giovedì 24 settembre 2015

Arturo Bocchini e la Polizia fascista


di Emma Moriconi

Parte prima
L’OVRA come strumento non solo di repressione ma anche e soprattutto come organizzazione utile a sondare gli umori popolari
Arturo Bocchini è un personaggio talmente rilevante del Ventennio che è considerato il numero due del Regime, secondo solo a Mussolini
Certamente in un sistema totalitario essere a capo della Polizia significa possedere un potere enorme, a cui sono necessariamente di complemento altrettanto grandi responsabilità. 
La sua attività è rivolta in primo luogo al rafforzamento della polizia, per il quale riesce ad ottenere maggiori stanziamenti di bilancio. Bocchini lavora essenzialmente su due fronti: quello di garantire l’incolumità di Mussolini attraverso l’organizzazione della cosiddetta “squadra presidenziale” e quello di controllo capillare sull’attività degli antifascisti. Così, nel 1927 è proprioArturo Bocchini, ad un anno dalla sua nomina, a creare la “polizia politica”. 
Alla fine del 1930 nasce l’OVRA: nel linguaggio comune quando si parla dell’OVRA sembra si stia pronunciando una parolaccia. In realtà, sebbene il significato letterale della sigla sia rimasto sempre oscuro, si sta parlando di un organo di vigilanza dello Stato. 
Le versioni che si sono date, nel tempo, della sigla sono varie: Organizzazione Vigilanza Repressione Antifascismo, Organo Vigilanza Reati Antistatali e così via. A lungo si è parlato di questa formazione, fiumi di parole sono state scritte in merito, certo è che si tratta di uno strumento a disposizione del Fascismo, e dunque del capo della polizia Arturo Bocchini, atto a controllare e reprimere i crimini contro lo Stato e, certamente, contro ilDuce, che incarna lo Stato sicuramente più di quanto faccia il Re. Si tratta di uno strumento repressivo, senza ombra di dubbio: del resto il Fascismo è un Regime e come tale dispone di strutture atte a garantire il mantenimento dello status quo, pronte ad intervenire qualora il sistema sia messo a rischio. Ciononostante non stiamo parlando della Gestapo e neppure della NKVD sovietica, datosi che il Fascismo è un regime di natura decisamente meno totalitaria rispetto sia al nazismo che al comunismo. Chiaro che si tratta di un mezzo dello Stato per la repressione delle attività politiche ed eversive contro il Regime, dunque contro lo Stato.   Però, oltre che strumento di repressione, l’OVRA, così come concepita da Mussolini e messa in opera da Bocchini, è anche un organismo utile a sondare gli umori del popolo, e non solo degli antifascisti ma anche dei fascisti stessi. La polizia politica mette in riga, infatti, anche lo squadrismo, che rischia spesso di divenire incontrollabile. 
Bocchini è affidabile e determinato, sa il fatto suo, è efficiente ed abile sia in termini di controllo che di prevenzione e, infine, di repressione. Del resto il popolo guarda di buon occhio quello Stato che è capace di mantenere il controllo: uno Stato dotato di autorevolezza garantisce ai cittadini quella sicurezza che essi desiderano, della quale hanno bisogno. Dunque l’OVRA diventa per il Regime anche un punto di forza e di consenso popolare, la sua efficienza garantisce l’ordine pubblico e la sicurezza politica non solo del Regime ma dello stesso Mussolini, lasciando alla repressione un ruolo certamente ampio ma di complemento, considerando anche che durante il Ventennio gli antifascisti sono estremamente limitati di numero e di attività. Non solo: Bocchinilavora alacremente affinché tutto passi attraverso il suo giudizio, limitando così, di fatto, le ingerenze delle autorità locali, che devono limitare la loro opera all’inchiesta e all’istruttoria dei singoli casi, e garantendo così univocità di giudizio. Inoltre la Polizia è indispensabile al Regime per sondare gli umori popolari e sociali, che per lo Stato è fondamentale conoscere al fine di tenere sotto controllo il gradimento e, eventualmente, di correggere il tiro. In ogni caso, la figura di Arturo Bocchini, sebbene sia tra i meno citati tra i personaggi del Fascismo, è fondamentale al punto che è stato definito “il viceduce”. (… continua…)

Emma Moriconi

Parte seconda

Il controllo sull’ordine pubblico abbraccia un ambito vasto. Una struttura semplice ma funzionalissima al Fascismo.

Il controllo dell’Ovra opera anche sulle gerarchie del Partito, cosa che non sempre è gradita e che frutta a Bocchini qualche asperità da parte dei gerarchi. 
Con Galeazzo Ciano, invece, instaura un buon rapporto. Del resto Ciano sta compiendo una scalata al potere non indifferente, dunque il Capo della Polizia non può certo prescindere da lui.
Bocchini è persona di fiducia di Mussolini: entrato in prefettura nel 1903, prefetto di Brescia, Bologna e Genova, Consigliere di Stato nel 1927, nominato Senatore nel 1933 e Membro della Commissione degli affari interni e della giustizia negli anni ’39 e ’40, è uomo abile e d’esperienza, oltre che di carattere. Al punto che riesce, nonostante le pressioni dei gerarchi, a mantenere la Polizia autonoma, sebbene intimamente legata allo Stato e al Duce.
Una circolare di Bocchini recita testualmente: “per l’esatta applicazione devesi tener presente come criterio direttivo che, nella nuova legge, ordine pubblico non ha il vecchio significato meramente negativo, ma significa vita indisturbata e pacifica dei positivi ordinamenti politici sociali ed economici che costituiscono l’essenza del regime”. Da un lato, dunque, è espressione di uno Stato con caratteristiche totalitarie, seppure “contenute”, dall’altro è garanzia di ordine, il che produce un diffuso senso di sicurezza nella cittadinanza. Ecco perché ridurre l’Ovraad un concetto di repressione incondizionata non rende giustizia alla storia del nostro Paese. Fu “anche” repressione, fu “anche” garanzia di tutela per il popolo, andando a sottoporre al proprio controllo l’ordine pubblico nel senso più lato del termine. Naturalmente, tra i compiti essenziali di Bocchini, c’è la salvaguardia dell’incolumità di Mussolini, alla quale provvede con la costituzione della Guardia Presidenziale: cinquecento uomini tra poliziotti, carabinieri e membri della milizia garantiscono l’incolumità del Duce presidiando i luoghi in cui si reca.
Sul nome “Ovra” si sono fatte tante supposizioni, la più curiosa – e anche la più probabile - si riferisce ad una frase di Mussolini mal trascritta dal dattilografo. Secondo questa versione pare che Mussoliniparli della nuova polizia come di una “gigantesca piovra”: il dattilografo salta la sillaba “pi” iniziale e scrive “una gigantesca ovra”. La cosa sembra piacere al Duce, anche per il senso di mistero che aleggia su una parola dal significato oscuro.
Si sente così parlare dell’Ovra per la prima volta in comunicato dell’agenzia Stefani del 3 dicembre 1930: “La Sezione speciale OVRA della direzione generale di PS, dipendente direttamente dal ministero dell’Interno, ha scoperto un’organizzazione clandestina che ordina delitti contro il regime, alcuni dei quali dovevano avvenire in occasione dell’ottavo annuale della marcia su Roma”. E quando il popolo si comincia a chiedere cosa significhi la sigla OVRA, inventando le più fantasiose soluzioni, si comprende che Mussolini ha colto nel segno: ha suscitato curiosità e anche un po’ di suggestione.
La struttura dell’Ovra è semplice e, nello stesso tempo, estremamente funzionale al Regime: un nucleo di funzionari ed agenti e, intorno, una ampia ed articolata rete di informatori sparsi sul territorio, privati, di ogni genere di estrazione sociale, professione, ambito. Tutti i servizi politici e militari dello Stato sono a disposizione dell’Ovra: da essa dipendono prima di tutto gli Uffici Politici delle Questure, gli uffici di PS di frontiera, gli Uffici Politici Investigativi istituiti all’interno della Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale .
Naturalmente un sistema così strutturato pone lo stessoBocchini nell’occhio del ciclone: più di qualche missiva anonima giunge infatti a Mussolini, relativa al Capo della Polizia, raccontato come uomo dissoluto e di dubbia moralità. Mussoliniin realtà poco si cura della vita privata dei suoi collaboratori, impegnato in ben altre questioni e, com’è noto, ben lungi dall’essere critico nei confronti di eventuali “dissolutezze” nei costumi (…continua…)
Emma Moriconi


Parte terza
Il mistero degli elenchi dell’OVRA

I cosiddetti informatori sono persone di ogni genere: operai, studenti, domestici, giornalisti, ma anche ladri e prostitute
La Gazzetta Ufficiale ne pubblica i nomi nel 1946, ma delle migliaia di unità di cui si ha notizia certa, ne appaiono soltanto meno di 700
Il sistema instaurato con l’OVRA ha i suoi aspetti scomodi: in particolare circa la varietà e quantità di “segnalazioni”. 
A volte esse sono, infatti, utilizzate dai cosiddetti informatori per fini diversi da quelli pensati da Bocchini e dal Regime. Accade così che si verifichino casi in cui a denunciare comportamenti ritenuti illegali siano cittadini che utilizzano questo mezzo per risolvere altro genere di beghe, spesso di natura personale, che poco hanno a che vedere, in realtà, con l’ordine pubblico vero e proprio. 
In ogni caso, l’autorità preposta le vaglia tutte, nessuna di queste denunce viene cestinata, e per ciascuna vengono predisposte le indagini. Salvo poi, naturalmente, sottoporre a verifica anche l’affidabilità del denunciante ed intervenire, anche duramente, in caso di diffamazione. I cosiddetti informatori sono persone di ogni genere: impiegati, operai, studenti, domestici, docenti, giornalisti, dame aristocratiche ma anche ladri, prostitute e personaggi di varia estrazione. La Gazzetta Ufficiale ne pubblicherà i nomi nel 1946, dopo la cosiddetta liberazione. Infatti, dopo la guerra, gli elenchi vengono consegnati al ministero dell’Interno. Essi sono una lunga lista di nomi tra cui 65 giornalisti, 57 commercianti, 33 operai, giusto per fare qualche esempio. 
Ovvio che molti nomi non compaiano nell’elenco, probabilmente interpolato a convenienza: non è certo da escludere, infatti, che possa averci messo mano qualche “fascista pentito neodemocratico”. In due parole: la rete dell’OVRA nel Ventennio è ampissima, probabilmente conta qualche migliaio di informatori. Nel 1946 i nomi che appaiono in Gazzetta Ufficiale sono meno di settecento. Significa che molti sono gli “informatori” che poi cambiano casacca  e tornano ad essere “senza macchia”. Significa anche che costoro hanno modo di mettere mano agli archivi dell’Interno, e di manometterli.
Insomma, com’è noto, per togliersi la camicia nera, dopo il 1945, ci vuole poco. Per farla diventare candida bisogna invece avere i buoni uffici di qualcuno. Qualcuno che - due sono le cose - o era un fascista che poi ha cambiato bandiera ed è rimasto ai vertici dello Stato, oppure era un antifascista salito successivamente ai vertici dello Stato (ma allora perché aiutare un ex fascista a sbiancare la camicia nera? Mistero).
Per tornare al tema, il fatto che chi viene ritenuto colpevole anche di semplici frasi pronunciate e ritenute oltraggiose sia condannato al confino è cosa che può, oggi, lasciare perplessi: non bisogna dimenticare, però, che i fatti della storia vanno sempre opportunamente contestualizzati. Dunque, così come è contrario al modo di pensare moderno, per esempio, il fenomeno della schiavitù, ma nessuno si scandalizza quando si parla di schiavi nell’antica Roma, proprio perché il fenomeno viene naturalmente ed automaticamente contestualizzato, allo stesso modo non stupisca la presenza di un’organizzazione così strutturata ai vertici di un Regime seppur moderatamente totalitario. Non bisogna dimenticare che si sta trattando un’epoca storica che risale ormai a quasi un secolo fa, in un’Italia reduce da una guerra mondiale di vastissime proporzioni. Nel momento in cui la forma di governo, in un determinato momento storico, è quella dittatoriale, non ci si stupisca se tutte le organizzazioni dello Stato sono uniformate a questo tipo di impostazione. Del resto, se nel 1922 il Fascismo sale al potere, è proprio perché l’Italia versa in una situazione di totale scompaginamento ai vertici dello Stato. Quella dei primi anni Venti è un’Italia che ha bisogno di qualcuno che sappia tirare le redini di uno Stato allo sbando, che sappia farlo con vigore e senza sconti, che sia capace di dare una linea dura e rigida all’amministrazione pubblica e anche alla quotidianità privata (…continua…)
Emma Moriconi

Parte quarta


Il numero due del Fascismo e la normativa degli anni Trenta

Dal 1931 numerose sono le novità in ambito di Sicurezza della Difesa dello Stato


Dal Testo Unico al Codice Rocco, il lavoro di Arturo Bocchini per  garantire la prevenzione del turbamento della sicurezza
Quando, nella storia, determinati fenomeni prendono il sopravvento, ci sono sempre fondati motivi. Altrettanto accade quando questi fenomeni sono durevoli nel tempo. Nel caso del Fascismo, esso resta in sella per ventuno anni. E, probabilmente, se non giungesse la guerra a segnare una strada diversa, durerebbe molto più a lungo. Una ragione c’è. Anzi, più d’una. E proprio perché ha senso, in quegli anni, questo tipo di governo, altrettanto ha senso la presenza di una struttura forte di polizia, altrettanto ha senso l’OVRA. Che il Fascismo vada sostenuto e difeso è cosa ovvia e naturale, in uno Stato fascista. Che si punisca chi ne parla male, allo stesso modo, rientra nella logica del sistema dittatoriale. Che le manifestazioni di antifascismo vengano fermate sul nascere, ancora una volta, rientra perfettamente nella concezione totalitaristica fascista. Ciò non impedisce, e non bisogna dimenticarlo, che ci sia spazio, nel Fascismo, sempre, anche per le voci critiche: un esempio per tutti è costituito da Giuseppe Bottai e dalla sua pubblicazione “Critica fascista”. Ecco perché si parla di regime “moderatamente” totalitario. Spazio per la “critica” non ci potrebbe essere né nella Germania hitleriana e tantomeno nella Russia stalinista. C’è, invece, nell’Italia fascista.
Ma torniamo al tema: a convincere Bocchini che è necessaria un’organizzazione eccellente della Polizia di Stato è l’attentato a Mussolini del 31 ottobre 1926 ad opera di Anteo Zamboni. Questo evento è raccontato dallo stesso Mussolini alla moglie e alla figlia Edda con queste parole: “Il corteo si svolgeva regolarmente, quando vidi qualcuno fendere la folla ed avvicinarsi alla macchina. Ebbi appena il tempo di notare che si trattava di un ragazzo scarmigliato, pallidissimo, il quale puntava verso di me una piccola rivoltella. La folla, d’un lampo, s’impadronì del disgraziato e ne fece giustizia sommaria. Fu impossibile impedirlo …”.
Il 25 novembre dello stesso anno viene emanata la legge n. 2008, “Provvedimenti per la difesa dello Stato”, che istituisce il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, composto da un presidente, cinque giudici provenienti dalla MVSN e un relatore proveniente dal personale della Giustizia Miliare. Bocchini istituisce l’Ispettorato speciale di polizia, con sede a Milano camuffata da un’insegna che recita “Società anonima vinicola meridionale”. Questa organizzazione  fa capo, per volere di Bocchini, a Francesco Nudi, eccellente poliziotto. Da Milano la struttura si espande rapidamente. Il neo costituito Tribunale ha competenza circa i reati politici, introdotti con la nuova normativa e giudica secondo la procedura penale in tempo di guerra. È l’espressione dell’inizio della dittatura. Il TU di Pubblica Sicurezza del 1931 è ancora più netto e dedica ampio spazio alle misure di prevenzione. Dunque non solo e non primariamente repressione, ma prima di tutto prevenzione, naturalmente funzionale anche a contrastare il dissenso politico. Il T.U. amplia poi un istituto giuridico già presente nell’ordinamento: il confino, che, secondo l’art. 185 T.U., si sconta in una colonia o in un comune del Regno diverso da quello di residenza, con l’ obbligo del lavoro. Ora, il confino risponde a più di un’esigenza del Regime: non solo dunque relativamente ad eventuali comportamenti antifascisti, ma anche allontanando dal proprio ambiente persone che hanno la tendenza a delinquere, in modo da  garantire la prevenzione del turbamento della sicurezza. In ambito di pubblica sicurezza viene confinato solo chi è stato precedentemente ammonito, qualora l’ammonizione non sia stata efficace. In ambito invece di ordine pubblico, questo istituto è applicabile a chiunque commetta atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali, sociali ed economici dello Stato. Nell’estate del ’31 entra anche in vigore in Codice Rocco (che è a tutt’oggi in vigore, naturalmente con numerose modifiche apportate nel corso dei decenni), il nuovo codice di procedura penale e la riforma carceraria (… continua …)
Emma Moriconi


Parte quinta ed ultima

Le leggi “fascistissime”, i provvedimenti sociali, il Fascismo che entra nelle coscienze degli italiani

Uno Stato a larghissima vocazione sociale, e dai connotati forti e decisi, che piace al popolo

Arturo Bocchini possiede una storia personale estremamente interessante: nasce e cresce in una casa tipicamente agricola, in un paese chiamato San Giorgio La Montagna (oggi San Giorgio del Sannio), nel beneventano. 

La madre, Concetta, ha origini napoletane. Il padre, Ciriaco, è un proprietario terriero che fa il medico per passione e si interessa di politica: dal 1856 al 1860 è sindaco di San Giorgio, poi diventa consigliere provinciale. In paese il figlio di Ciriaco è per tutti “don Arturo”, a cui però la realtà locale va presto un po’ stretta, soprattutto dopo essersi laureato, a soli ventidue anni, a pieni voti. 

Ciriaco per il figlio ha in mente un futuro che poco ha a che vedere con le ambizioni del giovane. Don Arturo sogna infatti la carriera prefettizia. Così lascia San Giorgio, fa il concorso per il ministero degli Interni e lo vince. Nel 1903 entra in prefettura. Nel corso degli anni gira l’Italia accumulando esperienza che gli sarà preziosissima, come pure fondamentale è l’incarico di vice prefetto che assume nel 1919, quando dirige la V sezione della direzione generale della Pubblica Sicurezza, che gli consente di conoscere a fondo l’organizzazione della polizia.

Pochi mesi prima che Bocchini ne diventi il Capo, nei primi mesi del 1926, accanto alle leggi cosiddette “fascistissime” vengono promulgate norme dedicate al sociale. Il 3 aprile dello stesso anno 1926 vengono infatti approvate la legge 563 sulla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, elaborata da Alfredo Rocco quale Ministro della Giustizia, e la legge 2247 istitutiva dell’Opera Nazionale Balilla. La disciplina del lavoro costituisce la base dei contratti collettivi, che dimostrano  la vocazione sociale ed estremamente innovativa del Fascismo e la volontà innegabile di creare uno Stato sociale da parte di Mussolini e del Governo. Così, con le leggi sociali da una parte e l’ordine pubblico dall’altra, il popolo vive in una situazione di serenità e di sicurezza, al punto che è divenuto famoso un modo di dire frequentissimo all’epoca, ogni volta che succedeva qualcosa di grave o di sbagliato: “ah, se lo sapesse Mussolini!”.

Dunque quando si giunge alle leggi che abbiamo avuto modo di analizzare, seppure per sommi capi, nelle scorse puntate dedicate ad Arturo Bocchini, tra il 1927 e il 1931, il processo avviene con naturalezza e, c’è da dirlo, non dispiace a nessuno: le eccezioni sono davvero limitate, l’antifascismo è un fenomeno del tutto marginale che assumerà contorni rilevanti solo dal 1943 in poi.

Gli Italiani, negli anni Venti e Trenta, sono ben lieti, nella stragrande maggioranza dei casi, di vivere in uno Stato a larghissima vocazione sociale e dai connotati forti e decisi. Quando, dopo il ‘45, si comincia a parlare di bieca sottomissione dei cittadini, obbligati a radunarsi in Piazza Venezia, si pronuncia un falso storico. Del resto, i numeri parlano chiaro: il Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato, nel corso della sua esistenza - ben 17 anni - esamina 21.000 denunce, emette 5.115 condanne, di cui sette ergastoli  e 31 condanne a morte in tutto su 42 richieste dei Pubblici Ministeri.

E se accadesse di stupirsi in tema di pena di morte, ancora una volta bisogna essere in grado di contestualizzare l’epoca di riferimento: si sta parlando di quasi un secolo fa. E, magari, si potrebbe pensare che nei “civilissimi” Stati Uniti, per esempio, ancora oggi è una pratica diffusissima. E, questo si, è orribile. E non contestualizzabile.

Su Arturo Bocchini è stato pubblicato un volume interessante: “Il viceduce. Arturo Bocchini capo della polizia fascista”, di Domizia Carafoli e Gustavo Bocchini Padiglione. Tra le molte curiosità inaspettate, vi si racconta di come un giornalista americano fotografò i luoghi di confino, destinati come abbiamo visto agli antifascisti, ma quelle foto non vennero mai pubblicate dal suo direttore, che argomentò: “è preferibile evitare, altrimenti molti americani vorranno andarci”.

Emma Moriconi


mercoledì 23 settembre 2015

Il 18 Settembre 1943 nasceva la Repubblica Sociale Italiana.


La rilettura storica dell’esperienza della Repubblica Sociale Italiana – la cui nascita venne annunciata da Benito Mussolini il 18 Settembre 1943 dai microfoni di Radio Monaco – si è, spesso e volentieri, intersecata con le vicende umane, politiche e combattentistiche delle sue formazioni militari o paramilitari. La cui esistenza permise alla giovane Repubblica di sopravvivere, resistere e anche di potersi affermare, nei limiti del possibile, sul terreno militare.
Purtroppo, non sempre le vicissitudini individuali hanno potuto rappresentare con efficacia una esauriente chiave di lettura, tantomeno le motivazioni di ordine interiore, per quanto logiche e anche sinceramente animate da un generoso entusiasmo giovanile, sono riuscite ad evidenziare la complessa e drammatica vicenda storica e politica dell’ultima “creazione” di Mussolini.
Emerse negli anni del dopoguerra una lettura fortemente “spoliticizzata”, a tutt’oggi imperante, tendente a porre soprattutto in evidenza, in maniera del tutto esclusivistica, la scelta di natura patriottica dettata dalla, certamente più che nobile, motivazione dell’esigenza di salvaguardare, a qualsiasi costo, l’Onore nazionale tradito e lo schieramento di campo a fianco dell’alleato germanico dall’umiliazione e dalla vergogna del tradimento consumato dai Savoia e dalle alte gerarchie militari.
Una apologetica lettura apolitica che celebrava l’eroismo e il sacrificio dei volontari, ma quasi del tutto disinteressata – forse anche imbarazzata – nei confronti delle motivazioni politico-culturali che costituirono la sostanza della RSI e la radice del Fascismo repubblicano. Quasi si volesse arrivare ad una sostanziale de-fascistizzazione del fenomeno del volontariato, affinché i giovani soldati “repubblichini” potessero essere considerati – ovviamente dai vincitori – unicamente come dei soldati qualunque, privi di una etichettatura politica infamante, seppure vestiti con una diversa uniforme e appartenenti al campo avverso.
Purtroppo, ciò avvenne spesso a detrimento di coloro – che furono tanti – che della scelta di adesione alla Repubblica fascista privilegiarono la battaglia politica, lo sforzo decisivo per dare un senso compiuto al processo rivoluzionario fascista, la volontà di chiudere i conti con i “guasti” e gli orpelli del Ventennio e aprire un nuovo e vittorioso capitolo per l’Italia e per l’Europa. Necessariamente a fianco della Germania e della sua rivoluzione, che proprio in quegli anni manifestava apertamente il suo più autentico volto europeista e socialista e la comprensibile volontà di porsi come guida ordinatrice della realtà continentale europea.
Lo stesso Drieu La Rochelle, interpretando le aspettative e le ansie degli ambienti collaborazionisti francesi, riterrà opportuno premere sull’acceleratore della chiarificazione politica nei rapporti con la Germania: “Vi sarà un’egemonia come sempre vi è stata, ma più rigorosa. In quanto sarà chiaramente impossibile tornare alle piccole autonomie nazionali ed alle frontiere economiche. Ci vorrà una grande autorità, per nutrire trecento milioni di uomini affamati e stanchi, per organizzare l’autarchia africana, per organizzare il Socialismo continentale.” Parole nette, lucide e chiare che volevano cancellare qualsiasi eventuale dubbio sull’inevitabile ruolo di baricentro e di guida politica che sarebbe stato svolto dalla Germania nazionalsocialista nell’organizzazione della nuova Europa.
Pertanto, la memorialistica reducistica degli ex combattenti – per sua intima valenza consapevolmente impolitica – si fermerà ad un guado controverso, oltre il quale si poneva la consistenza squisitamente politica della RSI, la figura di Benito Mussolini, probabilmente la più autentica fra quelle consegnateci dalla storia e il consequenziale fenomeno delle Brigate Nere, corpo politico-militare per eccellenza e dichiaratamente fascista.
Fin dalla proclamazione della RSI, e ancor da prima, alla notizia della liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, si costituirono spontaneamente, in varie località del centro-nord, formazioni politiche armate denominatesi, guarda caso, proprio “Squadre d’Azione”; esse costituirono i primi fermenti organizzativi dei fascisti che non avevano mai cessato di essere tali, decisi a fronteggiare con decisione – che potremmo definire quadristica – la drammaticità degli eventi in corso.
Sembrava giunto il momento tanto atteso del riscatto e forse anche dei tanti conti in sospeso da saldare, una volta per tutte.
Ovviamente rappresentarono l’incubazione embrionale naturale e funzionale per il successivo radicamento territoriale del Partito Fascista Repubblicano, prontamente organizzato da Alessandro Pavolini con instancabile dedizione. L’ex ministro del Minculpop del Ventennio, uomo di rara intelligenza e di ancor più vasta cultura, fu uno dei pochi “gerarchi” famosi che si schierò prontamente al fianco del Duce nell’avventura repubblicana in cui sinceramente credette e nella quale riponeva le migliori speranze per una radicale rigenerazione del Fascismo.
Nella persona di Alessandro Pavolini si giunse così all’identificazione totale tra radicalismo politico-sociale ed intransigenza etica, tra un assoluto rigore morale e una bruciante passione idealistica. La stessa tenuta retta e dignitosa manifestata di fronte al plotone di esecuzione partigiano ce ne lascia ampia testimonianza.
Fu proprio Pavolini, in qualità di segretario del PFR, a volere la nascita del Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle CC.NN. come effetto della militarizzazione dei compiti politici del Partito, le federazioni del partito si trasformeranno in Brigate e si fregeranno del nome di un caduto per la causa fascista, non si useranno gradi ma si evidenzieranno unicamente le funzioni di comando, la stessa strutturazione interna sarà innovativa e funzionale alle circostanze e ricorderà molto quella dei Freikorpsdell’epopea del Baltikum e non casualmente il capolavoro di Ernst Von Salomon I Proscritti accompagnerà, nel tascapane, molti squadristi delle Brigate Nere.
Il partito-combattente, il partito-armato del Fascismo repubblicano era nato. Gli intransigenti porta-spada dei 18 punti del Manifesto di Verona avrebbero fatto sentire la loro voce e tutti l’avrebbero sentita.
L’ufficializzazione avverrà con il Decreto Legislativo del Duce del 30/6/1944 e scatenerà numerose polemiche fra gli organismi politico-amministrativi della RSI.
In maniera particolare prevarranno le animosità contrariate del maresciallo Graziani, comandante dello Stato Maggiore dell’Esercito repubblicano, del principe Junio Valerio Borghese, il carismatico comandante della X MAS e di Renato Ricci comandante della GNR.
Il primo, assertore di una presunta indispensabilità apolitica delle forze armate e di un necessario ammorbidimento del tono fascistizzante della Repubblica, non poteva che avversare chi rimarcava invece la natura squisitamente fascista dello Stato repubblicano e la conseguente supremazia del principio politico anche in campo militare; il secondo ponendosi sulla falsa riga di Graziani vi aggiungeva inoltre la propria natura di “battitore libero”, una “vocazione guerriera” di stampo rinascimentale di cavaliere di ventura, una personalità avulsa da qualsiasi tipo di pressione o di condizionamento, anche se proveniente da Mussolini in persona, tanto meno da parte delle gerarchie politiche di un partito di cui non aveva nemmeno la tessera e della cui esistenza avrebbe fatto volentieri a meno; infine il terzo, Renato Ricci, che vedeva nelle Brigate Nere uno scomodo concorrente per la sua GNR., che fino ad allora si premurava di presentare come l’unico corpo “fascista” della RSI, in virtù del fatto che era sorta dalla fusione di ciò che rimaneva della Milizia con i Carabinieri e con la PAI – la Polizia Africa Italiana – in realtà un connubio poco proficuo e ancor meno felice, visto che il grosso dei Carabinieri gradualmente diserterà o verrà deportato in Germania, riducendo di fatto l’organico e l’efficacia dei presidi territoriali gestiti dalla Guardia Nazionale Repubblicana.
Nonostante tutto questo e con l’incondizionato favore di Mussolini, le Brigate Nere incominceranno speditamente la loro marcia, quella che Alessandro Pavolini definirà la marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea monarchica, reazionaria e bolscevica, riprendendo quanto aveva detto Mussolini nel corso di un suo discorso del 27/10/1930:“Odio controrivoluzionario; odio di reazionari; odio di conservatori, che ci onora e ci esalta; è la Vandea universale, liberale, democratica, massonica che teme per i suoi feticci, che vede crollare i suoi altari, che sente smascherare le sue mistificazioni. Noi lottiamo contro un mondo al declino, ma ancora potente perché rappresenta una enorme cristallizzazione di interessi”.
Il segretario del Partito aveva in mente un modello da utilizzare come metro di paragone e come analogia: il soldato politico delle Waffen SS, il combattente politico della guerra di Weltanschauung continentale; e ancor di più aveva ben chiaro le finalità che dovevano animare i suoi squadristi: combattere tenacemente il nemico interno, fronteggiare l’invasione anglo-americana, legarsi politicamente ancor più saldamente al popolo e conseguire i frutti rivoluzionari di una guerra fascista portata fino in fondo, fino alle estreme conseguenze.
In linea con quanto disse il Duce a Milano nel 1944 agli squadristi della Brigata NeraAldo Resega“A chi ci domanda: che cosa volete? Rispondiamo con tre parole nelle quali si riassume il nostro programma. Eccole: Italia, Repubblica, Socializzazione. Italia, per noi nemici del patriottismo generico, concordatario e in fondo alibista, quindi inclinante al compromesso e forse alla defezione, Italia significa onore e onore significa fede alla parola data. La nostra Italia è repubblicana. Esiste al nord dell’Appennino la Repubblica Sociale Italiana. E questa repubblica sarà difesa palmo a palmo, sino all’ultima provincia, sino all’ultimo villaggio, sino all’ultimo casolare. Quali siano le vicende della guerra sul nostro territorio, l’idea della Repubblica, fondata dal Fascismo è entrata nello spirito e nel costume del popolo. La terza parola del programma, Socializzazione, non può essere considerata che la conseguenza delle prime due: Italia e Repubblica. La Socializzazione altro non è che la realizzazione italiana, umana, nostra effettuabile del Socialismo. Con questo noi vogliamo evocare sulla scena politica gli elementi migliori del popolo lavoratore. Poiché il più grande massacro di tutti i tempi ha un nome – Democrazia – sotto la quale parola si nasconde la voracità del Capitalismo giudaico che vuole realizzare attraverso la strage degli uomini e la catastrofe della Civiltà lo scientifico sfruttamento del Mondo”.
Quando furono ufficialmente costituite le Brigate Nere, nella loro qualità di organo militarizzato del PFR, si produsse un evento politico concreto, espressione di una politica rivoluzionaria applicata dove quella vocazione popolare e idealistica che erano state alla base del Fascismo delle origini e dell’epopea quadristica tornavano prepotentemente in auge, ma ancor di più motivate e decise nei toni, innalzando all’ennesima potenza il suo carattere di élite rivoluzionaria che nata dal popolo andava verso il popolo.
Non erano stati francamente numerosi i casi in cui il Fascismo, durante il regime, aveva prodotto misure di rottura netta ed inequivocabile con le istituzioni precedenti.
Di prove in senso contrario, piuttosto, se ne ebbero in abbondanza. Basterebbe solamente pensare al caso della MVSN, la milizia fascista, che venne costretta ad essere inquadrata nei ranghi dell’esercito regio e con tanto di giuramento di fedeltà alla monarchia, cosa che creò non poche inquietudini a numerosi fascisti, consapevoli che quella operazione di vertice andava a neutralizzare il potenziale politico della stessa, abolendone l’autonomia e minandone di fatto la fedeltà al regime fascista.
Non a caso dopo i fatti del 25 Luglio, il crollo del regime e l’arresto del Duce, la MVSN non costituì alcun problema per il nuovo governo di Badoglio.
La creazione delle Brigate Nere, cioè la militarizzazione del PFR, rappresentò invece uno dei segnali più visibili di un nuovo determinismo politico in corso d’opera.
Fu la risultante di una volontà comune che, partita dai luoghi dell’azione e dalle località dove la realtà della guerra civile era concreta esposizione quotidiana allo stillicidio, rimise in moto spontaneamente l’antica prassi squadristica del tonificare gli uomini, del fare fronte comune, del rispondere colpo su colpo al nemico.
Niente sarebbe rimasto più impunito.
Alessandro Pavolini, nella sua esemplare coerenza spinta fino al sacrificio ultimo, incarnerà la realizzazione di una volontà più che politica, pienamente ideologica, profondamente compenetrata spiritualmente con il Fascismo: una virile mistica della lotta e della rivoluzione. Una possente volontà che integralmente trasmetterà agli uomini delle Brigate Nere, perché la guerra contro il ribellismo delle bande partigiane era vera guerra rivoluzionaria, era esaltazione nietzschiana del superamento di ciò che ancora era troppo umano.
Storie di guerra, di sangue versato per nutrire la sacra terra della Repubblica. Storie di passione ideologica che non arretrava di fronte a niente, fino al consumarsi del sacrificio, perché non tutti avevano tradito. Quindi, Storia, Sangue e Onore di una Stirpe, quella fascista, che nella militanza nei ranghi delle Brigate Nere inquadrò il significato più intenso del Fascismo e della RSI.
Maurizio Rossi


sabato 19 settembre 2015

A PROPOSITO DI GIACOBINI

La morte del Marinaio di Mola Pietro Antonio Trani
“Libertè  Egalitè, tu offendi a me io ammazzo a te”
La proposta di una targa per ricordarlo


Nel 1798 a Terracina i valori Libertè Egalitè Fraternitè iniziavano ad essere applicati ed insegnati ai “cafoni nostrani” con armi e sentenze che non riportavano la dicitura “ In nome della Repubblica Romana”, ma “In nome del popolo francese”.
Ed ecco che ritroviamo una sentenza del 14 ottobre 1798 della Commissione Militare stabilita nel Dipartimento del Circeo che riporta quanto segue: “In nome del Popolo Francese, Anno settimo della Repubblica Francese, Una e Indivisibile. Libertà ed Uguaglianza”.
“La Commissione Militare convocata dal Presidente si è adunata in una delle Sale della Municipalità di Terracina ad oggetto di giudicare gli accusati di essere andati ribelli nella Casa del Console Francese in Terracina per assassinarlo, di aver carcerato vari Patrioti di detta Città nel tempo della Ribellione nel Dipartimento del Circeo contro l’Armata e la Repubblica Francese, e di averla provocata tanto con discorsi che col prendere le armi”.
Uno degli accusati era Pietro Antonio Trani, povero pescatore di Mola di Gaeta che si trovava a Terracina per lavoro: interrogato non seppe riferire neanche la sua età. Pietro Antonio Trani fu accusato di aver “preso le Armi contro l’Armata e la Repubblica Francese e di essere andato con una pattuglia nella Casa del Console Francese in Terracina per prenderlo ed avere minacciato i patrioti e gridato per le Strade che bisognava massacrare tutti i Repubblicani”. Per tutto questo, Pietro Antonio Trani, nonostante non fu reo confesso dei fatti, fu condannato a morte. Nessun appello, nessuna difesa.
Giuseppe Scipione era un calzolaio ed aveva solo 22 anni. Era di Castellone ed anch’egli si trovava a Terracina per lavorare. Giuseppe Scipione fu accusato di “aver prese le Armi”. Non fu reo confesso per le accuse che gli si facevano. Fortunatamente sfuggi la pena di morte e fu liberato tanto per tornare a Formia e raccontare quanto successo al suo conterraneo.
In tutto gli accusati erano 14. Tutti contadini, calzolai, pescatori ed umili lavoratori di Terracina e della zona limitrofa. Su 14, ben otto furono ammazzati “in nome del popolo francese”, ma a Terracina. “In nome della Repubblica Francese”, ma in Terra di Roma. Evidentemente l’uguaglianza e la libertà con cui avevano ghigliottinato re e nobili a Parigi a favore del popolo non valeva in terra straniera. Evidentemente gli ideali portati erano più importanti della vita di 14 uomini che osarono in casa loro ribellarsi alla sanguinosa  invasione di un esercito straniero. Ma ciò che appare assolutamente insostenibile ed aberrante è che chi allora, chiamato brigante, fu spietatamente ammazzato per essersi legittimamente difeso da una sanguinosa invasione straniera, è tutt’ora offeso nella memoria.
Oggi noi vogliamo ricordare Pietro Antonio Trani, pescatore di Mola morto a Terracina per evitare che degli stranieri arrivassero nella sua città natale, Formia. Ammazzato per aver solo tentato di ribellarsi allo straniero.
Daniele E. Iadicicco
Presidente Associazione Terraurunca

L’albero della libertà (francese)
“France sur le monde”
(La Francia sul mondo)

martedì 15 settembre 2015

Don Tullio Calcagno il prete che andò a morire con Mussolini


UNO DEGLI ESPONENTI PIU’ IN VISTA DEL CLERO, ADERI’ ALLA R.S.I. COMBATTENTE DELLA FEDE E DELL’ IDEA, PAGO’ CON IL SACRIFICIO SUPREMO LA SUA SCELTA IDEALE

I CAPPELLANI MILITARI INQUADRATI NEI REPARTI DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA , FURONO QUTTROCETOTTANTATRE, CINQUANTASETTE DEI QUALI DI PRIMA NOMINA, I RESTANTI PROVENIENTI DAL REGIO ESERCITO, I RELIGIOSI VENNERO INTERPELLATI DA MONSIGNOR ANGELO BARTOLOMASI ( INDISCUSSA GUIDA DEL CORPO DEI CAPPELLANI MILITARI GIA’ “VESCOVO DI CAMPO” DURANTE TUTTA LA PRIMA GUERRA MONDIALE) PER SCEGLIERE SE ADERIRE O MENO ALLA COSTITUZIONE  DELLE FILE DEI CAPPELLANI MILITARI OPERANTI NEL SETTENTRIONE D’ ITALIA.

Don Tullio Calcagno nato Terni, 10 aprile 1899 ucciso a Milano, 29 aprile 1945 

Nato da una famiglia povera di Terni il 10 aprile 1899, entrò in seminario all'età di 10 anni e nel 1924 divenne parroco nella città natale. Dal 1915 al 1918 lasciò il seminario perché venne arruolato nell'esercito durante la prima guerra mondiale.
Fu inizialmente contrario alla firma del Concordato del 1929 da parte della Santa Sede, ma in seguito cambiò idea ritenendo che la firma di questo patto avrebbe causato un risveglio della religiosità cattolica in tutto il mondo.
Si avvicinò al fascismo in occasione della Guerra in Etiopia, divenendo un grande sostenitore del regime italiano. Nel 1940 si schiera con i favorevoli alla guerra e nel giugno del 1943 pubblica senza approvazione ecclesiastica Guerra di Giustizia, libro all'insegna della fedeltà alla Patria e all'alleato tedesco, al di sopra di ogni contingenza.
La sua scelta politica finì con il metterlo in contrasto con la Santa Sede, soprattutto dopo l' armistizio di Cassibile e la nascita della Repubblica Sociale Italiana. La Convenzione di Ginevra vietava infatti agli stati neutrali, come la Santa Sede, di riconoscere una legittimità internazionale e diplomatica agli stati nati in occasione di conflitti bellici, come nel caso della RSI; Calcagno dissentiva con questa scelta, in realtà obbligata, e cominciò a distaccarsene nei comportamenti arrivando addirittura ad aderire alla RSI.
A partire da questa frattura con le autorità vaticane, iniziò a collaborare con riviste e quotidiani fascisti, come il Regime fascista, diretto allora dal gerarca Roberto Farinacci, segnalandosi subito per i suoi articoli molto aggressivi e attirandosi l'ostilità del vescovo di Cremona, Giovanni Cazzani, che esortò i fedeli a diffidare di lui e lo sospese a divinis. Ma Calcagno, sostenuto in questo da Farinacci, anche lui in forte contrasto con il vescovo di Cremona, rispose fondando nel 1944 un nuovo giornale fascista, ancora più polemico dell'altro, cioè la Crociata Italica
Dalle colonne del nuovo quotidiano, il sacerdote attaccò violentemente la politica della Santa Sede. Lo scontro divenne talmente aspro che Calcagno fondò un'associazione con lo stesso nome della testata che si proponeva l'obiettivo, radicale e velleitario, di un'imponente riforma della Chiesa cattolica che portasse alla creazione di una Chiesa cattolica autocefala, cioè indipendente da quella romana e con un primate italiano distinto dal papa: secondo lui, infatti, il sommo pontefice rivestiva un ruolo troppo universale per difendere adeguatamente gli interessi italiani.
Questo proponimento era troppo radicale per passare inosservato alle gerarchie cattoliche e il 24 marzo 1945, con il decisivo contributo dell'arcivescovo di Milano Ildefonso Schuster, don Tullio Calcagno fu scomunicato.
Un mese dopo circa fu fatto prigioniero da un gruppo di partigiani a Milano e fucilato a piazzale Susa. Trasportata su un carretto per la spazzatura, la salma fu inizialmente tumulata nel campo dei fucilati del Musocco, campo 10 detto anche "Campo dell'Onore" e poi fu in seguito traslata nel cimitero della sua città natale Terni.


Don Tullio Calcagno, il prete che andò a morire con Mussolini


di Francesco Lamendola 


Fonte: Arianna Editrice


C'è una sorpresa in serbo, per chi legga le memorie di Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano dal 1929 al 1954, anno della sua morte (e beatificato da Giovanni Paolo II nel 1996, dopo che la sua salma è stata trovata incorrotta), relative all'ultimo atto della Repubblica Sociale Italiana, nella primavera del 1945.


Il libro, intitolato «Gli ultimi tempi di un regime» (Milano, Editrice La Via, 1946) e pubblicato a caldo, pochi mesi dopo la fine della guerra, si apre e si chiude con il nome di un prete che, oggi, dice poco alla maggior parte dei lettori, ma non così in quella arroventata stagione che va dall'8 settembre del 1943 alla fine di aprile del 1945: quello di don Tullio Calcagno. O meglio, bisognerebbe dire: dell'ex prete Tullio Calcagno, dato che il 24 marzo 1945, un mese prima della sua tragica morte, egli aveva subito il più grave provvedimento coercitivo della Chiesa cattolica: la scomunica maggiore.


Nelle prime pagine del libro di Schuster, don Calcagno viene ricordato per via dei numerosi interventi dell'arcivescovo di Milano contro il prete umbro, contro il suo giornale «Crociata Italica» e contro il movimento cattolico dissidente che portava lo stesso nome. Nelle ultime, in cui si descrive il drammatico incontro fra Mussolini e i capi della Resistenza milanese - l'avvocato Achille Marazza, Riccardo Lombardi e il generale Raffaele Cadorna -, avvenuto nel Palazzo arcivescovile di Milano, in Piazza Fontana, il pomeriggio del 25 aprile 1945, si afferma che don Calcagno fu oggetto della conversazione privata fra il Duce e il prelato ambrosiano.


Poiché i rappresentanti del Comitato di Liberazione Nazionale erano in ritardo, Schuster invitò Mussolini ad accomodarsi nel suo salottino e questi, forse per rompere l'imbarazzo della situazione, di sua iniziativa disse di essere sempre stato leale difensore dei Patti Lateranensi e di non avere approvato gli eccessi di «Crociata Italica» e di don Calcagno. Schuster, che aveva invitato Mussolini a predisporsi a un duro periodo di prigionia o di esilio, lasciò cadere l'argomento, forse per evitare inutili discussioni, in quanto sapeva bene che Mussolini aveva in qualche misura incoraggiato l'attività di don Calcagno, anche se ora lo negava.


Ma chi era, dunque, questo prete onnipresente nei pensieri del cardinale Schuster e dello stesso Mussolini; questo prete scomodissimo, talmente fascista da risultare imbarazzante e quasi impresentabile per gli stessi «repubblichini»?


Sebbene oggi la sua memoria sia andata quasi perduta, negli anni fra il 1943 e il 1945 si trovò a svolgere una parte quasi da protagonista nel corrusco panorama della Repubblica Sociale, non solo per il suo instancabile zelo bellicista e antibritannico, nonché per il suo convinto antisemitismo, ma soprattutto per il fatto che, ad un certo punto, si mise alla testa di un movimento che imboccò la strada, se non dell'eresia dottrinale, certo dello scisma, in quanto fu l'ultimo tentativo di creare una Chiesa italiana autocefala ed autonoma rispetto al Vaticano, da lui giudicato troppo acquiescente verso il nemico, vale a dire verso le Potenze alleate.


Tentativo velleitario, senza dubbio, e sproporzionato alle sue possibilità e alle condizioni storiche e culturali del momento; e tuttavia abbastanza audace a abbastanza energico da coinvolgere, in un dato momento, frange non certo secondarie del clero e dei fedeli dell'Italia settentrionale, tanto da impensierire seriamente le alte sfere del Vaticano e specialmente il vescovo di Cremona, monsignor Cazzani, e, come già detto, l'arcivescovo di Milano.


Ma chi era questo prete così politicamente scorretto, da mandare in bestia vescovi e cardinali, e che era giunto ad impensierire seriamente lo stesso pontefice, in un momento storico in cui - si sarebbe detto - ben altre parevano le priorità, fra invasioni straniere, bombardamenti, fame, guerra civile e rappresaglie d'ogni genere?


Tullio Calcagno era nato a Terni, da una famiglia povera, il 10 aprile 1899; era entrato in seminario a dieci anni e a soli venticinque, nel 1924, era già divenuto sacerdote e parroco della cattedrale della sua città natale. Questa folgorante carriera, che desta ancora maggior stupore se si considera che per l'intera durata della prima guerra mondiale, dal 1915 al 1918, egli lasciò il seminario e venne arruolato nell'esercito (era uno dei gloriosi «ragazzi del '99», gli artefici del miracolo del Piave) ci mostra, di per sé, che doveva trattarsi di una persona tenace e intelligente, altrimenti non avrebbe fatto tanta strada, senza avere appoggi in alto loco.
La posizione di don Calcagno nei confronti del fascismo non è stata coerente ed uniforme, ma, al contrario, fu caratterizzata da una serie di oscillazioni. Il Concordato del 1929 lo vide decisamente critico; solo in seguito cambiò idea e si convinse che il fascismo avrebbe potuto costituire un valido sostegno per la Chiesa cattolica. Il suo era il punto di vista di un prete che provava una crescente simpatia per il regime, non quello di un fascista che, per caso, si fosse trovato ad indossare la tonaca sacerdotale.
Ma l'accostamento pieno e definitivo al fascismo, per don Calcagno, si colloca nel 1935-36, al tempo della guerra di Etiopia. In quell'evento, egli vide la prova che il regime di Mussolini poteva e voleva mettere la sua forza al servizio della causa cattolica, espandendo i confini spirituali della Chiesa di Roma (a dispetto del fatto che l'Impero di Hailé Selassié fosse, da tempo immemorabile, cristiano). E a quanti, ragionando con il senno di poi, trovassero strana una simile presa di posizione da parte di un sacerdote, giova ricordare che Calcagno non fu certo l'unico membro del clero italiano a giungere a quelle conclusioni; e che in prima fila, tra quanti plaudirono l'impresa etiopica e benedissero le bandiere dell'esercito invasore, c'era proprio quel cardinale Schuster che, una decina di anni dopo, avrebbe visto il parroco di Terni come il fumo negli occhi.
Cattolico fortemente conservatore, don Calcagno non disapprovò nemmeno la svolta anisemita del 1938, inaugurata dal regime con le leggi razziali; su questo punto, Schuster dissentì dal regime e pronunciò alcune omelie per condannare il razzismo. Tuttavia, a pensarla come don Calcagno erano in parecchi, questo bisogna dirlo per onestà intellettuale e per esattezza di ricostruzione storica. Nella Chiesa cattolica italiana, infatti, esisteva un antisemitismo religioso (non razziale, si badi) da antica data, che tuttavia non impedì alla Chiesa, nel suo complesso, di svolgere una funzione di difesa degli ebrei perseguitati, specialmente dopo la caduta del fascismo e l'occupazione tedesca dell'Italia, anche per una precisa volontà del pontefice Pio XII. 
E - sia detto fra parentesi - sarebbe ora di finirla con la sciocchezza del «colpevole silenzio» del papa circa la tragedia del genocidio degli Ebrei; perché è documentato che egli fece tutto quanto si poteva fare senza giungere ad una rottura irreparabile con il Terzo Reich, che avrebbe reso impossibile proseguire nell'opera silenziosa di soccorso ai perseguitati; mentre non si capisce perché un tale silenzio non venga mai imputato ai capi delle Potenze alleate - Roosevelt, Churchill e Stalin - i quali, come e assai più del papa, erano informati di quel che stesse realmente avvenendo nei campi di concentramento in Germania e in Polonia.
Ma torniamo a don Calcagno e alla sua adesione sempre più entusiastica al fascismo. Fautore dell'entrata in guerra a fianco della Germania, egli chiese di essere arruolato nell'esercito, ma non fu accontentato, sebbene la sua richiesta venisse pubblicata sul giornale di Roberto Farinacci, «Regime Fascista», aprendo un rapporto umano e una collaborazione politica fra il gerarca di Cremona e il battagliero parroco di Terni, che sarebbero proseguiti sino alla fine.
Convinto che la lotta contro le Potenze democratiche e contro l'Unione Sovietica corrispondesse ad alti ideali politici, sociali e religiosi, nel 1942 don Calcagno pubblica un libro, a sue spese, intitolato «Guerra di giustizia», il cui titolo è tutto un programma e ricorda da vicino le posizioni di un Berto Ricci e, in genere, del fascismo sociale. Ma in fondo, a ben guardare, quelle posizioni altro non sono che il naturale sviluppo di premesse culturali che risalgono a nobili e insospettabili precursori, per esempio il Pascoli de «La grande proletaria si è mossa»; per non parlare di certi inediti e significativi interventi di un marxista come Labriola a favore dell'espansione coloniale italiana.
Ad ogni modo, nel suo libro don Calcagno dava sfogo ai suoi violenti umori anticapitalisti ed anticomunisti, nonché a una certa irruenza di carattere, e si spingeva sino al punto di affermare che, se in guerra è lecito uccidere, allora è anche lecito odiare il nemico. Il ragionamento è rozzamente schematico e non quale ci si potrebbe aspettare da un ministro di Dio; d'altra parte, non si può negare a questo prete umbro l'aspra franchezza di un uomo che non ama le ipocrisie e che non sa parlare per mezze parole, ma che è uso gettarsi a capofitto, con ardente passione e, forse, con imprudenza, nell'arena politica, una volta che abbia fatto la sua scelta di campo e ne abbia tratto tutte le debite conseguenze, in un contesto di guerra.
L'autorità ecclesiastica, comunque, non apprezza né il libro, né il fatto che don Calcagno lo abbia pubblicato senza richiedere il necessario «nihil obstat»; ad essere un po' maliziosi, si può anche sospettare che quel libro crei qualche intralcio alla progressiva la presa di distanza del Vaticano dal regime, che, nei primi mesi del 1943, diviene più evidente (basta scorrere, per rendersene conto, la stampa cattolica del periodo, e specialmente i periodici diocesani). Dal 1943, infatti, la linea di politica estera del Vaticano pende ormai nettamente a favore dello schieramento alleato e contro l'Asse Roma-Berlino; e, a quel punto, come si potrebbe tollerare che un prete scriva un libro per definire «santa» la guerra intrapresa da Mussolini?
Don Calcagno viene convocato a Roma, davanti alla Congregazione del Santo Uffizio - vale a dire, l'Inquisizione - e, il 30 giugno 1943 , mentre l'invasione angloamericana della Sicilia è ormai alle porte, gli viene formalmente intimato di non occuparsi più di politica attiva e di restarsene buono, attendendo al proprio ministero spirituale.
I fatti del 25 luglio e, poi, dell'8 settembre, producono una scossa fortissima nell'animo di questo prete fascista che stravede per Mussolini e che giudica la sua caduta, e l'armistizio firmato con gli Alleati, il risultato di oscure manovre del re e di un gruppo di uomini politici traditori della causa nazionale. Di lui si può dire quel che si vuole, ma non che fosse un opportunista o un timido; perché, proprio all'indomani della resa dell'8 settembre, ha inizio il capitolo più drammatico e concitato della sua vita - l'ultimo -, caratterizzato da una foga istintiva che non conosce astuzie né compromessi e che va dritta verso l'inevitabile "redde rationem".
Dopo l'8 settembre don Calcagno scrive una seria di veementi articoli per bollare di tradimento il re e Badoglio e per esortare alla riscossa contro gli Alleati, al fianco della Germania: e, questa volta, incorre nella sospensione "a divinis" da parte del vescovo di Cremona, Giovanni Cozzani. A Cremona egli si è recato dopo aver lasciato Terni, mettendosi subito in contatto con Roberto Farinacci, per il quale scrive su «Regime fascista» e, poi, fonda un nuovo settimanale da lui stesso diretto, «Crociata Italica», finanziato dal ras della città, anche perché questi è nemico personale del vescovo.
Il primo numero di «Crociata Italica» esce il 9 gennaio 1944 e, in brevissimo tempo, il giornale arriva a tirare la bellezza di oltre 100.000 copie: cifra sbalorditiva, specie considerati i tempi, e che lo pone in testa alla classifica della stampa più letta della Repubblica Sociale Italiana. Ogni numero, costituito da quattro pagine, è accompagnato dalle foto delle chiese e degli edifici distrutti dai bombardamenti aerei alleati, nonché da ironici commenti nei confronti di questi sedicenti liberatori che stanno riducendo in polvere un intero patrimonio artistico e civile. Lo stile degli articoli è aspro e intransigente; si invoca fedeltà a oltranza verso l'alleato germanico e si ribadisce che la causa fascista repubblicana è giusta e santa.
I collaboratori del giornale sono di provenienza disparata; fra essi non mancano persone assolutamente sincere e in buona fede, animate da un autentico amor di Patria e dal desiderio di lavare la vergogna dell'8 settembre con uno soprassalto di orgoglio nazionale. Sono persone qualunque, che hanno tutto da perdere e nulla da guadagnare ad esporsi in quel modo, visto che ormai non occorre essere dei profeti per intuire che la guerra, per l'Asse, è perduta, e che giungere ad una durissima resa dei conti è solo questione di tempo.
Per avere un'idea dell'atmosfera di ingenuo entusiasmo e di nobile patriottismo che animava sicuramente almeno una parte dei collaboratori di «Crociata Italica», si può prendere ad esempio il caso di una giovane maestra cremonese, Marmilia Gatti Galasi, orfana di entrambi i genitori e con due sorelle da mantenere, di cui parla Giampaolo Pansa ne «La grande bugia» (Milano, Sperling & Kupfer, 2006, pp. 255-57):
«L'armistizio dell'8 settembre ebbe su di me un effetto devastante. Com'era possibile un tradimento così? E la fede alla parola data? E la lealtà che andavo raccomandando a scuola? In che modo li avrei spiegati ai miei alunni? L'Italia era in rovina. Come potevo non prendere posizione in modo aperto? Non avevo più genitori che mi suggerissero prudenza. Ero del tutto autonoma. La mia timidezza mi spingeva più a scrivere che a parlare.
Nel gennaio 1944 uscì a Cremona un settimanale, "Crociata Italica".Lo dirigeva un sacerdote, che nel novembre dell'anno precedente era stato sospeso a divinis, cioè interdetto a celebrare i sacramenti, per i suoi scritti sui giornali della Repubblica Sociale: don Tullio Calcagno. Quando lessi "Crociata Italica", mi decisi subito al grande passo: gli mandai un articolo scritto di getto, con il cuore. Era intitolato: "Parole ai maestri". Se lo rileggo oggi, mi meraviglio di me stessa. Ma avevo 23 anni, tanta rabbia dentro, e tanto amore per la mia Patria.
Don Calcagno lo pubblicò in prima pagina, con la mia firma. Il suo settimanale stava avendo molto successo: vendeva 100.000 copie. Anche al mio paese c'era chi lo comprava per entusiasmarsi e chi per criticarlo. Uno zio sacerdote, direttore di un seminario, arrivò di corsa per tirarmi le orecchie: "Che cosa ti è venuto in mente? Non pensi alle conseguenze per te e le tue sorelle? Promettimi che non lo farai più!". E io promisi.
Ma quante lettere di approvazione ricevetti! Il Provveditore agli studi mi convocò per propormi di cambiare sede: potevo insegnare in città o almeno nel mio paese. Rifiutai: non avevo scritto l'articolo per avere dei privilegi. Nel frattempo, don Calcagno mi sollecitava. Gli spedii un articolo, "Italia, Patria mia", denso di amore per la mia terra bella e infelice. Arrivò di nuovo lo zio sacerdote: "Non mi hai dato retta! Ripensaci. Devi farlo per le tue sorelle".
Tacqui per un po'. Poi consegnai a don Calcagno una poesia dedicata ad Aldo Bormida, il primo giovane soldato della Rsi caduto ad Anzio combattendo contro lo sbarco anglo-americano. Poi niente, mi pare. Ma in paese si cominciò a dire che scrivevo sui giornali fascisti. E qualcuno mi guardò male.
Nel settembre 1944, il ministro della Cultura popolare, Fernando Mezzasoma, mi convocò a Salò. Ci arrivai, dopo un lungo viaggio in bicicletta. Fatto assieme al segretario del fascio del mio paese: un brav'uomo, quasi sordo, con un piccolo negozio di alimentari. Ero una ragazza di campagna con le trecce sulle spalle, stanchissima, sudata, desiderosa soltanto di rientrare a casa. Che cosa poteva volere da me il ministro?
Mezzasoma mi offrì un incarico al ministero, per scrivere articoli come i due che avevo pubblicato su "Crociata Italica". Gli risposi: "No, grazie. Voglio tornare alla mia scuola in mezzo ai campi: è il mio mondo. Fui contenta quando ripresi la bicicletta e mi rimisi in viaggio. Qualche giorno dopo ricominciai a insegnare. Che felicità! I miei bambini erano davvero i più belli del mondo. Come potevo pensare di lasciarli? E invece ero destinata a perderli,.
Sette mesi dopo, alla fine della guerra, venni cacciata con un decreto: "Sospesa dall'insegnamento, senza stipendio, a tempo indeterminato". Era il 29 aprile 1945. Non sapevo che, in quello stesso giorno, don Calcagno era stato fucilato dai partigiani a Milano, insieme al cieco di guerra Carlo Borsani.»
Un poco alla volta, mano a mano che si fa più aspra la polemica con Cozzani e con Schuster, intervenuto a sua volta per mettere in guardia i fedeli contro il prete sospeso "a divinis", intorno al giornale «Crociata Italica» si forma un vero e proprio gruppo di dissidenza religiosa, che, pur non toccando questioni di natura dogmatica, tende a definirsi in senso scismatico.
Due sono i punti sui quali don Calcagno e i suoi seguaci concentrano i propri sforzi propagandistici: il riconoscimento della Repubblica Sociale da parte della Santa Sede, reso però impraticabile dalle norme del diritto internazionale, che vietano agli Stati neutrali - quale è il Vaticano - di riconoscere gli Stati sorti nel corso di un conflitto armato; e, in sfumato questo obiettivo, la costituzione di una Chiesa italiana distinta dalla Santa Sede, visto che il papa, per la sua posizione di capo spirituale dell'intera cristianità, non sembra in grado di interpretare il ruolo di capo effettivo della Chiesa italiana e di agire conformemente agli interessi nazionali.
In realtà, la vicenda di questo settimanale e del movimento ad esso collegato è la testimonianza di un problema reale e di un malessere ampiamente diffuso nel clero dell'Italia centro-settentrionale e fra numerosi cattolici. Qual è il vero e legittimo governo dell'Italia: il Regno del Sud di Vittorio Emanuele III, o quello della Repubblica Sociale di Mussolini? Da che parte stanno la legalità costituzionale e, soprattutto, la giustizia e la legittimità morale? Quale dei due incarna realmente gli interessi del popolo italiano e della Chiesa cattolica? E si tenga presente, per inquadrare adeguatamente tale problematica nel preciso contesto storico, che gli Alleati avevano appena portato a termine la distruzione a freddo di un secolare e glorioso monumento della cristianità, quale l'abbazia di Montecassino; che avevano più volte bombardato Roma, spargendo la morte tutto intorno alle maggiori basiliche del cattolicesimo; che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, nazioni protestanti, e l'Unione Sovietica, ufficialmente atea, non sembravano davvero potenze amiche della Chiesa.
Che il movimento di «Crociata Italica» impensierisse seriamente i vertici del cattolicesimo, lo testimonia il fatto che non solo il giornale dell'arcidiocesi di Milano, «L'Italia», scese in campo, insieme al cardinale Schuster, per denunciare la faziosità e la non validità del movimento, costruito intorno alla figura di un prete sospeso dalla funzione sacerdotale; ma la stessa cosa fecero anche l'arcivescovo di Torino, Maurilio Fossati, e il patriarca di Venezia, Cardinale Piazza.
Don Calcagno, di tanto in tanto, mostrava segni di pentimento e chiedeva il perdono delle alte gerarchie; poi, bruscamente, di nuovo si irrigidiva sulle proprie posizioni, in una altalena che ad alcuni parve il frutto di una sapiente strategia. Sia come sia, è certo che il direttore di «Crociata Italica» aveva pochi amici anche nella Repubblica Sociale, e che molti fascisti diffidavano di lui e del suo estremismo. In pratica, il suo solo appoggio era costituito da Roberto Farinacci. Mussolini, che lo ricevette nella primavera del 1944, pare gli abbia confermato il suo sostegno, ma questo doveva essere poco convinto se, ancora nell'imminenza della fine, il Duce si scuserà con Schuster degli «eccessi» di don Calcagno.
Comunque, il 24 marzo 1945 la Santa Sede emette un decreto di scomunica che, insieme al precipitare della situazione militare, con il crollo repentino della Linea Gotica, segna la fine sia del settimanale, sia del movimento dei «crociati». 
Don Calcagno si rifugia a Crema, dapprima in casa di amici, poi nel Seminario Comboniano, con il consenso del vescovo di quella città. Scoperto dai partigiani, è arrestato e tradotto a Milano, nei sotterranei del Palazzo di Giustizia, la sera del 27 aprile. Sottoposto a processo sommario davanti a un sedicente Tribunale del popolo, il 29 è condannato a morte e fucilato a Piazzale Susa, insieme alla medaglia d'oro Carlo Borsani. Negli ultimi istanti ha chiesto i conforti religiosi, ma non vi è stato il tempo di somministrarglieli. Il suo cadavere viene trasportato, sopra una carretta della spazzatura, presso il campo dei fucilati del Musocco, e solo più tardi verrà traslato nel cimitero di Terni, la sua città natale.
Vale la pena di ricordare che non si è trattato di una rappresaglia isolata. Anche altri sacerdoti, specialmente cappellani militari, hanno subito un destino analogo, al momento della resa dei conti, a causa della loro fedeltà alla Repubblica Sociale. Fra essi possiamo ricordare Luigi Manfredi, Dante Mattioli, Aldemiro Corsi e Sperindio Bolognesi, parroci di alcuni paesi in provincia di Reggio Emilia; don Edmondo De Amicis, don Sigismondo Damiani e don Crisostomo Ceragiolo, cappellani militari. 
La tragica fine di don Calcagno è stata rievocata da Carlo Borsani jr nel suo libro dedicato alla vicenda del padre, medaglia d'oro al valor militare, cieco e presidente dell'Associazione mutilati durante la Repubblica Sociale Italiana: «Carlo Borsani. Una vita per un sogno (1917-1945)» (Milano, Mursia, 1995, pp. 24, 28-29):
«Quella sera un nuovo personaggio si aggiunge ai prigionieri: è don Tullio Calcagno che a Cremona, nella tipografia di Roberto Farinacci, stampava "Crociata Italica", un settimanale attorno al quale riuniva quei sacerdoti che avevamo aderito al fascismo repubblicano. 
I detenuti, molti dei quali temono di venir condannati a morte, gli chiedono la benedizione e l'assoluzione, ma don Calcagno, che è stato spretato, allarga mestamente le braccia: "A me non spetta benedire, spetta soltanto a Dio". Poi si siede acanto a Borsani: "Sei un cieco di guerra, una medaglia d'oro e sono sicuro che Schuster ti farà liberare". Ma Borsani non possiede la stessa certezza e ha già accettato il suo destino. […]
Alle cinque del pomeriggio cinque individui, mai identificati esattamente, si presentano al palazzo di Giustizia con documenti del CLNAI che li autorizzano a prelevare Borsani per trasferirlo "in altro luogo".
Invano il maggiore Bertòli si fa avanti offrendosi d'accompagnarlo. Alla sua proposta di poterlo fornire, almeno, di alcuni effetti personali, i partigiani rispondono che "dove va lui non servono". Fanno salire il prigioniero su un camioncino e lo portano, assieme a don Tullio Calcagno, nelle scuole di viale Romagna, vicinissime a via Fucini, dove Borsani aveva consumato l'ultimo pasto coi propri cari. 
Qui è in azione un "tribunale del popolo" che sottopone a un processo sommario i due "criminali di guerra" e, tra le urla e gli insulti di una folla scatenata, li condanna a morte, Borsani e don Calcagno vengono caricati nuovamente sul camioncino, che percorre poche decine di metri di un largo viale dritto, alberato, per fermarsi in piazzale Susa.
"Fine corsa, scendere!", urla una voce sarcastica. Borsani sente sulla schiena una mano che lo spinge verso il nulla e dei passi che s'allontanano, bacia la prima scarpetta della figlia Raffaella, che teneva stretta in pugno, alza gli occhi al sole e grida: "Viva l'Italia!".
Don Tullio Calcagno fa in tempo a dargli l'assoluzione "in extremis"; poi, a sua volta, viene assassinato.
È una domenica limpida e tiepida, la guerra è finita, l'aria sa di primavera. I milanesi oggi non vanno di fretta, passeggiano quietamente. Al centro della strada alcuni uomini col fazzoletto rosso al collo spingono un carretto della spazzatura su cui hanno caricato un cadavere. Sul petto gli hanno messo un cartello: "Ex medaglia d'oro". Molti abbassano gli occhi, fingono di non vedere, altri battono le mani, salutano col pugno chiuso quel macabro corteo funebre.»





UN FRANCESCANO PER LA CROCIATA ITALICA


DON TULLIO CALCAGNO E «CROCIATA ITALICA»


Coscienza del Vangelo e fedeltà ai valori della Patria sono i canoni morali su cui la forte idealità di don Tullio Calcagno fece leva per aprirsi al calvario 1943-45, lungo l'ascesa del quale la sua Fede cattolica e il suo amore per l'Italia furono perseguitati senza pietà, mai riuscendo però, ad indebolire la virile temerarietà della sua missione.


Il dramma degli eventi politico-militari dell'estate 1943 colsero don Calcagno in Umbria, dove era parroco della cattedrale di Terni e mentre sull'antica Interamna, trasformata dal Fascismo in grande centro industriale, i bombardieri anglo-statunitensi della Raf e dell'Usaf rovesciarono morte e distruzione. Dinanzi a così grave scempio morale e materiale, il parroco della cattedrale ternana, sentendo nell'animo la rudezza di Bernardino da Siena e conservando la mitezza di Francesco d'Assisi, si aprì alla focosità di Domenico da Guzmàn con la robustezza di fede appartenente ad Ignazio di Loyola, divenne testardo come G. Galilei di fronte al Sant'Uffizio e non si arrese ai messi papali quanto Gerolamo Savonarola, lasciò la città bagnata dal Nera e salì nella Valle Padana per trovare a Cremona - dove l'armonia dei liutai Amati, Guarnieri e Stradivari era salita in cielo più del Torrazzo - il fulgore coerentemente innovativo di Roberto Farinacci, l'incisività critica del quotidiano Il Regime Fascista, l'ardore combattivo delle Schutzstaffeln italiane per la realizzazione costruttiva ed operosa dei punti fondamentali del Pfr, sincronizzati nel «Manifesto di Verona». E qui, dopo la notte dei tradimenti, respingendo la materialità del comodo imboscamento, don Calcagno dà vita al settimanale più intrepido di religiosità e patriottismo e Crociata Italica si aprì anche all'assidua collaborazione dei Cappellani volontari della Rsi. E’ vero che per la continua incisività di Crociata Italica e per le relazioni settarie inoltrate alla Santa Sede dalla Curia cremonese e di Milano, presto don Calcagno venne sospeso «a divinis» da Bolla pontificia, ma è doveroso rammentare che il sacerdote di Terni non dissentì mai con il Pontefice Pio XII in materia di Fede, ma con il Sant'Uffizio che, appellandosi al Codice Canonico esigeva l'astensione di questo religioso dall'esercizio giornalistico della politica, mentre in quel tempo - tra i cortei schiamazzanti al seguito degli invasori «alleati» dove erano riusciti ad arrivare - si evidenziavano sempre più molti preti che, con il fazzoletto rosso al collo... celebravano la cosiddetta liberazione, cantando Bandiera rossa con i «fratelli» partigiani comunisti e alzando il braccio sinistro in alto e con il pugno della mano ben chiuso. Anticipavano di cinquant'anni l'attuale «passione» filomarxista di molti, troppi prelati altolocati.


Quando nell'aprile '45 pervenne il tracollo militare, il massacro di Dongo, il ludibrio di piazzale Loreto e la carneficina spietata di fascisti o presunti tali, nessuno dei monsignori estensori delle relazioni per la sospensione del sacerdote-direttore di Crociata Italica nutrì un po' di pietas almeno latina per impedire che venisse trascinato da Crema al carcere di San Vittore a Milano e poi buttato in piazzale Susa per rabbiosa fucilazione. Troppi non capivano che, come Petrarca, don Calcagno - in politica seppe scrivere «per ver dire, non per odio d'altrui, né per disprezzo».







FRANCESCO DAVOLIO MARANI


è medico condotto a Fabbrico (Reggio Emilia), dove è amato e stimato prima che la guerra porti la divisione fra gli italiani che desiderano la vittoria e gli italiani che, per una ragione o per un'altra, desiderano la sconfitta della Patria. Nella zona dove il dottor Francesco esercita la sua professione i più desiderano la sconfitta per il trionfo del comunismo. Il bravo e buon medico è più d'ogni altro a contatto con la popolazione e si rende conto perfettamente della realtà delle cose: ma non per questo muta la sua linea di condotta. A qualche amico che lo consiglia di modificare le sue idee e seguire l'andazzo, dice apertamente: "Io sono vecchio e debbo dare esempio di rettitudine: non condanno e non rimprovero nessuno: ma per conto mio non voglio nascondere quella che a me sembra la verità e il bene della Patria". Dopo poche settimane, precisamente il pomeriggio di un giovedì (25 maggio), mentre fa il suo giro per le visite agli ammalati, estasiato dalla festa della natura tanto in contrasto con l'umanità che si dilania ferocemente, viene ucciso con un colpo di fucile da un assassino appostato, che poi menerà vanto del misfatto. Questo resta pressoché ignorato per settimane. Crociata Italica solo il 26 giugno darà in prima pagina la dolorosa notizia, pubblicando un suo profilo e la fotografia.


Nel gennaio precedente il dottor Davolio Marani aveva scritto a don Calcagno per rallegrarsi con lui e invitarlo, come facevano tanti altri lettori, ivi compresi non pochi sacerdoti, a trasformare il periodico in quotidiano.





"Molto Rev. Don Tullio Calcagno,


molti anni or sono, a scuola imparai che la civiltà europea consiste essenzialmente di tre elementi: "romanesismo, cristianesimo e germanesimo". Crociata Italica difende questa nostra vita dell'anima: perciò trasformatelo in quotidiano. Secondo il voto del fratello in Francesco d'Assisi - il più italiano dei santi, il più santo degli italiani - sarà il vessillo della nostra rinascita, per la riconquista di quei valori morali senza i quali qualsiasi popolo precipita in un gregge animale.


Questo in tesi generale. In particolare poi, dallo stretto punto di vista italiano, il vostro e nostro giornale esprime in modo completo e perfetto quella vita totale religiosa e militare, civile e morale, che unica e sola può dare la personalità e la vita ad un popolo. In questo senso il nostro giornale, trasformato in quotidiano nel tempo più breve possibile, diventerà il giornale fondamentale d'Italia perché creerà finalmente quella fusione tra le forze religiose e militari. Allora soltanto sarà una realtà vera, profonda ed assoluta la Conciliazione italiana fra lo Stato e la Chiesa. Allora soltanto l'Italia cattolica, apostolica, romana potrà dire la sua parola chiarifica-trice su dò che si deve intendere per religione nella vita pratica, quotidiana dei popoli in pace e in guerra. Vostro devoto lettore e propagandista.


Dr. Francesco Davolio Marani


P. S. Vi mando per cartolina vaglia una piccola somma come testimonianza della necessità assoluta della vostra rapida trasformazione in quotidiano. Non mi abbono perché credo di ricevere il giornale con maggior sicurezza per mezzo del rivenditore.














Venezia Teatro La Fenice inverno 1944-45: Don Tullio Calcagno




Rapporto del Prefetto di Milano al Ministero dell’Interno circa l’attività del settimanale
“Crociata Italica” e del gruppo che vi faceva riferimento