TEDESCHI NEI CAMPI CECOSLOVACCHI.
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Il ministro e deputato britannico
R.R. Stokes, in una lettera al 'Manchester Guardian' dell'ottobre 1945, riferisce
quanto egli vide e accertò: 'Ho tentato di trovare alcuni di questi campi
di concentramento (della cui esistenza ho saputo qualche mese fa) e ho
avuto la fortuna di scoprirne uno a Hagibor, presso Praga... Le baracche
erano tipiche di un Lager, con tre letti disposti a castello, senza la più
primitiva comodità e con servizi sanitari orrendi. Vi trovai ogni sorta di
persone: alcune erano là solo da pochi giorni, altre da mesi e nessuno con
cui parlai aveva la benché minima idea del motivo per cui era stato
internato. Una signora settantaduenne, da 55 anni residente a Praga, vi si
trovava da due settimane per il solo motivo di essere austriaca. C'era pure
un settantenne professore d'arte drammatica di Belgrado, con la moglie, quasi
del tutto cieco. Aveva lasciato la Russia nel 1911 e da allora viveva in
Yugoslavia. Recatosi a Vienna per consultare uno specialista, era stato
arrestato dai nazisti perché jugoslavo. Il giorno della Liberazione i cechi
lo incarcerarono, probabilmente perché russo 'bianco'. Poi vidi una signora
settantacinquenne, vedova di un ammiraglio zarista, il cui solo desiderio
era di raggiungere la figlia nel Tirolo. Si trovava lì da alcuni mesi e
veniva nutrita a pane e acqua... In Cecoslovacchia si trovano 51 Lager del
genere, nei quali migliaia di persone vegetano e fanno fame: e se dico
fanno fame lo intendo letteralmente! Ho davanti a me la razione settimanale
di questo Lager; ogni giorno é la medesima: colazione - caffè nero e pane;
pranzo - zuppa di verdure; cena - caffè nero e pane. La razione giornaliera
di pane é di 250 g. a persona... 250 g. di pane e caffè nero non possono
tenere assieme corpo e anima e neppure consentire di muoversi. Secondo la
mia valutazione le loro razioni forniscono giornalmente 750 calorie,
inferiori dunque a quelle di Bergen-Belsen [il Lager nazista liberato dagli
inglesi, N.d.A.]'. (Dokumente zur Austreibung der Sudeten Deutschen, cit.).
(da 'E malediranno l'ora in cui partorirono', pag.213)
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TEDESCHI NEI CAMPI POLACCHI.
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Il 3 maggio, quando la regione di
Teschen fu abbandonata dall'esercito tedesco, i coniugi Faricek convennero
che il loro soggiorno nella città, dove erano sfollati nel febbraio, era
divenuto del tutto superfluo e che il meglio che potessero fare era di tornarsene
a Pless, loro città natale. [...] Non andarono oltre. Sulla strada
incapparono in un posto di blocco della milizia polacca e dovettero
presentare i documenti e poiché da questi risultava che erano cittadini
tedeschi, due guardie intimarono loro di seguirli e li portarono alla sede
del loro comando. [...] Non era escluso che fossero anche dei 'criminali
nazionalsocialisti'. Li arrestò e l'indomani li consegnò alla Bespieka di
Bielitz. [...] Pensava a suo marito e quasi non lo riconobbe quando se lo vide
davanti, tant'era paonazzo in viso per le percosse ricevute. Ebbe il tempo
di dirle che così l'avevano conciato perché volevano che dichiarasse di
essere stato membro del partito nazionalsocialista e scomparve con gli
altri uomini diretto al fabbricato vicino, dove lo rinchiusero nel
sotterraneo lì adibito a prigione. [...] Tutto quanto poté apprendere era
che nel sotterraneo c'erano uomini che per i maltrattamenti subiti non
erano più in grado di muoversi. Trascorsero mesi e, un giorno, lei non era
più prigioniera, un soldato tedesco d'origine polacca, miracolosamente
riabilitato e rimesso in libertà, le fece sapere che, al terzo giorno di
prigionia, a suo marito, per non aver voluto ammettere di essere
nazionalsocialista gli avevano spaccato tutti i denti e poi lo avevano
strozzato. (da 'E malediranno l'ora in cui partorirono',
pag.180-181)
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Fatale tutta la faccenda lo fu
invece per Max Haller, il quarantacinquenne gestore dell'albergo della
stazione di Tillowitz. L'avevano già accusato di essere stato nelle SS e
ora gli ribadivano l'accusa che lui respingeva come aveva fatto a
Tillowitz. Un colloquio tra sordi che si trascinò per un po' finché l'oste
fu spinto in un camerino accanto all'ufficio, assieme al Proll di
Schurgast, e otto miliziani li seguirono e riempirono tutti e due di botte.
Ma più quelli picchiavano e più loro negavano di essere stati nelle SS,
finché Haller, non sapendo più a cosa votarsi, li pregò di andare a
informarsi presso tutti i suoi compaesani e le guardie, consenzienti, li portarono
fuori. Avevano i vestiti strappati e in alcune parti si poteva vedere il
corpo nudo e tutte queste parti nude sanguinavano. Haller s'illuse: non lo
fecero passare davanti ai suoi compaesani, ma piegarono dietro l'angolo
dell'ufficio e lì lo fucilarono. A controllo ultimato i vecchi furono
raggruppati in una baracca dove avrebbero ricevuto così poco da mangiare da
poter morire in pochi giorni, le donne ed i bambini in altre e così pure le
ragazze. Si avviò ognuno al posto assegnato con in mano un pezzo di stoffa
con una grande 'W', che voleva dire Wiezien, prigioniero, da cucire sulla
giacca e con questo si chiuse il primo giorno d'internamento. [...] Fece
bene, perché i miliziani il numero lo dicevano una sola volta e la seconda
e tutte le successive volte picchiavano senza pietà tutti quelli che
sbagliavano nel ripeterlo. Quel mattino tre suoi compagni per questo
persero la vita: stramazzarono al suolo ed i guardiani li trascinarono per
i piedi sin dietro le baracche delle donne. Toccò a lui, assegnato con
altri sei alla squadra becchini, andare a raccoglierli. Giacevano
nell'erba, il primo con la testa così spaccata che di essa restava solo la
mascella inferiore, mentre cervello ed ossa erano sparsi di qua e di là, il
secondo ed il terzo non erano che resti carbonizzati, bruciati nei vestiti
che indossavano. Da quel giorno Johann Thill divenne l'involontario
cronista dell'anno di esistenza del Lager. Vide i suoi connazionali
crollare per le estenuanti fatiche e per le scarse razioni che nelle festività
non venivano neppure distribuite; seppellì i vecchi e gli invalidi ed i
bimbi spesso divorati dai pidocchi e dalle cimici, raccolse i corpi dei
fucilati e dei torturati. Anche quello di Johann Lein, il suo conoscente di
Bauerngrund. (da 'E malediranno l'ora in cui partorirono', pag.182-183)
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Si formò in tal modo, dopo i colpiti
dalle deportazioni e dal lavoro coatto sovietici e dopo i colpiti per
nazionalsocialismo o per tradimento, una terza serie, la serie dei
depauperati, una sorta di sottoproletariato disponibile per ogni
incombenza. La Milizia la mobilitò in massa, prelevandola a seconda delle
necessità e dove capitava: nei quartieri che abitava, per le strade dove
passava, nei villaggi dove viveva, agli ingressi delle chiese, nei giorni
di funzione, quando urgeva. La portava a demolire fabbricati, a sgombrare
macerie, a riesumare e seppellire cadaveri; se ne serviva per riattivare
settori industriali e fornire braccia all'agricoltura e, a lavori ultimati,
lasciava che se ne tornasse ai propri luoghi, indebolita e malata per
l'insufficiente vettovagliamento ricevuto e senza mezzi per poter
procurarsi qualcosa per sostentarsi. [...] Finirono, in altri termini,
dietro il filo spinato, in Lager che di cambiato non avevano che il nome e
la nazionalità dei sorveglianti e dove, per il resto, sembrava che il tempo
si fosse fermato ad un recente passato, cosicché chi vi capitò, rivisse
quello che altri vi avevano vissuto: appelli, maltrattamenti, lavoro, fame,
malattie, morte. [...] Renate Schulze arrivò al Lager di Potulice il 30
marzo 1946. Portava con sé i segni e le esperienze di un anno di prigionia
e l'immagine ed il ricordo dei luoghi da dove era dovuta passare.
Prigioniera l'avevano fatta i sovietici durante la fuga nel gennaio del
1945 e l'avevano rinchiusa a Crone sulla Brahe, nel circondario di
Bromberg, a spidocchiare e ripulire, per tutto l'inverno, stracci e coperte
e a liberare degli escrementi i luoghi che quelli, poco usi ai gabinetti o
scientemente, imbrattavano. [...] Due miliziani l'afferrarono e la
condussero nel sotterraneo della prigione, in una delle cellette, senza
finestre ed aerazione, un tempo adibite per i peggiori criminali, e le
ordinarono di spogliarsi. Sorpresa ed imbarazzata, quel giorno aveva le sue
regole e perdeva sangue, cercò di tergiversare, ma un paio di sonori schiaffi
le fecero capire che bisognava obbedire. Lo fece tra pianti e colpi di
manganello e di calcio di fucile e quando restò nuda perdette pure i sensi:
i miliziani le gettarono addosso un secchio d'acqua e se ne andarono e
quando lei rinvenne si accorse che le mancavano alcuni denti. Al terzo
giorno tornarono, non per darle da mangiare, ma per bastonarla ancora.
[...] La tirarono fuori cinque giorni dopo con il divieto di riferire cosa
era stato di lei e la rimisero a lavorare, fino a quando, ridotta inabile
alle fatiche, la spedirono nel Lager di Langenau. Langenau sembrava un
porto di mare. La Schulze vi trovò internati civili e prigionieri di guerra
tedeschi e prigionieri di guerra stranieri che avevano servito nelle forze
armate del Reich e perfino polacchi dell'armata di Anders venuti
dall'Occidente in licenza al loro pese. Incontrò tedeschi nati e vissuti in
quei luoghi in comunità coi polacchi e tedeschi nati, come lei, all'estero
e ancora tedeschi del Reich, bloccati da quelle parti dagli eventi bellici.
Vide pure arrivare gli internati di Kaltwasser e poi quelli di Hohensalza,
questi ultimi ancora traumatizzati dai metodi di Wladislaw Dopierala, il
'terrore del Lager', che usava far distendere i colpevoli di mancanze o
persone scelte a caso in bare disposte in fila e, lì, fulminarle con un
proiettile alla testa. [...] Un saggio di questa lo ebbe già poco dopo il
suo arrivo, il giorno in cui Heinrich Fischer e Willy Kalle, tenuti lì come
prigionieri di guerra, avevano tentato la fuga. Lontano i due non erano
riusciti ad andare; ad alcuni chilometri dal Lager la Milizia li aveva
catturati e ricondotti indietro giusto al momento in cui gli internati
erano schierati in cortile. Arrivarono trascinati come sacchi e i radunati
si videro davanti due esseri che più nulla avevano dei due robusti
giovanotti che tutti conoscevano, ma non ebbero il tempo di commuoversi
perché furono sopraffatti da quello che seguì. Uno dei due miliziani
estrasse la baionetta e colpì Fischer alla nuca e poi sommersero lui e
Kalle di manganellate e di colpi di fucile e per ultimo li trascinarono ai
cessi e li costrinsero a vuotarli con dei recipienti piccolissimi. Il
sangue colava a Fischer e a Kalle ed il loro corpo era irrigidito dalle
bastonate, per cui facevano fatica a portar via, con quegli aggeggi, il
luridume senza versarlo e poiché facilmente sporcavano, ogni volta erano
costretti a leccarlo o a distendervisi sopra, finché i miliziani si
stancarono e i due rimasero inanimati per terra. Fischer morì qualche
settimana dopo, Kalle fu portato via con un trasporto e di lui né la
Schulze né altri ebbero più notizia. (da 'E malediranno l'ora in cui
partorirono', pag.184-186)
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In un rapporto al Foreign Office
R.W.F. Bashford, nell'estate 1945, comunicava da Berlino: 'I campi di concentramento
non sono stati aboliti, ma sono stati presi in consegna dai nuovi padroni
e vengono per lo più diretti dalla Milizia polacca. In Swietnochlowice
(Alta Slesia) i prigionieri che non muoiono di fame o non vengono bastonati
a morte son costretti a stare notte dopo notte nell'acqua gelida finché
periscono. A Breslavia ci sono sotterranei da dove provengono di giorno e
di notte le urla delle vittime'. L'argomento é pure trattato in un rapporto
al Senato americano (28 agosto 1945). In esso vengono citati diversi casi
di violenza e viene confermato pure che a Breslavia la Milizia polacca
infierisce sui detenuti nelle proprie carceri sotterranee, tanto che gli
abitanti delle case circostanti vogliono traslocare, non potendo più
sopportare le grida delle vittime (cfr. Zayas, Alfred M. De, Die
Anglo-Americaner und die Vertreibung der Deutschen, Monaco, dtv, 1980). (da
'E malediranno l'ora in cui partorirono', pag.187)
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L'internata suor Maria Saroviz fece
un giro attraverso il complesso di baracche destinate alle mamme nuove
arrivate coi loro bimbi e, giunta alla baracca d'angolo, sentì, provenire
dall'interno, sommesse grida accompagnate da pianti e da gemiti. Sorpresa,
e allo stesso tempo curiosa, spinse la porta; il tanfo che la investì la
fece retrocedere istintivamente, riuscì però a vincere il senso di
repulsione che provava ed entrò. Sepolte nella paglia e nella sporcizia giacevano
una quarantina di vecchiette pelle e ossa, irriconoscibili, quasi senza
più sembianze umane che, al vederla, accentuarono i loro lamenti. Le guardò
con aria inebetita e non seppe che dire e che fare; richiuse adagio la
porta e si allontanò in fretta. Ci ritornò l'indomani, dopo il giro di
distribuzione alle mamme dei buoni per la razione di brodaglia, per
stabilire quante porzioni potevano occorrere per quelle poverette; trovò la
porta spalancata e l'interno vuoto, salvo, sparsi qua e là, qualche
straccio d'indumento e oggetti insignificanti. Fuggì inseguita
dall'orribile sospetto che le era balenato a quella vista e arrivò, pallida
e ansante, nella cucina del Lager. La videro le donne indaffarate ai paioli
entrare e accasciarsi su una sedia e, spaventate e allarmate, le si fecero
attorno, ma lei non ebbe il tempo di spiegare perché la miliziana di
servizio, intuendo che cose le era capitato, la prevenne commentando
seccamente: 'Che cosa c'è di male se si liquidano questi vecchi tedeschi
puzzolenti. Non c'è posto disponibile e non c'è da mangiare, meglio dunque
farli sparire. Tutte quelle persone sono state fucilate stanotte'. (da
'E malediranno l'ora in cui partorirono', pag.188)
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Accadeva dopo mezzanotte: le donne,
che nulla sospettavano, venivano svegliate e fatte uscire dalla baracca e
condotte nel bosco che si trovava subito dietro il Lager. Là c'erano ancora
molte trincee di approccio ai bordi delle quali le donne dovevano
schierarsi e spogliarsi completamente e, quando erano pronte, ad un ordine
partivano le raffiche delle mitragliatrici piazzate ai lati e quelle
cadevano nei camminamenti. Era quindi la volta di farsi avanti della
squadra spalatori, essa pure prelevata dalle baracche per riempire le fosse
di terra. Il lavoro andava rapido senza badare a gemiti che da quelle fosse
provenivano, ché non tutte erano morte, ed al mattino ogni traccia
dell'accaduto notturno era scomparsa. [...] Nel Lager dunque non doveva
esserci posto per i vecchi e nemmeno per i bambini ed i fanciulli, dato che
quelli dai quattro ai quattordici anni erano quasi ovunque assenti. [...] A
Potulice si erano accontentati del rombo dei motori in avviamento; i camion
erano partiti e da quel momento i fanciulli erano entrati nell'avventura
che da piccoli tedeschi avrebbero dovuto trasformarli in adulti polacchi.
Le madri li videro allontanarsi senza sapere dove andavano e perché
andavano; non necessitava che lo sapessero poiché anche i loro figli, come
ogni cosa tedesca, animata ed inanimata, apparteneva allo Stato polacco.
Alcune, tuttavia, sarebbero riuscite a rintracciarli, altre, invece, ne
persero le tracce. [...] Il tempo trascorse, i Lager si sfollavano, gli
internati venivano espulsi dal paese. (da 'E malediranno l'ora in cui
partorirono', pag.189)
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Nel 1950 e nel 1951 gli ultimi
prigionieri lasciarono i campi ancora aperti. August Rosner poteva essere
considerato la sintesi delle sofferenze dei suoi connazionali in quella
parte d'Europa. La sua storia iniziò il giorno della grande offensiva
sovietica e si concluse nell'anno 1950 in una cittadina dell'Assia. '... In
quel giorno del 19 gennaio 1945, dunque, i sovietici mi arrestarono e
mentre mia moglie e mia figlia, senza più i miei nipotini, si allontanavano
sulla strada per Penczniew, mi condussero nel carcere di Schroda. [...]
Dopo cinque settimane fummo trasferiti a Kalisch e aggregati ad altri
tedeschi, molti dei quali versavano in condizioni assai pietose, e in circa
2.000 finimmo al Lager di Posen. Eravamo ora in 4.000, amministrati dai
sovietici, ma strettamente sorvegliati da polacchi e per molti il
destino si concluse qui davanti al plotone d'esecuzione. La nostra
prossima destinazione doveva essere l'Unione Sovietica per cui, motivi ne
avevo, mi diedi ammalato e la dottoressa della Commissione sanitaria che mi
visitò mi dichiarò, con altre 174 persone, inidoneo ad essere trasportato e
così mi fu risparmiata la deportazione. [...] Ci impacchettarono e ci
portarono a Schroda per farci vivere, ci dissero, per la prima volta 'una
accoglienza tedesca'; la provammo quando ci costrinsero a salire le scale
della prigione sotto una gragnuola di colpi di bastone. [...] Ci davano
poco da mangiare e moltissime botte. Soprattutto il polacco Darlinski, che
ci odiava, ci maltrattava volentieri e, quando a tre prigionieri riuscì di
fuggire, impose a tutti la divisa del galeotto e la rapatura dei capelli
anche alle donne e alle ragazze. Non mancavano del resto le occasioni per
tormentarci e anche da noi, come in altri luoghi, i prigionieri dovettero
riesumare morti (qui erano partigiani polacchi fucilati nel 1939 e
seppelliti nel terrapieno della ferrovia) e baciarne le ossa per la gioia
dei fotografi di Schroda. Era ormai il giugno del 1949 quando fui
trasferito nel grande Lager di Lissa, dove ancora si trovavano un 4.000
prigionieri in attesa di essere rilasciati'. (da 'E malediranno l'ora in
cui partorirono', pag.228-229)
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TEDESCHI NEI CAMPI SOVIETICI.
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Il comportamento sovietico con i
prigionieri di guerra, dopo la fine del conflitto ha corrisposto ad una
logica che occorreva lungo due binari; il primo riguardante i militari più
qualificati, specialmente sul piano della tecnologia trattenendo il più possibile
queste forze intelligenti e, quindi, utili alla ricostruzione di un paese
ridotto allo stremo. Il regime sovietico fece questo soprattutto con i
prigionieri tedeschi utilizzandone per oltre un decennio le loro capacità
tecniche per cercare di mettere in piedi un po' di industria di pace,
essendo stata tutta convertita per scopi bellici. Nei primi contatti fra i
tedeschi di Bonn e i padroni del Cremlino, questi dissero che le decine di
migliaia di soldati, specialmente quelli specializzati, erano morti: ci
vollero l'organizzazione della appena nata Germania Federale e la fermezza
del cancelliere Adenauer per fare cambiare opinione ai dirigenti sovietici
[...] Adenauer fece un viaggio rischiosissimo a Mosca; litigò con Kruscev
che continuava a negare l'esistenza di queste migliaia di prigionieri ed
alfine ebbe partita vinta. Il cancelliere di ferro portò a casa nel giro
di pochi mesi tutti i prigionieri. (da 'Prigionieri italiani nei
campi di Stalin', pag.10-11)
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Tesi nello sforzo disperato per non
morire sulla strada sarebbero crollati appena giunti al campo. Coloro che
sopravvivevano vi rimanevano per poco tempo: ne usciranno cadaveri a mucchi
[...] Nel periodo di un anno, trascorso fra le mura di Oranki, vidi entrare
migliaia di prigionieri ed uscire migliaia di cadaveri che vennero
sepolti alla rinfusa, in fosse comuni, nei dintorni dell'ex convento. Ad
Oranki la moria infieriva. La privazione, la scarsa alimentazione, il
clima, la carenza di misure igieniche, la promiscuità, la penuria di
medicinali, favorivano lo sviluppo delle malattie consuntive [...] Gli
orrori del campo di Oranki cominciarono con l'arrivo dei prigionieri
rumeni. Il 18 dicembre 1942, una giornata rigidissima, durante la quale il
termometro segnò oltre trenta gradi sotto zero, affluì al campo una colonna
di tremila uomini [...] In poche ore decine e decine di soldati si spensero
[...] Quando si levò il pallido sole, i primi raggi illuminarono nel
cortile una catasta di oltre quattrocento morti [...] Ogni cinque, ogni
sei, o al massimo ogni sette giorni si era obbligati a fare il bagno. Fu in
uno di questi che mi trovai con un gruppo di ufficiali tedeschi superstiti
della battaglia di Stalingrado. Non mi rendevo conto come potessero esser
vivi. Erano scheletri ambulanti ed alcuni camminavano perdendo escrementi
dal retto. (da 'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.134-139)
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I Gulag che accoglievano i deportati
non si conciliavano col minimo di aspettativa che essi vi riponevano, dopo il
lungo e debilitante viaggio, di un luogo che disponesse almeno delle più
modeste necessità dell'esistenza. Erano complessi costruiti coi
materiali forniti dall'ambiente ove erano stati impiantati,
dall'incancellabile aspetto d'improvvisazione e di provvisorietà: baracche
d'argilla mezzo sprofondate nel terreno, baracche in legno nelle zone
boscose, riparo dalle intemperie, ma non dal clima, buone come dormitorio e
infermeria o per i servizi, distribuite in un vasto piazzale delimitato da
filo spinato e agli angoli le torri di guardia coi loro riflettori per la
notte. (da 'E malediranno l'ora in cui partorirono', pag.165)
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Non ci furono giorni di riposo.
Inquadrate in brigate furono assegnate alla cava di pietra e alla
costruzione di case e di strade ferrate. Käthe Hildebrandt imparò presto a
spaccar pietre, a tirare su muri e a stendere binari. All'alba partivano e
a sera tornavano, sfinite dalla fatica e dal clima. [...] Come sempre
c'erano le adunanze e l'immancabile appello che, specie per le donne
anziane, erano una vera sofferenza, e le solite angherie delle guardie e
dei sorveglianti. Non mostravano pietà, pretendevano rispettosa obbedienza
e per un nonnulla rinchiudevano, a rischio di farla morire per infezione,
la malcapitata, nel locale adibito ad obitorio assieme alla trentina di
salme, segnate dalle malattie più diverse, che regolarmente vi si trovavano
in attesa di essere, ogni notte, calate nude in fosse comuni e ricoperte di
sabbia. Sei mesi dopo, stroncate dalle fatiche e dalle epidemie, i due
terzi delle deportate non esistevano più. Al loro posto arrivarono
2.000 deportati dall'Alta Slesia e da quel momento Krasnovodsk finì nel
bagaglio dei ricordi delle sopravvissute. (da 'E malediranno l'ora in
cui partorirono', pag.166)
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In Lamsdorf le 8.460 persone chi vi
furono internate vennero letteralmente decimate dalla fame, dalle
malattie, dal duro lavoro e dai maltrattamenti. Secondo il medico del
Lager, Heinz Esser, morirono 5.800 adulti e 628 bambini (Cfr. Esser, Heinz,
Die Hölle von Lamsdorf, Münster, s.e., 1971). (da 'E malediranno l'ora
in cui partorirono', pag.182)
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Affidati a questi personaggi gli
internati si trovarono a subire i metodi ginnico-educativi del dottor
Cedrowsky, che li costringevano a tenersi in piedi a lungo con le braccia
dietro la nuca o a saltellare o a star fermi per ore a dorso nudo al freddo
ed impararono a temere il 'Bunker', il complesso di celle ricavate nell'ex
deposito di carne sotto la cucina, piccole, buie, gelide. Ce li mandava il
dottore, senza fondati motivi, nudi e ve li lasciava, dopo averli fatti
bastonare e irrorare d'acqua, per settimane a guazzare nel bagnato, spesso
arricchito di cloruro di calcio. Uscivano, quando non morivano, piagati
e denutriti, tenuti in piedi solo dalla volontà di sopravvivere, una
determinazione che in coloro che finivano nelle squadre di Isidor Kujawski
era invece ridotta a zero. Renate Schulze calcolò che due settimane di
lavoro nelle squadre di Kujawski significavano morte certa. Non si
sbagliava perché Kujawski accoglieva i destinati a lui, di preferenza donne
non più tanto giovani, con cinquanta nerbate sulle natiche e solo ad
operazione ultimata li assegnava ai lavori. Partivano allora le squadre
verso i posti prestabiliti e le donne, sofferenti ed abuliche, seguivano
Kujawski che di solito se le portava nelle torbiere dove, oltre a farle
faticare, le costringeva, per suo spasso, a impastarsi, danzando e
cantando, la testa di sterco di mucca o a mangiare rane crude e ad
accoppiarsi con i prigionieri presenti. (da 'E malediranno l'ora in cui
partorirono', pag.187)
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Polacchi e cechi seguirono l'esempio
dei sovietici che, fin dal loro ingresso nel territorio del Reich, rimisero
in efficienza Lager nazisti dove rinchiusero nazionalsocialisti, sospetti e
civili da deportare. Nella zona d'occupazione sovietica tornarono in
efficienza Buchenwald e Sachsenhausen, dove furono rinchiusi, fra gli
altri, socialdemocratici e appartenenti ai partiti conservatori. Tra le
vittime il socialdemocratico Karl Heinrich. Internato dai nazisti nel 1936
a Sachsenhausen, ne uscì nel 1945, divenne vice-capo della polizia di
Berlino. Quindi, nell'autunno, arrestato dai sovietici e di nuovo rinchiuso
a Sachsenhausen, vi morì nel 1948. Secondo i calcoli del deputato
socialdemocratico di Berlino Hermann Kreutzer (che con la moglie ed il
padre fu internato a Sachsenhausen), in quel Lager, dal 1945 al 1950, anno
della chiusura, morirono circa 20.000 persone e almeno 13.000 a
Buchenwald. ('Welt am Sonntag', 5 maggio 1985). (da 'E malediranno
l'ora in cui partorirono', pag.205)
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II metodo staliniano di trattare i
prigionieri assomigliava molto a quello hitleriano. Su 3,1 milioni di
soldati tedeschi catturati dai sovietici, ben 1,1 non sopravvisse al
freddo, alla fame, alle fatiche e ai maltrattamenti. (da 'In nome della
resa', pag.252)
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TEDESCHI NEI CAMPI ANGLOAMERICANI.
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Le rese in massa nell'ovest
contrastavano fortemente con le ultime settimane sul fronte orientale dove
le unità superstiti della Wehrmacht combattevano ancora contro l'Armata
Rossa avanzante, per permettere al maggior numero possibile di camerati di
sfuggire alla cattura da parte dei russi. Questa era l'ultima strategia del
comando supremo tedesco agli ordini del grand'ammiraglio Donitz, che era
stato nominato comandante in capo da Adolf Hitler dopo la resa all'ovest
del maresciallo del Reich Goring. Dal punto di vista tedesco questa
strategia consegnava milioni di soldati tedeschi nelle mani che essi
credevano più pietose degli Alleati occidentali, sotto il supremo comando
militare del generale Dwight Eisenhower. Tuttavia, dato l'odio feroce e
ossessivo del generale Eisenhower non solo per il regime nazista, ma anche
per tutto quanto fosse tedesco, questo credo risultava nel migliore dei casi
un azzardo disperato. Più di cinque milioni di soldati tedeschi nelle zone
americane e francesi erano costretti nei campi, molti letteralmente spalla
contro spalla. Il terreno attorno a loro presto divenne una palude di
sporcizia e malattie. Esposti alle intemperie, mancando anche delle più
primitive strutture sanitarie, sottonutriti, i prigionieri cominciarono
presto a morire di fame e malattia. A partire dall'aprile 1945, gli
eserciti americano e francese annientarono con indifferenza circa un
milione di uomini, per la maggior parte nei campi americani. (da
'Gli altri lager', pag.13)
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Cercando, arrivai alla porta del
colonnello Philip S. Lauben, il cui nome appariva nella lista di
circolazione dei documenti dello SHAEF (Supreme Headquarters Allied Expeditionary
Force). Era stato il capo del German Affairs Branch dello SHAEF con
l'incarico di rimpatriare e trasferire prigionieri per molti mesi critici,
quindi sapevo che egli avrebbe dovuto sapere. Nel suo soggiorno, srotolai
le fotocopie dei documenti cercando di stare calmo. Quello che avrebbe
detto nei pochi minuti seguenti avrebbe vanificato tutto il lavoro fatto
per oltre un anno o provato che avevamo fatto una scoperta storica
importantissima. Lauben e io controllammo i titoli uno a uno, finché trovammo
'Altre perdite'. Lauben disse: 'Ciò significa morti e fughe'. 'Quante
fughe?' chiesi. 'Molto, molto poche' disse. Come scoprii più tardi, le
fughe erano meno dello 0,10 per cento. (da 'Gli altri lager',
pag.16)
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É fuor di dubbio che un enorme
numero di uomini d'ogni età, assieme a donne e bambini, morì di fame,
congelamento, condizioni malsane e malattia, nei campi americani e
francesi in Germania e Francia, a partire dall'aprile 1945, fine della
guerra in Europa. Le vittime ammontano indubbiamente a più di 800.000,
quasi certamente a più di 900.000 e molto probabilmente a più d'un milione.
Le loro morti furono intenzionalmente causate dagli ufficiali dell'esercito
che avevano risorse sufficienti per mantenere in vita i prigionieri. Alle
organizzazioni assistenziali che tentavano di portare soccorso ai
prigionieri nei campi americani era rifiutato il permesso da parte
dell'esercito. Tutto ciò venne nascosto al tempo e poi si mentì quando la
Croce Rossa, 'Le Monde' e 'Le Figaro' tentarono di rendere pubblica la
verità. I documenti sono stati distrutti, alterati o tenuti segreti. (da
'Gli altri lager', pag.16)
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Nel maggio 1943, Eisenhower s'era
lamentato con Marshall delle difficoltà di occuparsi di parecchie centinaia
di migliaia di prigionieri tedeschi catturati dagli Alleati in Tunisia. 'E'
un peccato che non abbiamo potuto ammazzarne di più' scrisse in un poscritto
a una lettera che é stata soppressa da varie edizioni ufficiali delle
memorie di Eisenhower. (da 'Gli altri lager', pag.33)
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In marzo, molte volte le guardie
americane, aprendo carri ferroviari di prigionieri provenienti dalla
Germania, li trovarono morti all'interno. Il 16 marzo a Mailly le Camp ne
furono trovati morti 104, e altri 27 a Attichy. Eisenhower era irritato di
doversi occupare di questi casi, perché significava scusarsi con i
tedeschi. 'Detesto di dovermi scusare con i tedeschi' egli scrisse a
Marshall, a Washington, riferendo sulla sua inchiesta in merito alle morti
dei tedeschi che erano morti 'soffocati accidentalmente' nei carri merci
durante il trasporto. (da 'Gli altri lager', pag.34)
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Il 26 aprile 1945, un messaggio dei
capi degli Stati Maggiori riuniti ticchettò sulle macchine dello SHAEF a
Reims in risposta al messaggio di Eisenhower del 10 marzo che creava lo
status di DEF (Disarmed Enemy Forces). I CCS approvavano lo status DEF
soltanto per prigionieri di guerra in mano degli americani. I membri
inglesi dei CCS rifiutavano di adottare il piano americano per i loro
prigionieri. Le principali condizioni fissate da Eisenhower erano le
seguenti: [...] Non vi sarà alcuna dichiarazione pubblica riguardante lo
status di forze armate tedesche o di truppe disarmate. Con quest'ultima
clausola, la violazione della Convenzione di Ginevra era tenuta segreta.
[...] Tanto gli americani che gli inglesi sapevano che i tedeschi soggetti
allo status DEF non sarebbero certamente stati adibiti al lavoro. Molto
probabilmente, essi sarebbero morti. Gli inglesi dissentirono inoltre
anche sull'uso del termine americano di DEF per quei prigionieri che
sapevano che non avrebbero trattato secondo la lettera della Convenzione di
Ginevra. Usarono il termine 'surrended enemy personnel' (SEP) per
distinguere i prigionieri catturati dopo la resa dagli altri prigionieri di
guerra. (da 'Gli altri lager', pag.39-40)
|
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Tutte le decisioni riguardanti il
trattamento dei prigionieri venivano infatti prese soltanto dall'esercito
americano in Europa, con l'eccezione di tre fondamentali, tutte in
violazione della Convenzione: la decisione di impedire ai delegati della
ICRC di visitare i campi americani (il divieto si applicò anche ai
campi inglesi e canadesi); la decisione congiunta americana e inglese di
trasferire prigionieri alla Francia come manodopera per le riparazioni, a
condizione che la Francia osservasse le norme della Convenzione, e la
decisione di inviare alcuni prigionieri in Russia contro la loro volontà.
La più importante decisione, pure in violazione della Convenzione, era la
creazione dello status DEF, ideato da Eisenhower e approvato dai CCS. (da
'Gli altri lager', pag.41)
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Il 21 aprile 1945, un altro
messaggio dello SHAEF firmato Eisenhower comunicava a Marshall che i
nuovi campi dei prigionieri 'non forniranno ripari o altre comodità ...'.
E aggiungeva che i campi sarebbero stati migliorati dai prigionieri stessi
'usando materiali locali'. I 'campi' erano terreni scoperti, circondati da
filo spinato, chiamati 'campi temporanei per prigionieri di guerra' (PWTE).
Non erano temporanei, ma erano certamente recintati, da filo spinato, fari,
torri di guardia e mitragliatrici. Lungi dal permettere ai prigionieri di
procurarsi dei ripari 'usando materiali locali', un ordine del genio
militare, emesso il 1 maggio, proibiva specificatamente di fornire ripari
nei campi. (da 'Gli altri lager', pag.43)
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Le tende, i viveri, il filo spinato,
i medicinali scarseggiavano nei campi non perché l'esercito mancasse di
scorte, ma perché le richieste di rifornimenti venivano respinte. (da
'Gli altri lager', pag.44)
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Gli ufficiali addetti ai
rifornimenti sul campo non potevano ottenere ciò di cui avevano bisogno per
i prigionieri, perché i comandanti superiori ne rifiutavano la consegna.
[...] In alcuni campi gli uomini erano tanto ammassati che non potevano
neanche stendersi. La situazione in un campo era riportata nel modo
seguente: 'La più alta presenza di detenuti al campo n.18, Continental
Central Prisoner of War Enclosure, era di 32.902 prigionieri di guerra. Si
richiama l'attenzione sul fatto che la capacità del campo n.18, Continental
Central Prisoner of War, non supera i 6.000/8.000 prigionieri di guerra'. (da
'Gli altri lager', pag.46)
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|
Disastroso affollamento, malattia,
malnutrizione ed esposizione alle intemperie erano la regola nei campi
americani in Germania, a cominciare da aprile, nonostante il notevole rischio
che i tedeschi avrebbero potuto vendicarsi contro i milioni di ostaggi
alleati in Germania. [...] Nell'aprile 1945, furono catturate centinaia di
migliaia di soldati tedeschi assieme a civili, ausiliarie, malati e
amputati tolti dagli ospedali... Un prigioniero a Rheinberg aveva
ottant'anni e un altro era un bambino di soli nove anni... La fame
tormentosa e la sete straziante erano i loro compagni, e morivano di
dissenteria. Un cielo crudele rovesciava su di loro, settimana dopo
settimana, torrenti di pioggia... Nudi sotto il cielo giorno dopo giorno e
notte dopo notte, giacevano disperati sulla sabbia di Rheinberg o morivano
di stenti nelle loro buche che franavano seppellendoli. (da 'Gli altri
lager', pag.47-48)
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Tutto quello che potevano fare, per
dormire, era scavare una buca con le mani e calarci dentro, stringendoci
l'uno all'altro. Eravamo ammassati in uno spazio molto ristretto. Gli
uomini ammalati dovevano defecare sul terreno. Presto, molti di noi furono
così deboli che non potevano neanche calarsi i pantaloni. [...] In un primo
tempo, non c'era acqua per niente, tranne la pioggia, poi, dopo un paio di
settimane, potemmo avere un po' d'acqua da un tubo. [...] In quella
primavera, la pioggia era quasi costante nella regione del Reno. Piovve in
più di metà dei giorni e in più di metà dei giorni restammo senza cibo del
tutto. [...] Protestai con il comandante americano del campo perché stava
violando la Convenzione di Ginevra, ma egli disse soltanto: 'Dimenticatevi
la Convenzione, perché non avete alcun diritto'. Entro pochi giorni,
alcuni degli uomini arrivati al campo in buona salute erano morti. Vidi
i nostri uomini trascinare i cadaveri alla porta del campo, dove venivano
gettati uno sopra l'altro sugli autocarri che li portavano via. Un ragazzo
di diciassette anni, che poteva vedere in lontananza il suo villaggio,
stava di solito presso la barriera di filo spinato e piangeva. Una mattina
i prigionieri lo trovarono ucciso da una fucilata, ai piedi della barriera.
Le guardie sollevarono il suo corpo e lo appesero alla barriera,
lasciandovelo come avvertimento. I prigionieri erano costretti a passare
vicino al corpo e molti gridarono 'Moerder, moerder (assassini,
assassini)!'. Per ritorsione il comandante del campo tolse ai prigionieri
per tre giorni le magre razioni. Per noi che già eravamo affamati e
potevamo a stento muoverci perché ammalati, era terribile; per molti
significava la morte. (da 'Gli altri lager', pag.49-50)
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|
In molti campi era proibito scavare
buche per farsi dei ripari. Tutto quello che avevamo da mangiare era l'erba. [...] Non era il
più giovane del campo, perché tra i prigionieri vi erano donne incinte,
bambini di sei anni e uomini di più di sessant'anni. Poiché non vennero
tenuti elenchi nei campi dei DEF, e molti degli elenchi dei POW furono
distrutti negli anni '50, nessuno sa quanti civili vi furono rinchiusi, ma
i rapporti dei francesi rivelano che tra le centomila persone che gli
americani trasferirono loro come manodopera, c'erano 32.640 donne, vecchi e
bambini. [...] George Weiss, un meccanico di carri armati, disse che il suo
campo lungo il Reno era così affollato che non potevamo neanche stenderci a
terra completamente. Dovevamo passare la notte seduti e stretti l'uno
all'altro. Ma la mancanza d'acqua era la cosa peggiore di tutto. Non
ricevemmo acqua per tre giorni e mezzo. [...] Vidi morire migliaia di
uomini. I cadaveri venivano portati via con gli autocarri. (da 'Gli
altri lager', pag.51)
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Wolfgang Iff disse che nella sua
sezione di circa 10.000 persone a Rheinberg, venivano trascinate fuori dai
30 ai 40 cadaveri al giorno. Facendo parte della squadra
addetta ai seppellimenti, Iff era ben piazzato per vedere quanto succedeva.
Riceveva vitto extra per aiutare a trascinare i morti dal recinto alla
porta del campo, dove venivano caricati su carriole e portati in grandi
baracche di lamiera. Qui Iff e la sua squadra li spogliavano dei vestiti,
spezzavano a metà le piastrine d'alluminio, li ammassavano a strati di quindici
o venti, vi gettavano sopra dieci palate di calce viva, ammassando quindi
altri strati, fino all'altezza di un metro. Mettevano quindi gli oggetti
personali dei morti in un sacco per gli americani che se ne andavano. Vi
erano morti per cancrena a seguito dei congelamenti sofferti nelle notti
fredde d'aprile. Una dozzina circa d'altri, compreso un ragazzo di
quattordici anni, troppo deboli per tenersi in equilibrio sui tronchi
gettati attraverso i fossi come latrine, vi erano caduti annegando. Alcuni
venivano ripescati e il sudiciume veniva lasciato su di loro così
com'erano. A volte morivano fino a 200 uomini al giorni. In altri recinti
di dimensioni simili, Iff vide morire da 60 a 70 uomini al giorno. 'Poi gli
autocarri portavano via il triste carico. Quale macabra immagine', egli
disse. Non fu mai detto ai prigionieri cosa avveniva dei cadaveri, ma,
operai edili tedeschi negli anni cinquanta, e addetti alle sepolture negli
ottanta, hanno scoperto a Rheinberg resti umani con piastrine d'alluminio dell'esercito
tedesco della seconda guerra mondiale gettati assieme in fosse comuni,
senza tracce di bare o pietre tombali. (da 'Gli altri lager', pag.54-55)
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Il prigioniero Thelen disse
sottovoce a suo figlio attraverso il filo spinato che nel campo morivano
da 330 a 770 persone al giorno. Il campo ospitava allora da 100.000 a
120.000 persone. (da 'Gli altri lager', pag.55)
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Gli ufficiali di medio grado
responsabili sul campo dei POW inoltravano dapprima le loro richieste di
rifornimenti seguendo la via normale, ma ricevevano in risposta molto meno
del necessario per mantenere in vita i prigionieri. [...] Aggiunse che non
poteva fornire gli abiti e gli equipaggiamenti da campo necessari come le
tende, perché il Ministero della Guerra non li approvava mai. Infatti, un
gran numero di mie richieste di rifornimento é stato respinto. (da
'Gli altri lager', pag.66)
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Il 6 per cento circa del surplus
permanente di viveri dell'esercito in Europa avrebbe fornito cibo
sufficiente a nutrire per 100 giorni (con 1.300 calorie extra al giorno) e
tenere in vita 800.000 persone, che morivano di fame nei campi in mezzo
all'abbondanza. (da 'Gli altri lager', pag.71)
|
|
Lo squallore dei campi derivava
dallo squallore morale che contagiava gli alti gradi dell'esercito. Questi
ufficiali erano così cinici verso i prigionieri che, mentre scrivevano i
loro ansiosi memorandum, forse per restare esenti da critiche, se mai ve ne
furono, i loro sottoposti in almeno sei casi rifiutavano di permettere ai
civili tedeschi di portare viveri ai prigionieri nei campi. Molte donne
tedesche dissero al tenente Fisher che era stato loro vietato di portare
cibo ai loro mariti nei campi, presso Francoforte, nell'estate del 1945.
[...] Il Dipartimento della Guerra aveva imposto il divieto più pesante
che riguardava tutti i campi americani, alla spedizione di pacchi della
Croce Rossa ai prigionieri. Il divieto era esteso perfino alle
donazioni che i tedeschi prigionieri negli Stati Uniti volevano fare per
contribuire alle necessità dei prigionieri in Europa. (da 'Gli altri
lager', pag.72)
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|
[...] un ordine di una sola frase
firmato Eisenhower li condannò tutti alla peggiore delle condizioni. Con
effetto immediato tutti i membri delle forze tedesche tenuti in custodia
americana nella zona americana d'occupazione della Germania, saranno
considerati come forze nemiche disarmate e non godranno più dello status di
prigionieri di guerra. [...] la percentuale delle morti quadruplicò in
poche settimane. [...] Ma i tedeschi morivano molto di più ora che s'erano
arresi, di quanto erano morti in guerra. Nei campi francesi e americani
morirono almeno dieci volte più tedeschi di quanti erano morti, dal giugno
1941 all'aprile 1945, nei combattimenti sul fronte occidentale in Europa. (da
'Gli altri lager', pag.73)
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|
Nei campi lungo il Reno, tra il 1
maggio e il 15 giugno, gli ufficiali del Corpo Medico registrarono un'orribile
percentuale di morte, 80 volte più alta di qualunque alta avessero mai
osservata in vita loro. Con efficienza, sommarono le cause di morte: tante
per dissenteria e diarrea, tante per febbre tifoide, tetano, setticemia,
tutte a percentuali inaudite sin dal medioevo. La stessa terminologia
medica era stravolta dalla catastrofe di cui erano testimoni: venivano
registrate morti per deperimento ed esaurimento. Le tre maggiori causa di
morte erano la diarrea e dissenteria, i disturbi cardiaci e la polmonite.
Come dimostra l'ispezione condotta dai medici, altre importanti cause di
morte erano quelle direttamente legate alla mancanza di assistenza
sanitaria, al sovraffollamento e al congelamento. (da 'Gli altri lager',
pag.74)
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|
Entro la fine di maggio, c'erano
stati più morti nei campi americani che per lo scoppio della bomba atomica
a Hiroshima. Alla stampa non era giunta una parola. (da 'Gli altri
lager', pag.77)
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Il governo degli Stati Uniti rifiutò
al comitato internazionale della Croce Rossa di entrare nei campi per visitare i
prigionieri, in diretta violazione degli obblighi americani verso la
Convenzione di Ginevra. (da 'Gli altri lager', pag.78)
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|
I resoconti giornalistici dalla
Germania venivano pesantemente censurati e influenzati, consentendo di
condurre le cose nei campi POW e DEF in una segretezza che fu mantenuta nei
confronti di tutti, tranne le vittime, per molti anni. Un altro importante diritto
scomparve con la Svizzera, quello alla posta, eliminando la sola
possibilità che i prigionieri avevano di avere cibo a sufficienza come pure
il diritto di dare notizie di se stessi e riceverne da casa. Nessuna
notizia filtrava dai campi per raggiungere osservatori imparziali.
Pochi aiuti potevano arrivare nei campi. (da 'Gli altri lager', pag.79)
|
|
Ancora nel febbraio 1946, l'ICRC,
come altre organizzazioni assistenziali, aveva la proibizione degli
Stati Uniti a portare aiuto ai bambini tedeschi e agli ammalati nella
zona americana d'occupazione. (da 'Gli altri lager', pag.81)
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Curiosamente, un primo segno
sinistro del futuro venne dall'America settentrionale, da dove una
delegazione della Croce Rossa riferì che le razioni dei prigionieri
tedeschi erano state ridotte appena erano stati rilasciati i prigionieri
alleati. Quindi, nel tardo maggio o ai primi di giugno, il Comitato
Internazionale della Croce Rossa caricò due treni merci di viveri tratti
dai magazzini in Svizzera, dove ne aveva in deposito oltre 100.000
tonnellate. Inviò i due treni, seguendo la via normale prescritta dal
governo tedesco durante la guerra, uno a Mannheim e l'altro a Augsburg
(Augusta), entrambe città nel settore americano. I treni raggiunsero le
loro destinazioni, dove i funzionari che li accompagnavano furono informati
da ufficiali americani che i magazzini erano pieni e i treni dovevano
tornare indietro. Tornarono indietro, pieni, in Svizzera. Perplesso, Huber,
il capo del Comitato Internazionale della Croce Rossa, cominciò a indagare.
Dopo una lunga inchiesta, in agosto, Huber scrisse infine al
Dipartimento di Stato forse la lettera più offensiva che la Croce Rossa
abbia mai inviato a una grande potenza. (da 'Gli altri lager',
pag.84)
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Nella zona francese, la razione
ufficiale era di poco superiore a quella del campo di sterminio di
Belsen. (da 'Gli altri lager', pag.92)
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'É proprio come a Buchenwald e
Dachau' pensava il capitano Julien, mentre camminava cautamente sul terreno
devastato, in mezzo ai morti viventi in un ex campo americano. Egli aveva
combattuto con il suo reggimento, il Troisiéme Régiment de Tirailleurs
Algériens, contro i tedeschi perché avevano rovinato la Francia, ma non
aveva mai pensato a una vendetta simile a questo terreno fangoso popolato
da scheletri viventi, alcuni dei quali morivano mentre li guardava, altri
nascosti sotto pezzi di cartone che tenevano stretti nonostante il giorno
di luglio fosse caldo. Donne, che giacevano nelle buche con le pance
gonfiate dall'edema da fame in una grottesca parodia di gravidanza, lo
fissavano con occhi sbarrati, deboli vecchi con lunghi capelli grigi,
bambini di sei, sette anni lo guardavano con gli occhi cerchiati e senza
vita per la fame. Julien a stento sapeva da che parte cominciare. Nel campo
di 32.000 persone a Dietersheim, egli non poté trovare viveri di sorta. I
due medici tedeschi dell'ospedale, Kurth e Geck, stavano tentando di curare
i tanti pazienti morenti stesi su sporche coperte sul terreno, sotto il
caldo cielo di luglio, in mezzo ai segni delle tende che gli americani si
erano portati via. Julien mandò immediatamente i suoi ufficiali della 7
Compagnia a ispezionare i civili e gli inabili al lavoro, per vedere chi
poteva essere rilasciato subito. Le 103.500 persone nei cinque campi
attorno a Dietersheim erano considerate parte della manodopera consegnata
in luglio dagli americani ai francesi per riparazioni di guerra, ma i
francesi vi contarono 32.640 vecchi, donne, bambini sotto gli otto anni
d'età, ragazzi da otto a quattordici, malati inguaribili e amputati. (da
'Gli altri lager', pag.94)
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Sembra che sotto i francesi siano
aumentate le fucilazioni a caso, sebbene entrambi gli eserciti cercassero
di nascondere i fatti e i dati possano risultare distorti. In ogni modo il
rapporto del tenente colonnello Barnes in aprile, '27 morti per cause non
naturali' era largamente superato in una notte dagli ufficiali francesi
ubriachi che, a Andernach, guidarono la loro jeep attraverso il campo
ridendo e gridando mentre sparavano sui prigionieri con i loro
mitragliatori Sten. Le perdite: 47 morti e 55 feriti. Un ufficiale francese
rifiutò il permesso alla Croce Rossa tedesca di dar da mangiare ai
prigionieri su un treno nonostante il rifornimento fosse stato già
concordato tra la Croce Rossa e il comandante francese del campo. Le
guardie francesi di un campo, sostenendo di aver notato un tentativo di
fuga, uccisero a fucilate dieci prigionieri nei loro recinti. [...] Nel 108
Reggimento di Fanteria la violenza raggiunse tali limiti che il comandante
militare della regione, il generale Billotte, su suggerimento del
comandante del reggimento, tenente colonnello de Champvallier, che aveva
rinunciato a cercare di disciplinare i suoi uomini, raccomandava che il
reggimento venisse sciolto. I treni che trasferivano i prigionieri dalla
Germania in Francia erano talmente terribili che gli ufficiali responsabili
avevano ordini permanenti di evitare soste nelle stazioni francesi, per
timore che i civili potessero vedere come venivano trattati i prigionieri.
L'allievo ufficiale Jean Maurice descrisse un convoglio che comandò nel
viaggiò da Hechtsheim. Maurice scriveva che era difficile tener conto dei
prigionieri perché i carri ferroviari erano scoperti e il tempo era
cattivo. Molte volte il treno era costretto a fermarsi nei tunnel, dove i
prigionieri fuggivano dai carri. I francesi aprivano il fuoco su di loro
nelle gallerie buie, uccidendone alcuni, Maurice non poteva sapere quanti,
perché i corpi venivano lasciati sul posto ai cani. A Willingen, Maurice
abbandonò un morto e un morente sulla banchina della stazione. (da 'Gli
altri lager', pag.98-99)
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Durante le scorse settimane, molti
francesi, che sono stati in passato prigionieri dei tedeschi, si sono
rivolti a me per protestare contro il trattamento riservato ai prigionieri
di guerra tedeschi dal governo francese. [...] La signora Dunning,
ritornando da Bourges, riferisce che vi muoiono dozzine di prigionieri
tedeschi alla settimana. [...] Mi ha mostrato fotografie di scheletri
umani e lettere di comandanti di campi francesi che hanno richiesto
d'essere sostituiti perché non possono ottenere alcun aiuto dal governo
francese e non possono sopportare di vedere i prigionieri morire di fame. (da
'Gli altri lager', pag.101)
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'Le Figaro' pubblicò le notizie
mentre erano in corso i festeggiamenti per la vittoria degli Alleati, che
le accolsero come il fantasma di Banco. Dapprima incredulo, il giornale era
stato convinto dalle testimonianze equilibrate di persone ineccepibili, come
il sacerdote, padre Le Meur, che aveva realmente visto gli uomini morire di
fame nei campi. [...] Il giornalista Serge Bromberger scriveva: 'Le fonti
più attendibili confermavano che le condizioni fisiche dei prigionieri
erano peggio che deplorevoli. Si parlava d'un orribile indice di mortalità,
non per malattia ma per fame, e di uomini che pesavano in media 35-45
chili (80-100 libbre). Dapprima noi dubitavamo che fosse vero, ma
abbiamo ricevuto appelli da molte parti e non abbiamo potuto trascurare la
testimonianza di padre Le Meur, cappellano generale presso i prigionieri'. (da
'Gli altri lager', pag.103)
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'Le Monde' pubblicò un articolo
Jacques Fauvet, che iniziava appassionatamente: 'Mentre oggi si parla di
Dachau, tra dieci si parlerà nel mondo intero di campi come Saint Paul
d'Egiaux', dove 17.000 uomini, presi in custodia dagli americani nel
tardo luglio, stavano morendo così rapidamente che in poche settimane erano
stati riempiti due cimiteri di duecento tombe ciascuno. Alla fine di
settembre, l'indice di mortalità era di 10 al giorno, ossia oltre il 21 per
cento all'anno. (da 'Gli altri lager', pag.108)
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Nel gennaio 1946, poco più di mezzo
milione di uomini erano nominalmente al lavoro per l'esercito o l'economia
civile. Quasi tutti denutriti, mal vestiti, deboli, lavoravano molto al di
sotto della normale capacità. Altri 124.000 erano così ammalati che non
potevano lavorare. Quando, durante l'estate del 1945, 600 uomini morenti
scesero dal treno a Burglose, presso Bordeaux, sotto gli occhi degli
abitanti del villaggio stupefatti, 87 di loro erano in condizioni così
cattive che la marcia di due chilometri fino al campo li uccise. (da
'Gli altri lager', pag.119)
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Non vedemmo mai la Croce Rossa, né
venne qualcuno a ispezionarci, fino a due anni più tardi, quando ci
portarono delle coperte. Quella fu la prima volta che vennero e fu nel
1947. Noi stavamo mangiando l'erba tra le baracche. I francesi non erano i
soli responsabili per quanto avvenne nei campi in Francia, perché un'enorme
numero di tedeschi era già malridotto dal cattivo trattamento ricevuto in
Germania. Quando si raccolgono centinaia di migliaia di uomini in un'area
senza preoccuparsi del modo di dar loro da mangiare, é una tragedia. [...]
Ogni giorno, tre o quattro o cinque uomini morivano nella sua baracca di
circa 80 uomini. C'erano giorni in cui egli aiutava a trascinare fino a
venti cadaveri all'ingresso del campo. (da 'Gli altri lager',
pag.122-123)
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Il comandante Zalay disse in agosto
a Pradervand che almeno 2.000 uomini erano così malandati che non c'era più
alcuna speranza per loro. Una lista tenuta da un prigioniero tedesco
documenta i nomi di oltre 400 morti nel periodo da agosto a ottobre in una
sola sezione del campo. La guardia Robert Langlais di Thorée, che, per sei
mesi, fu addetta a scavare tombe a Thorée, aiutò a seppellire una media di
15 cadaveri al giorno, nel periodo da agosto ad ottobre. Dei 200.000 uomini
che, secondo Pradervand, stavano per morire, circa 52.000 furono restituiti
agli americani, mentre 148.000 restarono nei campi francesi. Non vi furono
miglioramenti nei campi francesi quell'inverno, come sappiamo dagli
americani, dalla Croce Rossa e anche da alcune fonti francesi, perciò sembra
certo che tutti i 148.000 rimasti morirono come previsto. (da 'Gli
altri lager', pag.125-126)
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A questo punto il pamphlet del
governo francese, forse inavvertitamente, usa un linguaggio stranamente
simile alla fraseologia USFET, perché 167.000 dei dispersi non contati sono
definiti perdus pour raisons diverses, dispersi per varia ragione. Una
buona chiave per decrittare questo perdus pour raisons diverses é la
previsione di Pradervand che 200.000, dei 600.000 uomini che egli aveva
ispezionato, erano certamente destinati a morire durante l'inverno, se
le loro condizioni non fossero migliorate. [...] La sola ragione per
non riportare il totale dei rimpatriati, mentre tutti gli altri totali
parziali venivano assiduamente aggiornati, é quella di nascondere i veri
totali. E la sola ragione credibile é quella di nascondere le morti, il cui
numero perciò deve essere stato tanto alto, che era meglio nasconderlo. E
quindi, sebbene sia impossibile dire con grande esattezza quanta gente morì
nei campi, é certo tuttavia che era tanta da causare preoccupazioni e
imbarazzo ai francesi. [...] Un gruppo assistenziale di quaccheri scoprì
che, nel gennaio 1946, in un campo di 2.000 uomini presso Toulouse i morti
erano stati 600 in tre settimane. (da 'Gli altri lager', pag.128-130)
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Non c'erano tende nel campo DEF di
Gotha, ma solo il solito filo spinato attorno a un terreno subito
trasformato in fango. Il primo giorno ricevettero una scarsa razione di
cibo, che fu poi ridotta alla metà. Per riceverla, erano costretti a
passare le forche caudine, correndo curvi tra due file di guardie che li
picchiavano con i bastoni mentre passavano. Il 27 aprile, furono
trasferiti in un campo americano a Heideshelm, più a ovest, dove non ci fu
cibo per niente, per diversi giorni e poi molto poco. Esposti alle
intemperie, affamati e assetati, gli uomini incominciarono a morire. Una
notte di pioggia, Liebich vide le sponde della buca, scavata in terra
soffice e sabbiosa, franare sugli uomini che erano troppo deboli per
uscirne. Tentò di tirarli fuori, ma erano troppi. Soffocarono prima che gli
altri potessero raggiungerli. [...] Vide dai 10 ai 30 cadaveri al giorno
trascinati fuori dalla sua sezione, Campo B, che conteneva in principio
5.200 uomini. [...] Quando infine arrivò un po' di cibo, era guasto. Gli
uomini dicevano che, a Rheinberg, avevano avuto 35 giorni di fame e 15
giorni di digiuno assoluto. L'indice di mortalità in campi come quello di
Rheinberg, nel maggio 1945, era di circa il 30 per cento all'anno. In
nessuno dei campi che aveva visto c'era un qualche riparo per i
prigionieri. [...] Secondo le testimonianze degli ex prigionieri di
Rheinberg, l'ultimo atto degli americani prima di consegnare il campo agli
inglesi, verso la metà di giugno, fu quello di spianare con i bulldozer una
sezione del campo dove c'erano ancora degli uomini vivi nelle loro buche. (da
'Gli altri lager', pag.133-134)
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(I prigionieri) considerano
un'ingiustizia, un crimine contro l'umanità il fatto d'essere trattati
inumanamente, di morire di fame in pessime condizioni di vita e d'essere
maltrattati... ciò li mette sullo stesso piano delle vittime dei campi di
concentramento. E ciò porta alla conclusione che gli altri fanno le
stesse cose per le quali essi sono biasimati. (da 'Gli altri lager',
pag.137)
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La politica inglese non nasceva da
pura devozione a principi umanitari, o dalla leale difesa d'un valoroso
nemico sconfitto. Preservando la forza dei tedeschi, ora sotto il comando
alleato, gli inglesi agivano soltanto per cinico interesse. Gli inglesi
sapevano, come il generale George S. Patton, che avrebbero potuto trovarsi
nella necessità d'allearsi essi stessi con i tedeschi, contro la Russia,
nella prossima guerra per l'Europa. E, come Patton, che liberò alla svelta
i suoi prigionieri tedeschi nel maggio 1945, gli inglesi fecero lo stesso
con i loro, finché ne rimasero soltanto 68.000, nella primavera del 1946.
Gli inglesi agirono ancora una volta come Patton: per molti mesi mantennero
intatti nelle loro formazioni, e armati, da 300.000 a 400.000 tedeschi
catturati in Norvegia. Stalin protestò per questo con Churchill, a
Potsdam. Falsamente, Churchill disse di non saperne niente. (da 'Gli
altri lager', pag.138)
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Non c'era fatale scarsità di viveri
nel mondo occidentale, tranne che in Germania. La scarsità in Germania
era causata, in parte, dagli Alleati stessi, con le requisizioni di cibo,
la scarsità di manodopera derivante dall'imprigionamento di operai e
l'abolizione della produzione industriale per l'esportazione. [...] Non
solo la quantità di viveri nei magazzini alleati, ma anche la sbalorditiva
ricchezza del Nord America, specialmente degli Stati Uniti, avrebbero reso
assurda la notizia di fatali scarsità. [..] Una volta creato il mito della
scarsità mondiale di viveri, le piccole quantità di viveri che raggiungevano
i campi francesi e americani potevano ben essere definite come il massimo
possibile nelle 'caotiche condizioni del tempo'. (da 'Gli altri lager',
pag.142-143)
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Gli americani fornivano lo stesso
genere d'amenità, diffondendo la storia che alcuni loro comandanti di campi
in Germania dovevano mandare via i prigionieri rilasciati, che tentavano di
rientrare di nascosto nei campi per avere cibo e riparo. [...] Robert
Murphy, che era consigliere politico civile di Eisenhower, quando fu, per
pochi mesi, Governatore Militare, 'fu sconvolto nel vedere' durante la
visita a un campo, 'che i nostri prigionieri erano tanto malridotti e
emaciati quanto quelli che avevo osservato in un campo di concentramento
nazista'. (da 'Gli altri lager', pag.147)
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Gli americani cercarono, in un primo
tempo, di deviare il biasimo sulle larghe spalle dei francesi. Il senatore
Knowland, parlando al Senato degli Stati Uniti, nel 1947, andò molto vicino
alla pericolosa verità, quando, parlando dei campi francesi, disse: 'Se non
stiamo molto attenti, potrà arrivare ad imbarazzarci nei prossimi anni, una
situazione in cui si potrà vedere come i prigionieri catturati dalle forze
americane venivano trattati non molto meglio dei prigionieri che venivano
gettati nei campi di concentramento della Germania nazista'. Il senatore
Morse citò poi un articolo della famosa giornalista Doroty Thompson, che
pure esprimeva sorpresa e orrore per la situazione dei campi francesi:
'Quel paese, con il nostro consenso o la nostra connivenza, e sfidando la
Convenzione di Ginevra ha usato (prigionieri) come manodopera coatta
proprio nello stesso modo in cui fu usato da Herr Sauckel (che fu
giustiziato) a Norimberga...'. Pochi si curano di ricordare che il
presidente Roosevelt diede una specifica garanzia al popolo tedesco nel
settembre del 1944: 'Gli Alleati non trafficano in schiavitù umana'. (da
'Gli altri lager', pag.150)
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Anche l'ICRC aveva dato informazioni
fuorvianti che portavano i tedeschi fuori strada. A seguito delle richieste
delle famiglie tedesche, l'ICRC aveva chiesto all'esercito degli Stati
Uniti documenti sui dispersi, ricevendo in risposta la comunicazione che
erano stati presi soltanto 3.500.000 DEF e circa 600.000 POW. Questi dati
trascuravano circa 1.800.000 prigionieri catturati dagli americani durante
la guerra. Assieme a quelli dell'indagine del 1947, creavano un sospetto
mortale che andava a cadere come pioggia radioattiva sui russi. [...] Così
si diffondeva a Knowland, al Senato americano, all'ICRC e al mondo,
l'impressione che gli americani avessero catturato da 1.800.000 a 3.100.000
prigionieri meno del vero totale. [...] Ma le famiglie dei morti parlavano.
Dopo la costituzione del governo della Repubblica federale tedesca, la loro
voce collettiva cominciò a farsi sentire. Nel 1950 il cancelliere Konrad
Adenauer fece una dichiarazione al Bundestag sull'argomento. 1.407.000
soldati risultavano ancora mancanti dalle loro case nella Germania
occidentale dopo la guerra e la loro sorte era sconosciuta. Adenauer
disse che c'erano '1.407.000 persone registrate come prigionieri di guerra
o dispersi, 190.000 civili dispersi e 69.000 prigionieri dichiarati ancora
in mano agli Alleati nei campi per criminali di guerra'. Mentre, negli anni
1950, cresceva il clima della Guerra Fredda, diventava molto più importante
l'occultamento compiuto originariamente dagli ufficiali di SHAEF-USFET.
Seppellite le colpe nazionali assieme a quelle personali, Francia e Stati
Uniti potevano ora rovesciare le loro atrocità sui morti dei gulag russi.
[...] Nel 1972, il senatore James O. Eastland prese la parola al Senato
accusando i russi d'aver tenuto segretamente milioni di POW tedeschi in
condizioni 'orribili'. (da 'Gli altri lager', pag.150-151)
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Stalin diceva a Hopkins, a Mosca,
nell'estate del 1945, che i russi avevano circa 2.000.000 di prigionieri
adibiti al lavoro. Stalin non aveva bisogno, a quel tempo, di ridurre il
dato vero, perché ogni parte stava tentando di ottenere la maggior parte possibile
del credito della sconfitta di Hitler. Tuttavia, un articolo citato da
molti scrittori americani e attribuito alla Tass, senza data o citazione
precisa della fonte, si diceva attribuisse ai russi una cattura totale di
3.000.000 di prigionieri. Se ciò fosse vero, usando il dato di 837.828 di
rilasciati, accettato dagli Alleati nel 1947, risulterebbe che i russi
hanno mancato di 'tener conto', che, nel linguaggio della guerra fredda, significava
liquidare, circa il 73 per cento dei prigionieri in mano loro in tempo di
pace. (da 'Gli altri lager', pag.150-151)
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Anche nei libri americani furono
cancellate le verità imbarazzanti. Il poscritto di Eisenhower a
Marshall nel maggio 1943, che diceva 'é un peccato che non ne abbiamo
uccisi di più' riferendosi ai tedeschi, veniva tagliato, probabilmente per
ordine del Dipartimento della Difesa, dalla versione delle lettere data
alla stampa nell'apparentemente autorevole Papers of Dwight David
Eisenhower. La frase era cancellata anche dal libro di corrispondenza di
Eisenhower con Marshall intitolato 'Dear General'. (da 'Gli altri
lager', pag.153)
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Mancando della verità, i tedeschi
incominciarono molto presto a credere ai miti. Uno era quello che la fame,
che in ogni caso era non intenzionale e causata dal caos e dalla scarsità
di cibo, veniva alleviata il più possibile dai generosi americani, che
facevano del loro meglio in condizioni impossibili. Uno storico e
archivista tedesco diceva all'autore che gli americani non avevano cibo
sufficiente per loro stessi, ammettendo però di non aver visto alcun libro
o documento in materia. [...] Il solo aspetto utile di tutta questa
creazione di miti é stato quello di inserire profondamente nella coscienza
tedesca un senso di colpa per il male fatto da quella nazione. Ma il senso
di colpa per i campi nazisti era inevitabilmente associato, nella mente dei
tedeschi, con l'odio per i campi degli Alleati. I tedeschi che sapevano
com'erano quei campi, per esservi stati, trovarono le loro giustificazioni
in ciò che facevano gli americani e i francesi. Accettando che gli Alleati
fossero giustificati nel punirli per i loro crimini, giustificavano se
stessi, cercando vendetta per i crimini di guerra impuniti degli Alleati.
Questo desiderio di vendetta é impossibile da soddisfare e cerca perciò dei
capri espiatori, manifestandosi nel neonazismo e nell'antiamericanismo.
Molti tedeschi pensano oggi che i campi non furono una giusta punizione
dalla quale impararono una dura lezione, ma piuttosto una ingiusta
punizione contro la quale non osarono protestare. [...] 'Gli altri (gli
Alleati) fanno le stesse cose delle quali i (tedeschi) sono incolpati',
dicevano i prigionieri che tornavano dai campi alleati. (da 'Gli
altri lager', pag.154-155)
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Queste morti furono causate
volontariamente, o era proprio impossibile per gli Stati Uniti e la Francia
salvare le vite dei prigionieri? Se era impossibile, perché non li
rilasciarono immediatamente? Il messaggio DEF del 10 marzo 1945 dimostra
che la politica americana era pianificata in anticipo e ben prima che
venissero catturate le grandi masse di prigionieri. Privare i prigionieri
di riparo e delle razioni militari appena finita la guerra era una scelta
politica dell'esercito americano. La privazione di cibo, acqua, tende e
così via era incominciata settimane prima della fine delle ostilità, come
notavano con sgomento Beasley e Mason. Già il 1 maggio si costruivano i
recinti per prigionieri PWTE senza ripari, sebbene ci fosse un grande
surplus di tende militari americane, e i primi prigionieri venivano privati
dello status di POW il 4 maggio, quattro giorni prima del VE Day. In maggio
si generalizzò la politica di privare i prigionieri di guerra del loro
status e quindi del cibo che stavano già ricevendo. Fu una scelta politica
quella che privò del loro status i rimanenti prigionieri, il 4 agosto, e fu
ancora politica quella che impedì alle organizzazioni assistenziali civili
di aiutare i prigionieri di guerra, i DEF e i civili in Germania. [...] Senza
dubbio i DEF morirono in gran numero soprattutto a causa della fame, ma
furono la mancanza di assistenza sanitaria e il sovraffollamento che
causarono il maggior numero di morti tra i DEF e i POW. Una percentuale
relativamente piccola, circa il 10 o il 15 per cento, morì per 'esaurimento
o deperimento', mentre un numero molto alto per malattie direttamente
associate con le condizioni malsane e il congelamento, come polmonite,
dissenteria, diarrea, malattie respiratorie e così via. Cosa può spiegare
il rifiuto di fornire beni e servizi prontamente disponibili che avrebbero
potuto evitare tutto ciò?. (da 'Gli altri lager', pag.158-159)
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L'esperienza dei 291.000 prigionieri
tedeschi in mano all'esercito degli Stati Uniti, comandato dal generale
Mark W. Clark, in Italia, dimostrava che era possibile, nel 1945, per i
comandanti americani in Europa tenere in vita i prigionieri senza
'maltrattarli'. Nessuno ha mai denunciato maltrattamenti di quei
prigionieri che, pesati in un campo americano in Germania subito dopo il
loro ritorno dall'Italia, non risultarono sottopeso, mentre quelli tenuti
in Germania 'erano tutti sotto peso'. L'esperienza inglese e canadese
dimostra che era possibile tenere in vita milioni di prigionieri in
Germania, nel 1945. Non é stata mai citata alcuna atrocità in tempo di
pace contro gli inglesi e i canadesi, fatta eccezione per la fame, a quanto
pare non causata intenzionalmente, di circa 400 prigionieri, nel campo
inglese di Overijsche, in Belgio, nel 1945-46. L'indice di mortalità dal 3,5
al 5 per cento tra i civili nella zona britannica, nel 1945-46, raffrontato
al 30 per cento o più dei campi americani nello stesso periodo, dimostra
che i prigionieri dei campi americani avrebbero avuto una sorte molto
migliore, se rilasciati tra la popolazione civile. E' chiaro che l'esercito
in Germania era responsabile come é chiaro che non si trattò d'un
incidente. Chi dunque era responsabile nell'esercito in Germania? Il
responsabile era Eisenhower. Solo l'esercito aveva il compito di
imprigionare, mantenere, rilasciare e trasferire i soldati tedeschi. (da
'Gli altri lager', pag.160-161)
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Ovviamente la differenza tra i campi
inglesi-canadesi e quelli americani non derivava soltanto dal migliore
nutrimento fornito nei campi inglesi-canadesi. E' virtualmente certo, anche
se non provato, che l'alta percentuale di sopravvivenza nei campi
inglesi-canadesi era dovuta a fattori che non avevano niente a che fare con
la scarsità mondiale di viveri. I prigionieri nei campi inglesi-americani
avevano riparo, spazio, acqua potabile sufficiente, migliori cure mediche e
così via. I prigionieri nei campi americani cercavano ancora di lanciare di
nascosto, durante la notte, messaggi avvolti ai sassi chiedendo da
mangiare, mentre quelli nei campi inglesi già ricevevano la posta
regolarmente. L'esercito canadese permise ad almeno una unità tedesca di
tenere tutto l'equipaggiamento telefonico e perfino di continuare a usare
una radio trasmittente. Dopo pochi mesi, i prigionieri dei campi inglesi e
canadesi ricevevano visite. [...] La colpa di tutto ciò va
principalmente a Eisenhower, assieme a Hughes e Smith. Solo concedendo
agli ufficiali subalterni di ricevere ciò di cui avevano bisogno dai
depositi, avrebbe consentito di salvare molte vite. Permettendo la
distribuzione dei 13.500.000 pacchi viveri della Croce Rossa destinati ai
prigionieri, si sarebbero tenuti in vita per molti mesi, forse più d'un
anno, tutti quelli che morivano di fame. Un solo ordine di rilasciare tutti
quelli non necessari come manodopera, avrebbe ridotto rapidamente la
percentuale dei morti da oltre il 30 per cento all'anno a quella dei civili
del 3,5 per cento. Concedere il permesso alle organizzazioni assistenziali
di visitare i campi, avrebbe portato a una tempesta di proteste pubbliche
contro le atroci condizioni, suscitando nello tesso tempo la volontà
politica e operativa necessaria ad alleviarle. (da 'Gli altri lager',
pag.164-165)
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'L'intenzione del comando dell'Army
per quanto riguarda i campi dei POW tedeschi dal maggio 1945 alla fine del
1947 era di sterminare quanti più POW possibile finché la cosa si poteva
fare senza controllo internazionale', secondo il tenente William
Crisler, che all'epoca faceva parte del Military Intelligence dell'US Army
di occupazione. Crisler fu testimone delle letali condizioni imposte ai
prigionieri tedeschi in molti campi, compreso Regensburg presso Monaco.
Egli vide anche un ordine affisso alla bacheca del Quartier Generale del
Governo Militare Americano in Baviera e firmato dal Governatore Militare
della Baviera, in inglese, tedesco o polacco, che diceva che era un crimine
punibile con la morte per i civili tedeschi portare cibo ai campi per
nutrire i prigionieri (interviste nel 1991 e 1992, oltre a lettere di
Crisler, che ha approvato le stesse per la pubblicazione). I prigionieri
stavano allora morendo di fame. Nel grande campo per prigionieri di guerra
di Bretzenheim, dove le condizioni erano migliori che in molti altri campi,
il registro ufficiale delle razioni, scoperto di recente, mostra che i
prigionieri di guerra - quelli trattati meglio di tutti - ricevevano da 600
a 850 calorie al giorno. I prigionieri pativano la fame sebbene 'i viveri
fossero ammassati tutt'attorno al recinto del campo', secondo il capitano
Lee Berwick del 424 Reggimento di fanteria, che aveva in custodia il campo.
Recentemente sono state scoperte anche prove che sono stati uccisi sia
civili che prigionieri mentre tentavano di dare o ricevere cibo attraverso le
barriere di filo spinato. E due tedeschi hanno rivelato che videro i
bulldozer dell'US Army seppellire vivi dei prigionieri nelle loro buche di
terra nei campi di Remagen e Bad Kreuznach. Fu solo un giorno dopo la fine
della guerra, l'8 maggio 1945, che il Governo Militare di Eisenhower
dichiarò che dar da mangiare ai prigionieri era un crimine capitale per i
civili tedeschi. (da 'Gli altri lager', pag.169)
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Il tenente William Crisler ha detto:
'Ho visto l'ordine in inglese e tedesco affisso per un breve periodo alla
bacheca del Quartier Generale del governo militare della Baviera. Era
firmato dal capo di Stato Maggiore del governo militare della Baviera. Più
tardi fu affisso in polacco a Straubing e Regensburg, perché c'erano molte
compagnie di guardie polacche ai campi. L'intenzione del comando dell'Army
a proposito dei campi di POW tedeschi era molto chiara dal maggio 1945 fino
a tutto il 1946. Era di sterminare quanti più POW possibile finché la cosa
si poteva fare senza controllo internazionale. Questa era conosciuta come
la politica degli alti gradi del comando'. Ex prigionieri hanno consentito
anche la scoperta di prigionieri e di un civile che furono fucilati per
il 'delitto' di aver passato cibo attraverso il filo spinato. Donne e
ragazze civili furono uccise, prese a fucilate e imprigionate per aver
portato cibo ai campi, sebbene l'ordine di Eisenhower avesse dato
implicitamente ai singoli comandanti dei campi la possibilità di fare
eccezione per i famigliari che tentavano di dar da mangiare ai loro
congiunti attraverso il filo spinato. Il prigioniero Paul Schmitt fu ucciso
nel campo americano di Bretzenheim dopo essersi avvicinato al filo spinato
per incontrare la moglie e il giovane figlio che gli portavano del cibo. I
francesi seguivano l'esempio: Frau Agnes Spira fu uccisa da guardie
francesi a Dietersheim nel luglio 1945 mentre portava cibo ai prigionieri. (da
'Gli altri lager', pag.170)
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Il prigioniero Hans Scharf, che ora
vive in California, fu testimone dell'uccisione più raccapricciante. Vide
una donna tedesca con i suoi due bambini venire verso una guardia americana
nel campo di Bad Kreuznach, portando una bottiglia di vino. Chiese alla
guardia di dare la bottiglia a suo marito che era proprio dietro al filo
spinato. La guardia si scolò la bottiglia, e, vuota, la gettò a terra e
uccise il prigioniero con cinque colpi. Gli altri prigionieri urlarono,
attirando l'attenzione del tenente dell'US Army Holstman di Seattle, che
disse: 'E' una cosa orribile. Mi accerterò che la cosa vada davanti a una
corte marziale'. In mesi di lavoro negli archivi dell'Esercito a
Washington, non é risultata alcuna corte marziale per quest'episodio o
altri simili. (da 'Gli altri lager', pag.171)
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Martin Brech, professore in pensione
di filosofia del Mercy College di New York, che era di guardia ad Andernach
nel 1945, ha confermato che la politica del terrore di Eisenhower era
duramente imposta fino ai gradi più bassi delle guardie del campo. (da
'Gli altri lager', pag.171)
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A Bad Kreuznach, William Sellner di
Oakville, nell'Ontario, vide un giorno dei civili che gettavano cibo oltre
il filo spinato mentre le guardie guardavano con indifferenza. Ma, di
notte, quelle guardie sparavano a caso raffiche di mitragliatore nel
campo, sembra per divertirsi. A Bad Kreuznach, Ernst Richard Krische,
amputato a un braccio, scrisse non di meno nel suo diario il 4 maggio:
'Sparatoria selvaggia nella notte, proprio come i fuochi d'artificio.
Dovrebbe essere la cosiddetta pace. La mattina dopo, 40 morti come vittime
dei fuochi d'artificio soltanto nel nostro recinto, molti feriti. (da
'Gli altri lager', pag.172)
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Quando, in luglio, gli americani si
preparavano a lasciare il campo, fu detto a Buchal dai conducenti del 560
Ambulance Company che avevano trasportato cadaveri ed evacuato prigionieri
ammalati, che durante le dieci settimane di controllo americano nei sei
campi attorno a Bretzenheim, erano morti 18.100 prigionieri. Buchal
non venne a sapere dove finivano i cadaveri. Egli udì lo stesso numero di
18.100 morti anche dai tedeschi che tenevano le statistiche dell'ospedale e
da altro personale americano nell'ospedale. [...] Molti riferiscono un
numero di morti superiore a 50 al giorno per un lungo periodo nel solo
campo, senza contare l'ospedale. Uno riferisce di 120-180 cadaveri portati
fuori dal campo ogni giorno, senza tener conto dell'ospedale. (da 'Gli
altri lager', pag.173)
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Il capitano Berwick aveva il comando
dei capisquadra tedeschi che dovevano portare fuori dal campo ogni giorno i
cadaveri. Egli valuta che da tre a cinque cadaveri al giorno venivano
portati fuori da ciascuno dei 20 recinti compresi nel campo più grande, nel
periodo peggiore, che durò circa sedici giorni. Ciò significa che solo dal
campo, senza considerare l'ospedale, da circa 960 a circa 1.600 cadaveri
vennero portati fuori in solo sedici giorni. (da 'Gli altri lager',
pag.173)
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Leggiamo anche a pagina 17 del
rapporto della 106 che in maggio e giugno le ambulanze della 106 fecero
2.434 viaggi coprendo 193.949 miglia, evacuando 21.551 prigionieri. Come
abbiamo visto nel caso delle truppe che si diceva fossero state trasferite
al generale Clark nel 1945 in Austria, e che Clark riferiva non essere mai
arrivate, c'è un solo modo di partire da un luogo e non arrivare in
alcun altro, e questo modo é il morire. In ogni caso, un dottore
tedesco, Siegfried Enke, di Wuppertal, che lavorò in una unità ospedaliera
d'un campo americano, ha detto che i pazienti malati incurabili venivano
trasferiti a un altro fabbricato (chiamato probabilmente ospedale
d'evacuazione) e che non li vedeva più. (da 'Gli altri lager', pag.176)
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Il dottor Joseph Kirsch scrive: 'Mi
offrii volontario al Governo Militare del 21 (francese) Regione Militare
(presso Metz)... Fui assegnato all'ospedale militare 'francese' situato nel
piccolo seminario di Montigny... Nel maggio 1945, gli americani che occupavano
l'ospedale di Legouest ci portavano con le ambulanze ogni notte barelle
cariche di prigionieri moribondi in uniforme tedesca... Le ambulanze
entravano dall'ingresso posteriore... Noi allineavamo le barelle nella sala
centrale. Non avevamo niente a disposizione per le cure. Potevamo soltanto
eseguire esami superficiali elementari (auscultazione). Soltanto per
scoprire prima le cause della morte nella notte... Poi, al mattino,
arrivavano altre ambulanze con bare e calce viva... I prigionieri erano
in condizioni talmente cattive che il mio ruolo era ridotto a dar conforto
ai morenti. Questo dramma mi ha ossessionato dalla guerra in poi; lo
ricordo come un orrore'. Il lettore può giudicare quale opinione avessero
gli americani di quegli 'ospedali' dal fatto che, assieme ai pazienti,
trasportavano bare e calce viva. (da 'Gli altri lager', pag.176)
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La prova che le evacuazioni erano
quasi tutte morti nascoste divenne molto più forte con l'arrivo dei
francesi in luglio. I francesi che rilevarono dagli americani in
luglio l'intera area del Reno, compresi campi e ospedali, lamentarono il
fatto che gli americani avevano detto che c'erano 192.000 uomini nei campi
e negli ospedali, ma in realtà ne avevano trovati soltanto 166.000. Non
solo i francesi non li trovarono, gli americani ammisero riservatamente che
non c'erano. (da 'Gli altri lager', pag.177)
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La più impressionante delle prove
dettagliate di morti registrate da unità ospedaliere viene pure dalla 106
Divisione. Nelle unità ospedaliere della 106, escludendo 'ospedali
d'evacuazione', in 70 giorni, morirono 1.392 persone su un carico di
pazienti di 23.095. [...] A Bretzenheim, a tre miglia di distanza, Max
Dellmann, il pastore protestante del campo nel 1946, seppe dai medici
tedeschi del 50° Field Hospital HQ Detachment nel campo, che vi erano morti
dai tremila ai quattromila uomini quando c'erano gli americani. (da 'Gli
altri lager', pag.178)
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Una notte nell'aprile del 1945, fui
risvegliato di colpo dal mio sopore nella pioggia e nel fango da strazianti
grida e da forti lamenti. Balzai i piedi e vidi in distanza (circa 30-50
metri) i fari di un bulldozer. Vidi poi che il bulldozer stava avanzando
attraverso la folla di prigionieri stesi a terra. Aveva davanti una
lama che tracciava una strada nel terreno. Non so quanti dei prigionieri
finirono sepolti vivi nelle loro buche. Non fu più possibile rendersene
conto. Odo ancora chiaramente le grida di 'Assassino!'. (da 'Gli altri
lager', pag.184)
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Una lettera di un funzionario del
Dipartimento di Stato, confermata da un funzionario del Comitato
Internazionale della Croce Rossa, stabilisce inequivocabilmente, nel
gennaio 1946, che 'le condizioni sotto le quali i POW tedeschi sono
stati tenuti nel teatro europeo d'operazioni ci espongono a gravi accuse di
violazioni della Convenzione di Ginevra'. [...] L'ICRC riferiva dalla
Francia, e l'esercito riferiva dall'Austria e Berlino, che i prigionieri in
mano agli americani morivano di fame. (da 'Gli altri lager', pag.201)
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Ma i francesi non erano i soli
responsabili di quegli eccessi. Intenzionalmente interpretando a modo loro
la direttiva 1067 dei capi di Stato maggiore, molti ufficiali alle
dipendenze di Eisenhower avevano cominciato ad affamare i prigionieri che
alla fine della guerra erano caduti in mano americana. (II consulente
politico di Eisenhower, Robert Murphy, così riferì nel suo libro Diplomat
among the warriors (Londra, 1964), pagg. 360-361, dopo una visita a uno di
quei campi; 'Rimasi allibito quando constatai che i prigionieri in
nostre mani erano deboli ed emaciati come quelli che avevamo trovato nei
campi nazisti. Il giovane comandante tranquillamente ci disse di avere
deliberatamente tenuto i prigionieri in una dieta da fame...
Quando andammo via il nostro direttore sanitario mi chiese se quel campo
rappresentava l'essenza della politica americana in Germania'.) Così un
milione di loro morì per fame, ipotermia e malattie. Anche nei territori
orientali veniva selvaggiamente implementata una politica vicina a quella
suggerita dal Piano Morgenthau: in cerca di vendetta, i comandanti dei
campi di concentramento siti in quello che era nel frattempo diventato
territorio polacco avevano dato inizio al sistematico assassinio dei
prigionieri di guerra tedeschi. (da 'Norimberga ultima battaglia',
pag.215-216)
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ITALIANI NEI CAMPI SOVIETICI.
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Per gli italiani, e questo è il
secondo binario, i sovietici adottarono un'altra tecnica. Durante la guerra
ci fu un continuo martellamento per fare disertare i nostri soldati. I
risultati furono modestissimi [...] Nel dopoguerra invece i capi del Cremlino
inviarono i nostri soldati nei campi di concentramento più duri, dove
migliaia morirono di stenti. Non c'era bisogno di tante repressioni
violente, che pure ci furono in alcuni campi; era sufficiente affidarsi
alle sofferenze del rigido inverno per sopprimere una buona parte dei
nostri poveri prigionieri. Questa inutile crudeltà era attenuata per chi
accettava di seguire i corsi di antifascismo e di marxismo. Togliatti ed i
suoi collaboratori come il cognato Robotti avevano cominciato questa opera
durante la guerra: opera che fu intensificata finito il conflitto [...]
cercarono di convincere i nostri prigionieri privi di qualsiasi altra
informazione che anche nel nostro paese ormai il sistema politico vincente
era quello comunista. Fu questa un'impostazione sbagliata, perché se in
Italia si poteva dare ad intendere alle masse che il comunismo era la
dottrina e la prassi più adatta per il riscatto dei poveri, invece per
uomini che anche nei contatti con la gente si erano resi conto di quale era
la drammatica condizione dell'uomo e della donna sovietici, quella
propaganda degli attivisti italiani appariva una beffa inflitta a persone
che stavano provando sulla loro pelle la disumanità del sistema comunista. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.11)
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[...] sono il comportamento dei
fuoriusciti italiani che da Mosca e dai campi di prigionia di Stalin
aggiunsero sangue a sangue, pena alle pene e morte alla morte. Sono i campi
di Tambov, Susdal, Oranki, con la mortalità del novanta per cento e quello
famigerato di Krinowaja, dove si praticava lo sterminio, le cui atrocità
avrebbero fatto impallidire i lager hitleriani e l'incredibile ritardo
e i lunghi colpevoli silenzi sui nostri caduti. (da 'Prigionieri
italiani nei campi di Stalin', pag.13)
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E' difficile credere che i campi di
prigionia sovietici al tempo di Stalin non fossero finalizzati
all'eliminazione dei reclusi [...] Ne conseguiva il disegno di
annientamento di quella massa, praticato certamente fino al maggio 1943,
che si sarebbe differenziato da quello dei nazisti solo per il metodo,
il cui esito era prodotto dalla denutrizione, dalla malattia e dal
congelamento. Le stesse marce di deportazione, sotto temperature assurde
per gli organismi mediterranei, faceva parte del processo d'eliminazione
fisica; né può reggere lo stereotipo di taluni storici secondo cui le
migliaia di morti sarebbero avvenute per l'asprezza delle battaglie, con i
sublimi eroismi e la resistenza ad oltranza di interi reparti. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.81)
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Dei duecentotrentamila soldati
italiani poco meno di novantamila rimasero chiusi nella grande sacca. Di
questi rivedranno la patria poco più di diecimila. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.86)
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Dopo la resa e le estenuanti marce
sulla neve, i prigionieri subivano una prima falcidia per causa delle basse
temperature [...] Durante le marce del dawai, incitamento gutturale che chi
ha sentito non dimenticherà mai, a migliaia furono colpiti da congelamento
e dalla cancrena [...] Oltre il Don, nei centri ferroviari, si smistavano i
prigionieri che, contati, venivano caricati e stipati entro vagoni, senza
cibo, né acqua [...] I convogli a volte rimanevano fermi in binari morti
per giorni e giorni perché le linee erano occupate per i transiti che
andavano al fronte [...] vi sarà chi orinerà nella gavetta, per bere dopo
che il liquido si fosse un po' raffreddato. [...] Una seconda falcidia
avveniva già nei vagoni, che per i suoi orrori ricorre in tanti racconti
dei superstiti [...] Giunti a destinazione ai prigionieri veniva intimato
di scendere; i più validi vi riuscivano, gli altri, moribondi rimanevano
accucciati e lamentosi. Allora le guardie saltavano sui vagoni e col calcio
dei mitragliatori spingevano gli infelici che gementi trattenevano le urla
[...] Una terza falcidia si avrà nella lunga marcia verso il lager, lungo
la quale perderà i più deboli. Quelli che si accasciavano, stremati, erano
finiti coi parabellum dei soldati di scorta [...] Durante la marcia del
davai perirono altre trentamila militari italiani. (da 'Prigionieri
italiani nei campi di Stalin', pag.93-96)
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A Komorowka avvenivano le esecuzioni
di massa per via delle foreste vicine, nelle quali era agevole occultare i
cadaveri; Suslanka era un campo di punizione, i prigionieri finnici colà
reclusi, tra stenti e freddo vi morirono tutti; la temperatura gravava
sempre dai quaranta ai cinquanta gradi sotto zero. Anche a Vorkuta si
moriva, nelle sue miniere di carbone, per cui questo grande campo sarà
chiamato campo della morte [...] Quello di Kolyma era attivo già al tempo
dei grandi processi di Stalin [...] E' questo, probabilmente uno dei più
vecchi campi ancora esistenti e dei più grandi se negli anni Trenta
deteneva più di ottocentomila infelici. [...] Lì, tutti i prigionieri che
per qualche motivo non potevano produrre la loro norma erano consegnati a
speciali squadre composte da tre individui, dette troikas, che generalmente
li condannavano alla fucilazione sotto l'accusa di sabotaggio, eseguivano
la sentenza, oppure prolungavano la pena [...] Ogni anno 100.000
prigionieri erano inviati al campo di Kolyma e soltanto circa 10.000 ne
ritornavano [...] Il più orribile tuttavia, quello che verrà ricordato con
più raccapriccio, era il campo di Krinowaja [...] Il solo nome ancor oggi
terrorizza i pochi superstiti: questo lager non era secondo al più
famigerato campo di sterminio della Germania nazista [...] E qui un
alto ufficiale prigioniero, un italiano, a nome di tutti pregherà il
comandante russo di essere fucilato assieme agli altri prigionieri [...]
All'interno delle baracche del campo di Susslanka la temperatura scendeva a
meno quarantasette: pochi furono i superstiti. (da 'Prigionieri italiani
nei campi di Stalin', pag.97-99)
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Era questo un campo (Susdal) per
ufficiali, tra i quali tutti i cappellani superstiti: cinque. Alcuni di
questi riuscirono a celebrare la messa: sempre in tempo di notte, tra il
gelo mortale e il rischio di venire fucilati se sorpresi. La mortalità,
comunque, superò il 90 per cento. (da 'Prigionieri italiani nei
campi di Stalin', pag.121)
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Dichiarare d'esser antifascisti non
era sufficiente, bisognava essere comunisti. E ancora: in più
di quattro anni di prigionia non ho mai visto un commissario del popolo, ed
erano italiani come noi, avere una parola, un gesto, uno sguardo di
commiserazione per noi, che morivamo a migliaia. (da 'Prigionieri
italiani nei campi di Stalin', pag.127)
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Ricordo che durante i primi bagni,
continua Gherardini, dopo essermi spogliato in una stanzaccia sudicia
entrando nel calidarium, svenivo in media dalle dieci alle quindici volte
[...] Chi aveva la dissenteria sentiva improvvisamente acuirsi gli spasmi;
c'era un buco in un angolo ed era una corsa frenetica, uno spingersi a
vicenda, uno schifoso ribollire di escrementi liquidi [...] I corpi nudi
erano spaventosi. La testa, rasata a zero, sembrava un teschio che avesse
conservato la pelle, tra costola e costola apparivano dei solchi profondi,
le ossa del bacino erano visibili sotto l'epidermide, tra le cosce
passavano i due pugni congiunti [...] A Oranki su novecentotrentatrè
prigionieri italiani, ne sopravvissero duecento. (da 'Prigionieri italiani
nei campi di Stalin', pag.140-141)
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Al centro della Russia, fra Mosca e
Stalingrado, s'apriva, nella regione di Tambov il lager 188 [...] La morte
s'affacciava al lager in ogni momento, e a decine si contavano i cadaveri
in un crescendo che raggiunse e superò i cento decessi quotidiani.
Portavano la morte, il freddo, la denutrizione e, conseguentemente, le
malattie. Le calorie conferite al prigioniero non erano mai più di 600 (nei
campi di concentramento hitleriani le calorie distribuite quotidianamente
ad ogni prigioniero di guerra non erano inferiori alle 800 e difficilmente
superavano le 1200) [...] E' fuor di dubbio l'intenzione del governo
sovietico d'annientare i prigionieri di guerra. (da 'Prigionieri
italiani nei campi di Stalin', pag.144)
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La dissenteria fa strage [...] la
dissenteria si estende in maniera impressionante, diventa quasi sempre
sanguigna con effetto letale [...] Nessuno a un certo momento vorrebbe più
essere ricoverato ai lazzaretti donde non si ritorna vivi [...] C'è chi arriva
al punto, che la fame, per quanto grande e antica possa essere, non
giustifica, di raccogliere il grano non digerito degli escrementi, per
rimetterlo nella zuppa dopo la passatina con l'acqua fresca [...] Nel
lager di Tambov su ventimila prigionieri, ne sopravvissero mille. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.147-151)
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Il campo di Krinowaia era
considerato da tutti coloro che ebbero la sventura di transitarvi e la
sorte d'uscirne, un vero e proprio luogo di sterminio, non certo secondo al
peggiore dei lager nazisti [...] Solo in questo campo, nell'arco di
quindici giorni, s'ebbero più decessi che in tutti i campi dell'Unione
Sovietica: si contarono ventisettemila morti. Per favorire lo sterminio ai
prigionieri veniva negato il cibo per i primi sette giorni dal loro arrivo,
poi si distribuiva la zuppa che era costituita da acqua calda con qualche
buccia di patate e alcuni pezzi di bietola. [...] I decessi avvenivano in
continuazione, tanto che non si riusciva a sgomberare i cadaveri se non con
l'allucinante espediente di legarli al collo ed alle caviglie, formando
lunghe catene che venivano trascinate da muli [...] A Krinowaja la morte
giungeva anche attraverso le fucilazioni, le eliminazioni camuffate e lo
scempio del cannibalismo sui moribondi: era praticata l'antropofagia. Anche
gli italiani, come avevano fatto gli ungheresi, resi pazzi dagli stenti
mangiavano i cadaveri. Il cannibalismo di Krinowaja, è scritto, è una
macchia che rimarrà un incancellabile atto d'accusa contro il governo sovietico
e contro i comunisti fuoriusciti, testimoni indifferenti della degradazione
dei loro connazionali. (da 'Prigionieri italiani nei campi di Stalin',
pag.152-153)
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I prigionieri furono lasciati senza
cibo... alcune migliaia morirono nel giro di poche settimane per mancanza
di cibo, per assideramento, per intossicazione. Altri per eccessiva fame si
diedero al cannibalismo: i cadaveri appena morti o in fin di vita
venivano squartati; qualche pezzo di muscolo ancora conservato del
dimagrimento, il fegato, le cervella estratti e mangiati crudi o
semiarrostiti al fuoco di sterpi e di paglia. Alcuni in qualche gavetta
facevano cuocere un po' quella poltiglia di carne umana [...] Le teste
venivano aperte, i costati divelti, un fuocherello alcuni sorvegliavano che
non venisse nessuno e la cosa era fatta. Non si curavano neppure di
ricomporre i cadaveri, io stesso vidi slitte cariche di corpi mutilati
[...] L'odore del cadavere attirava i mangiatori di carne umana e appena
qualcuno mostrava i sintomi della fine prossima gli erano già intorno,
pronti a farlo a pezzi; le squadre, messe insieme per impedirlo, non sempre
arrivavano a tempo. (da 'Prigionieri italiani nei campi di Stalin',
pag.153-154)
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Negli archivi del KGB, l'erede
dell'infausta Enkevedè, solo quest'anno aperti agli storici e ai
giornalisti di tutto il mondo, sono emersi i fascicoli compilati con
meticoloso zelo sui prigionieri di guerra. Quello che sembrava un olocausto
dovuto a cause contingenti risulta oggi inequivocabilmente essere stato un
disegno perfettamente pianificato. Vi sarebbe persino un numero esatto di
militari italiani censiti dalla polizia segreta: 48.957. Da ciò si arguisce
che nelle disperate marce del davai morirono trentaduemila prigionieri: era
quella la prima fase dello sterminio programmato [...] I prigionieri
dell'ARMIR che erano stati rimpatriati, furono circa diecimila, gli ultimi
dei quali, in contrasto con le leggi internazionali, lo furono dopo ben
dodici anni di deportazione e nove dalla fine della guerra. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.161)
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La guerra era finita ma per coloro
che avevano calpestato il suolo russo i conti erano ancora aperti. Non
parliamo dei tedeschi e del raggruppamento di Camicie nere e di tanti
bersaglieri i quali, troppo spesso, non venivano fatti prigionieri. Il solo
riconoscimento costituiva una sentenza di morte. Risulterà poi che i
prigionieri risparmiati avevano di che pentirsi di non essere stati subito
uccisi. Li attendeva la marcia del davai, li attendevano i vagoni della
morte e poi i campi d'annientamento. I sovietici, uccidendo, appena
catturati, le camicie nere e i tedeschi, finivano così per privilegiarli
perché con la morte avrebbero loro evitato le immense torture del gelo e
della fame [...] L'eliminazione pianificata, oggi chiaramente dimostrata,
era nei disegni del governo sovietico. E bene lo sapevano i fuoriusciti
comunisti italiani che cercarono di recuperare, tra quella massa inebetita,
coloro che avrebbero potuto diventare comunisti. Ancora nel 1948, in
occasione del grande appuntamento elettorale italiano, il governo
sovietico si disse disposto a liberare tutti i prigionieri dell'ARMIR
qualora il signor Togliatti fosse andato al potere. Ricorda Enrico
Reginato che quando si diffuse questa notizia i sovietici palesarono la
certezza della vittoria comunista in Italia tantochè già da mesi prima di
quell'aprile fervettero i preparativi per i rimpatri degli italiani [...]
Nessuna Norimberga per i sovietici che hanno calpestato la convenzione di
Ginevra e il diritto delle genti, e nessuna Norimberga per i sovietici che
avevano voluto eliminare l'intellighenzia polacca con quindicimila
ufficiali soppressi nelle fosse di Katyn [...] L'Unione Sovietica con i
suoi lager di eliminazione, nei quali erano accomunati dissidenti e
prigionieri di guerra, non ha mai saldato i conti verso l'umanità. Né più
li salderà poiché il regime fallimentare del suo governo, retto dalla
mostruosa ideologia comunista, proprio in questi tempi ha chiuso bottega. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.171-172)
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Eppure l'Italia, dopo l'8 settembre,
era passata dallo stato di nemico a quello di alleato e alla fine della
guerra era stata firmata un'intesa con l'URSS, sulla base della convenzione
di Ginevra, per il rimpatrio di tutti i prigionieri o delle loro salme,
come è avvenuto in tutti i paesi del mondo, anche nei più lontani o
ritenuti più incivili. Dalla Russia solo dopo cinquant'anni, dopo il crollo
del comunismo si viene a sapere di oltre 60.000 nomi ben catalogati negli
schedari del KGB, mentre per anni i dirigenti sovietici e i comunisti
italiani hanno sempre sostenuto che non c'erano più notizie. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.197)
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Il soldato italiano caduto nelle
mani dei sovietici era meno di zero. I piccoli gruppi venivano passati per
le armi col seguente ordine di precedenza : tedeschi, camicie nere,
cappellani militari. Chi si salvò lo dovette al fatto di essere stato
catturato con reparti di una certa consistenza. Il soldato russo di guardia
alle colonne, i partigiani e le compagne della scorta sparavano sui
prigionieri quando volevano, per qualsiasi capriccio, e di ciò non dovevano
rendere conto a nessuno. Le truppe autocarrate che, si incrociavano durante
il davai sparavano a loro volta con mitragliatrici, parabellum e fucili
contro le colonne e quel macabro tiro al bersaglio apriva sempre vuoti
paurosi tra i prigionieri. A chi toccava toccava. Tutti coloro che cadevano
prostrati lungo il cammino, stroncati dalla fatica, dalla fame, dal
congelamento o dalle ferite, venivano immediatamente eliminati col
classico colpo di fucile alla nuca. Quelli che scampavano al colpo alla
nuca perché la scorta non avrebbe materialmente potuto liquidarli, erano
condannati a morte dal freddo. I sopravvissuti al piombo dei sovietici
furono uccisi dalla sete e dalla fame. Di fame e di sete morirono i primi
compagni e di tutte le malattie connesse alla totale mancanza di vitto.
Collassi cardiaci, paurosi edemi fulminanti e via dicendo aumentarono la
strage. Chi riusciva ad arrivare alla fine della marcia del davai si trovò
a tu per tu con le epidemie: tifo petecchiale e dissenteria [...] Nella
steppa e non sul fronte del combattimento restarono effettivi, secondo
calcoli ufficiali, varianti dall'ottantatre al novantasei per cento. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.203-204)
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|
La sofferenza fisica non bastava,
c'era il tormento politico! Commissioni di ufficiali dell'NKVD irrompevano ogni
tanto all'interno delle celle e sottoponevano ad interrogatori di ore ed
ore, accusando di crimini, mai commessi, pretendendo notizie di carattere
militare segreto, raddolcendosi promettendo protezione e benessere per il
presente e per il futuro in Italia a patto dell'iscrizione al gruppo [...] Gl'interrogatori
ai quali venivamo sottoposti erano estenuanti: in essi si voleva
conoscere la posizione professionale e condizione dei nostri parenti ed
amici in Italia, le nostre e le loro idee politiche, l'opinione nostra e
dei nostri compagni di prigionia sull'Unione Sovietica e sul comunismo. (da
'Prigionieri italiani nei campi di Stalin', pag.225)
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Poi, all'improvviso decisi di
togliermi i distintivi di grado. Nella mia mente spossata si
aggrovigliavano considerazioni e ricordi: gli ufficiali di fanteria che -
come avevo visto - andavano spesso all'attacco senza gradi, ma soprattutto certi
racconti di atroci supplizi inferti dai bolscevichi ad ufficiali italiani
prigionieri. (da 'I più non ritornano', pag.55)
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A costui il soldato ripeté d'essere
stato effettivamente prigioniero dei russi. Faceva parte di un'enorme
colonna d'italiani catturati [...] cui i russi avevano dichiarato che li
stavano portando a Millerovo, per caricarli sui treni e spedirli a lavorare
nelle retrovie. [...] Il soldato proseguì: improvvisamente i guardiani
della colonna avevano cominciato a far fuoco coi loro mitra sugli italiani.
(da 'I più non ritornano', pag.97)
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Appena catturati subimmo la prima
perquisizione; capi di corredo necessarissimi per quel clima ci furono
tolti. Successivamente i feriti più gravi, circa 150, furono divisi dal
resto, ammassati contro una vecchia capanna e mitragliati. I cingoli
dei potenti T.34 completarono il misfatto stritolando quelle povere carni.
La scena fu così fulminea che al momento restammo allibiti e quasi
increduli di fronte a tanta crudeltà. Subito dopo un altro episodio ci fece
chiaramente in quali mani eravamo caduti. Una trentina di ufficiali e
soldati, non in grado di reggersi, che si trovavano ancora ricoverati in
un'isba, furono barbaramente trucidati e l'isba stessa data alle fiamme. I
mitra russi non dovevano però averli uccisi tutti perché non appena si
levarono le prime fiamme si udirono grida di disperazione che si
tramutarono in spasmodiche urla di dolore quando le fiamme stesse giunsero
a mordere questi poveri corpi già straziati dalle ferite. (da 'I più non
ritornano', pag.233)
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Soltanto nel 1977, dopo la pubblicazione
delle cifre dettagliate da parte dell'Ufficio Storico dello Stato Maggiore
ci fu possibile concretare in cinquanta-sessantamila il numero degli
italiani autosufficienti caduti in mano russa. Di essi ne rimpatriarono a
guerra finita 10.030. Per gli altri non ci rimangono che le stime fatte
dagli stessi prigionieri, secondo le quali il 40% circa dei catturati
dovrebbe essere morto di fame e sfinimento, oppure ucciso perché non
più in grado di camminare, durante le terribili marce del 'davai!' verso i luoghi
di radunata al di là del Don; dei sopravvissuti, pure un 40% circa (cioè il
25% del totale catturati) dovrebbe essere morto sui treni glaciali che a
piccola velocità li trasportavano verso i lager; infine un altro 40%,
sempre dei sopravvissuti (cioè il 15% dei catturati) dovrebbe essere morto
nei lager durante i primi quattro mesi di prigionia: ancora per stenti, ma
soprattutto per epidemie di tifo petecchiale. (da 'I più non ritornano',
pag.233-234)
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Ai caduti in combattimento si devono
poi aggiungere purtroppo i tanti, i troppi caduti in prigionia. Si
dimentica spesso difatti, volutamente o no, che nei campi di concentramento
sovietici oltre il 90 per cento dei prigionieri, di ogni nazionalità, perse
la vita per le disumane condizioni alle quali vennero tutti sottoposti.
(da 'Fronte russo : c'ero anch'io', volume 1, pag.151)
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A Valuiki assieme al mio generale
Battisti, senza munizioni davanti ai cosacchi russi. Siamo costretti: o
prigionieri o morire. Dopo alcuni giorni di peregrinare per vari paesi e
isbe, siamo arrivati a Rossosch, sempre a piedi. [...] Allora mi sono messo
io a caricare in spalla feriti e congelati, e caricarli sul treno. [...] Siamo
partiti di lì in 1300, dopo 15 giorni siamo arrivati a Talukow, siamo
rimasti vivi 370, gli altri tutti morti durante il viaggio. Dei 370 a
marzo, in settembre stesso anno siamo rimasti vivi 65. (da 'Fronte
russo : c'ero anch'io', volume 2, pag.526-527)
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Tenente medico Enrico Reginato,
medaglia d'oro al V.M. Battaglione Sciatori Monte Cervino, Corpo d'Armata
Alpino: 'Io non ero presente alla giornata e alla battaglia di Nikolajewka;
ero già, da tempo, in prigionia in mano dei russi. Ma appunto per ciò fui
testimone delle estreme conseguenze della ritirata degli alpini (e di tutta
l'armata italiana) in quell'inverno 1942-43, quando a conclusione della
ritirata stessa per molte decine di migliaia di italiani si apri
l'appendice e il periodo della prigionia russa. Sono stato testimone delle
sofferenze che prolungarono a innumerevoli alpini le sofferenze della
ritirata: gli innumerevoli e quasi sempre mortali patimenti di quanti fra
gli alpini non riuscirono a varcare il cancello di libertà di Nikolajewka.
Da allora penso che ritirata e prigionia costituirono un tutt'uno, la
completezza di un calvario cosi irto di dolori e cosi prolungato nel tempo
e nell'infinita varietà di patimenti da non consentire alla mente umana di
concepirlo. Io ho visto soffrire e morire, in modo inenarrabile, e ne do
qui inadeguata testimonianza, affinchè il ricordo appassionato almeno
permanga e sia di insegnamento al giorno d'oggi, e tutto sia fatto nel
campo della dignità e della tutela dell'uomo al fine di tenere lontana la
gioventù attuale dal ripetersi dei patimenti allora sofferti dagli alpini,
e da quanti ebbero la suprema sventura di cadere in una prigionia quale fu
quella che subimmo in mano dei russi. Abbiamo visto colonne di prigionieri
sospinti per giorni e settimane da urli, spari e percosse andar sempre più
assottigliandosi perché chi non si reggeva per la stanchezza veniva finito
con le armi. Abbiamo sentito levarsi invocazioni disperate 'dottore aiutami,
non ne posso più', ma anche i dottori non ne potevano più; si coprivano le
orecchie con le mani per non udire quelle voci e in quell'istante avrebbero
voluto morire per non sentire scaricare le armi sul caduto. Abbiamo visto
le strade segnate da cadaveri che genti e corvi profanavano: le prime per
recuperare le vesti, i secondi per sfamarsi. Abbiamo assistito a
spogliazioni di scarpe, di vesti, di oggetti di ogni genere, appartenenti a
uomini sfiniti che non potevano reagire di fronte alla violenza. Abbiamo
visto uomini disperati per fame tentare di eludere la sorveglianza per
cercare del cibo, e venir abbattuti come cani. Abbiamo visto esseri umani
abbnitirsi per l'infinita stanchezza, un'umanità degradata nella quale
pochi si sentivano ancora fratelli al vicino o sentivano ancora pietà per
il debole o il morente. Lo spirito di cameratismo che aveva legato, un
tempo, i combattenti tra loro, sembrava finito con l'abbandono delle armi.
Abbiamo visto entrare in campi di raccolta migliaia di uomini di molteplici
nazionalità e uscirne vive poche centinaia nel breve arco di tempo di 30
giorni e, in quei trenta giorni, il dolore toccare il vertice dell'inumano.
I ricoveri, esposti ai rigori del clima, erano gremiti fino
all'inverosimile di uomini doloranti: l'odore acre della cancrena
ristagnava ovunque; la fame distruggeva i corpi, la dissenteria completava
l'opera di disfacimento di esseri umani martoriati da fame e sete e da
parassiti che brulicavano nelle barbe incolte e sotto le vestì sudice e
lacere. Un buio tragico e ossessionante scendeva su questi orrori fin dalle
prime ore della sera, interrotto ogni tanto da torce agitate da figure
umane urlanti che prelevavano uomini per il lavoro; poi tornava un cupo
silenzio dì morte interrotto da grida di dolore, da gemiti, da invocazioni
pronunciate nelle più diverse lingue, da preghiere elevate al ciclo ad alta
voce da qualche cappellano. Abbiamo visto uomini diventare, per fame,
feroci come lupi. Alle prime distribuzioni di cibo, come colti da
improvvisa follia, spettri umani si levavano e si precipitavano urlando e
schiacciandosi, rovesciando a terra ogni cosa, buttandosi al suolo per
succhiare il fango impastato con il cibo sparso. Guardiani armati di
spranghe di ferro dovevano far scorta al pane per difenderlo dai branchi di
uomini in agguato che si avventavano per impossessarsene. Finalmente
vennero convogli ferroviari a caricare e portare altrove questo resto di
umanità carica di dolore e di parassiti: i convogli scaricavano i
superstiti in altri campi che li accoglievano per rigettarli in fosse
comuni; in essi li attendeva non la salvezza, ma il tifo, la tubercolosi,
la difterite, la pellagra e ogni altro male. I lazzaretti (cosi venivano
chiamati i luoghi dove si moriva], erano uno spettacolo drammatico e straziante;
corpi discesi su pancacci di legno o sulla nuda terra si sfasciavano per
morbi sconosciuti. La morte passava come un'ombra senza requie: ogni giorno
volti nuovi, nuove sofferenze; cervelli sconvolti dalla pazzia, deliri,
dissenterie, arti deformati dagli edemi, ferite corrose dalla cancrena. I
medici e i sanitari si trascinavano fra quegli infelici fintante che il
male portasse via anche loro. Ricorderò per sempre che un giorno, in un
campo di concentramento, durante l'infuriare di una epidemia che giorno e
notte mieteva innumerevoli vite umane, mi si avvicinò un giovane ufficiale
medico austriaco, che parlava correntemente l'italiano. Egli mi espresse il
desiderio di uscire dalla zona non infetta del campo per assistere gli
ammalati, quasi tutti italiani. Lo sconsigliai per il grande pericolo al
quale si esponeva; ma insistette con queste parole: 'Collega, la prego, io
non voglio perdere questa grande occasione di essere medico e cristiano'.
Profuse generosamente la sua arte e le sue energie per i contagiati;
contagiato lui stesso, non trovò più in sé la forza di vincere il male che
con parole semplici e grandi si era prefisso di combattere. Si spense con
la serena dolcezza di chi è consapevole di non aver perduto né di fronte a
Dio né di fronte agli uomini la grande occasione. Era difficile fare il
medico, in quelle circostanze. I medicinali scarseggiavano, le poche fiale
di analettici, per lo pili canfora, dovevano essere utilizzate solo nei
casi estremi. Bisognava dosare tutti i farmaci con assoluta parsimonia,
valutare lo stato di gravita di ciascun malato, decidere chi doveva avere
la precedenza, stabilire una inutile graduatoria e talvolta si trattava di
scegliere tra un paziente che invocava il medico nella sua stessa lingua e
un altro sconosciuto figlio di Dio. I superstiti di tutti questi mali,
uscirono dai lazzaretti con passi incerti e vacillanti. Quelli che alcuni
mesi prima erano soldati pieni di vitalità e comandanti autorevoli,
apparivano scheletri tenuti assieme da pelle ruvida e squamosa. Le
fisionomie erano irriconoscibili; i capelli aridi, incanutiti; gli occhi
immersi nelle occhiaie profonde; la cute del viso raggrinzita in minime
rughe, il sorriso una smorfia che lentamente si ricomponeva; i denti
vacillanti su gengive brune e sanguinanti, le unghie delle mani e dei piedi
segnate da un solco trasversale che pareva segnasse l'inizio della
sofferenza. Molti avevano perduto fino al 40-50% del loro peso; attoniti,
assenti, dovevano pensare a lungo prima di ricordare il loro nome; sembravano
esseri spettrali usciti da un mondo irreale, insofferenti ed indifferenti a
tutto che non fosse la distribuzione del cibo. I mesi, gli anni di
detenzione, non furono che tappe di un lungo calvario di rovina e di morte.
Morte per esaurimento fisico, per interminabili marce, per i colpi spieiati
degli uomini di scorta, per epidemie incontrollabili, per inanizione. I
superstiti, smarriti dal crollo repentino di ogni illusione, tormentati
dalla fame, dalla miseria, dalla paura, rimasero, costretti ai più duri
lavori, per anni in balia del nemico, il quale, con abilità e perseveranza,
cercò di catturarne anche l'anima ed imporre la propria ideologia. I
detentori che avevano i corpi di quei vinti volevano il trofeo delle loro
anime per vincerli due volte usando l'arma della propaganda e del ricatto:
'tu devi cambiare opinione altrimenti non rivedrai né la patria né la
madre, né la sposa e i figli'. Questo fu l'infame ricatto: cedere dignità,
coscienza e fede in cambio di ciò cui i prigionieri avevano diritto senza
concessioni e senza compromessi. Finalmente, un giorno arrivò un ordine nei
campi: i prigionieri non dovevano più morire; i medici dovevano attenersi
ad esso sotto minaccia di gravi punizioni. Che cosa significava questa
nuova disposizione? Invero la morte non si lascia impartire comandi.
L'ordine voleva dire semplicemente che le restrizioni che determinavano la
morte dei prigionieri dovevano cessare. Venne, allora, concesso un
miglioramento di vitto, modesto ma pure essenziale; vennero presi provvedimenti
che crearono condizioni possibili di vita, la lotta contro i parassiti si
fece efficace, i medici trovarono meno arduo il loro lavoro disponendo di
una quantità maggiore di mezzi, in ambienti più igienici ed adeguati. Ciò
bastò per notare nei prigionieri una lenta ripresa delle forze, un
miglioramento progressivo dei rapporti sociali, un ritrovamento di dignità
e coscienza, un albeggiare di nuove speranze. Si riallacciarono vecchie
amicizie, si riprese man mano a pensare, a parlare, a pregare, a confidarsi,
a sperare, a credere nella salvezza. Ma ciò fu raggiunto quando già da
tempo le fiamme della guerra si erano spente e nel resto del mondo
iniziava, con la pace, una lenta resurrezione'. (da 'Nikolajewka : c'ero
anch'io', pag.650-653)
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Chi rimase indietro o, meglio, chi
sopravvisse alla cattura (poiché, fin troppo spesso, chi cadeva nelle mani
dell'Armata Rossa veniva ucciso con un colpo nuca: centinaia e centinaia di
soldati italiani, che pure sarebbero stati in grado di procedere verso i
campi di raccolta, finirono cosi e con loro, a maggior ragione i feriti
intrasportabili e i congelati), chi sopravvisse alla cattura dunque (e gli
italiani avevano maggiori probabilità di riuscirvi dei tedeschi), veniva
costretto ad estenuanti marce forzate che duravano anche settimane. Durante
queste marce i prigionieri morivano come mosche, falcidiati dalla fatica,
dalla fame, dal freddo o dalle guardie, che uccidevano tutti loro che si
accasciavano spossati. Quando poi i superstiti riuscivano a raggiungere
i campi di raccolta, rischiavano in questi la morte per sete o per fame:
quasi sempre solo il cannibalismo a danno dei defunti permise loro superare
quello spaventoso periodo. Solo con il maggio del 1943 la situazione dei
superstiti prigionieri italiani (meno di 11.000 sui circa 60.000 catturati
dopo la battaglia del Don) potè dirsi migliorata. (da 'In nome della
resa', pag.251)
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ITALIANI NEI CAMPI ANGLOAMERICANI.
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Il fatto é che il campo R era
considerato dagli inglesi il loro campo modello: quello cioè da mostrare
alle commissioni della Croce Rossa che, di tanto in tanto, venivano a
visitarlo riportando, ovviamente, un'ottima impressione nel vederci così
bene organizzati, nutriti, lavati, anche profumati per via delle buone
saponette che ci venivano distribuite. Il campo R, in altre parole,
costituiva l'alibi grazie al quale inglesi e americani coprivano tutte le
mascalzonate alle quali si abbandonavano invece negli altri campi di
concentramento: Coltano, Afragola, Scadicci, Taranto, Laterina, Aversa e
così via, autentici inferni neri, come vennero denominati, dove i
prigionieri fascisti, ammassati come bestie, privi del necessario, sotto
nutriti, costituivano spesso e volentieri il bersaglio preferito delle
sentinelle ubriache che si alternavano sulle torrette. (da 'La
generazione che non si é arresa', pag.237-238)
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GIAPPONESI NEI CAMPI ANGLOAMERICANI.
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Fin dal 10 agosto 1936, Roosevelt
aveva emesso un ordine in cui dichiarava: 'Tutti i cittadini giapponesi,
che siano residenti sull'isola di Oahu o meno, che si recano all'arrivo di
navi giapponesi o che abbiano rapporti con i loro ufficiali o i loro uomini,
devono essere segretamente ma precisamente identificati, e il loro nome
deve essere posto in una speciale lista di quelli che per primi saranno
rinchiusi in campi di concentramento nel caso di problemi con il Giappone'.
(da 'Il giorno dell'inganno', pag.107)
ControStoria
1998-2008 - Ultimo aggiornamento
9 Marzo 2008
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