cinquecento
metri da Grosio. Così scrive: “I partigiani, accortisi che in paese non
c'era più un fascista, si erano decisi a liberarlo”.
L'ultima
battaglia si svolge a Tirano. Sono pagine gloriose per i militari della
Repubblica Sociale. Che resistono fino alla sera del 27 aprile 1945.
Gli assalti nulla hanno potuto contro un nemico rintanato nelle gole
delle montagne, capace di un tiro preciso sui militari che azionavano
allo scoperto l'artiglieria. Seguirà poi una lunga marcia che porterà
gli uomini del ridotto alpino nelle mani dei partigiani.
La
guerra era terminata. La Resistenza, invece, maneggiava le armi come
mai le aveva usate contro i reparti militari dei Repubblicani. La viltà,
la protervia e la ferocia della Resistenza raggiunge un apice mai
provato prima: sangue e morte dispensata nei confronti di soldati
disarmati.
È
la testimonianza di Giorgio Pisanò che restituisce il mito apocalittico
della Resistenza. La racchiude nel perimetro che le compete, quello
dell'omicidio.
“Cinquecento
dei nostri pagarono con la vita, nei primi tredici giorni di maggio, la
loro fedeltà a Mussolini e all'Italia. La mia testimonianza diretta
(di Pisanò nda) riguarda infatti solo ciò che vidi accadere nel carcere
di Sondrio”.
La
strage infuriò ovunque e, molto spesso, ne ho parlato nelle colonne di
questo giornale. Dongo, Como, Lecco, Domaso, Tirano, Morbegno, Ardenno.
Chi non ha tradito riposa adesso nell'onore e nella gloria della Patria.
A noi il dovere di celebrare nel ricordo e nella verità la generazione
che non si è arresa.
Una prova incontrovertibile
La
Resistenza ha davvero molto da farsi perdonare. E alla prova dei fatti
ci si arriva sempre scostando la polvere che gli anni hanno depositato
sui faldoni e gli incartamenti degli archivi.
Sono
infatti le carte, i documenti ritrovati che parlano. Capaci di
restituirci alcune delle verità taciute. Chiunque voglia muovere
obiezioni, deve farlo ad altro indirizzo, sicuramente non a quello del
Giornale d'Italia.
Così
anche un semplice arciprete, di una piccola parrocchia, può essere, ed
effettivamente diventa, un importante testimone dei mesi a cavallo fra
l'aprile e il maggio del '45.
Caccia
Pietro, nato a Como nel 1882 (muore nel maggio del 1958), dottore in
Sacra Teologia, è Professore di Teologia al Seminario di Como. Nel
giugno del 1938 diventa parroco arciprete della parrocchia di Fino
Mornasco, un paesino che si trova nella provincia di Como.
Il
24 maggio 1945 scrive al Prefetto di Como: “Se si va avanti così - dice
tra l'altro - finiremo per avere una dittatura peggiore di quella
caduta [...] Per certa gente tutti i mezzi al fine sono buoni, ma non
per i galantuomini”.
Don
Pietro Caccia osserva, prende nota, si preoccupa di proteggere i suoi
parrocchiani. Infine scrive quello che lui stesso chiama “rapporto per
gli alleati”.
“In
teoria nei comuni si sono costituiti i cosiddetti comitati di
liberazione nazionale, composti dai rappresentanti dei vari partiti. Di
fatto si sono affrettati a impadronirsi del potere e a esercitarlo i
rappresentanti dei partiti di sinistra e quasi dappertutto di quello di
estrema sinistra, i Comunisti. I quali dicono di agire in nome del
comitato di liberazione ma il più delle volte senza prima consultarlo e
averne l'approvazione per atti eccedenti l'ordinaria amministrazione.
Commettono così atti arbitrali, quali sequestri di oggetti personali e
citazioni di persone a rispondere di addebiti di vario genere davanti a
loro soltanto. Qui a Fino Mornasco per di più si sono insediati da
padroni in un locale del Municipio”.
La
testimonianza di Don Caccia continua poi confermando quanto scritto in
precedenza sulle colonne di questo giornale: “I partigiani comunisti si
sono procurati mezzi ingenti con atti di vera rapina perpetrati sulle
strade ai posti di blocco nei primi giorni della liberazione. Ora (siamo
a maggio del 1945 nda) se li procurano con imposizioni su persone che
hanno a temere per il loro passato politico. Ma si sono specialmente
procurati armi, quelle anzitutto sottratte alle formazioni militari
fasciste (per evitare di armare ulteriormente i partigiani molti
Repubblicani prima di negoziare la resa decidono di rendere inservibili
le armi in dotazione nda), e non hanno alcuna intenzione di consegnarle,
come è stato comandato. A me lo hanno confessato apertamente”.
Don
Caccia continua svelando ancora gli aspetti più torbidi della
Resistenza, gli stessi di cui spesso scriviamo sul giornale. “Delle armi
si servono, come è noto, anche per esecuzioni sommarie di persone
arrestate per la loro attività di Fascista. Questo è un gravissimo
disordine, perché in aperto contrasto con le più elementari leggi divine
e umane. E quante persone sono già scomparse in modo così illegale
senza che siano stati ricercati e puniti i responsabili. Si ha la netta
impressione che tutto ciò rientri in un sistema, risponda a un piano
studiato e attuato in preparazione di cose ancor più gravi in un futuro
più o meno prossimo. Del mio comune non è stato finora ucciso nessuno”.
(Nel vicino comune di Casnate, invece, vengono fucilati sette Fascisti e
tutt'ora svolgo un'indagine per risalire ai nomi e ai fatti,nda).
Il
parroco di Fino Mornasco, don Caccia, non è certo uno sprovveduto. E
non è solo un uomo di cultura, di chiesa. È soprattutto un uomo
coraggioso, visti i tempi bui della liberazione.
Concludendo
il suo rapporto scrive che “si deve constatare che quasi tutti i comuni
sono di fatto in mano ad individui di dubbia o nessuna moralità, che si
valgono del potere per i loro fini personali o di partito. La gente
quindi non li stima e ne ha paura. Come pure non ha fiducia nelle forze
di polizia che, come è avvenuto qui a Fino Mornasco, hanno disarmato i
Carabinieri e preso il loro posto, e che hanno tutta l'aria di milizie
di partito”.
Alessandro Russo
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