martedì 28 aprile 2015

28 aprile 1945: ASSASSINARONO BENITO MUSSOLINI


Il 28 aprile 1945, tra le 9 e le 10 del mattino, contrariamente a quanto asserisce una falsa "vulgata" storica, a cui oramai non crede più nessuno, Benito Mussolini, dopo essere stato ferito con un colpo di pistola al fianco, nella stanza dove, inerme prigioniero, era rinchiuso, venne trascinato in canottiera mezze maniche nel cortile della casa dei contadini De Maria in quel di Bonzanigo (Tremezzina), ed ivi ammazzato come un cane con circa altri otto colpi di armi da fuoco.
Si compiva così l'invito di quei giorni di Sandro Pertini di «ammazzarlo come un cane tignoso». Il "compagno socialista" Pertini: ne riparleremo.

L'assassinio
Su questa sporca vicenda dell'assassinio di Mussolini, rimandiamo a tanti nostri articoli pubblicati su "Rinascita" ed esposti anche nel relativo Sito del giornale, ma anche in quello della FNCRSI (http://fncrsi.altervista.org/, sezione Notiziario) o meglio ancora in una nostra lunga intervista sul mistero della morte di Mussolini, concessa al "Corriere dei Caraibi": (http://www.corrierecaraibi.com/FIRME_MBarozzi_120611_Mistero-della-morte-di-Mussolini.htm). Anche la rivista Storia in Rete, uscirà in edicola, tra qualche giorno, con un ottimo "speciale" sulle ultime ore di Mussolini-
Qui possiamo solo dare un cenno, indicando che la verità più credibile sulla morte di Mussolini risulta dalla testimonianza della signora Dorina Mazzola, al tempo abitante a meno di 150 metri da quella casa, una testimonianza che, a differenza di tante altre versioni, strampalate e indimostrate, trova molti riscontri in alcuni rilievi di ordine tanatologico, balistico e del vestiario indosso al cadavere, nonchè è indirettamente confermata dall'incrocio di varie testimonianze tra cui un racconto di Savina Santi, la vedova di Guglielmo Cantoni (Sandrino), uno dei due partigiani che erano stati di guardia a Mussolini e la Petacci nascosti in quella casa.
Disse la signora Santi, a Giorgio Pisanò, che il marito gli aveva riferito:
«Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c'erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No, vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d'arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza...».
(Cfr.: G. Pisanò: "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini", il Saggiatore 1996).
Oggi, con le strumentazioni moderne abbiamo avuto la certezza, analizzando la foto del cadavere in terra a Piazzale Loreto, che quel giaccone o pastrano indosso al cadavere del Duce è totalmente privo di fori o strappi che invece avrebbero dovuto esserci se fosse stato attinto da colpi di arma da fuoco. Ergo, Mussolini venne ucciso con altro abbigliamento, in altro orario e luogo e quindi buttato cadavere ai piedi del cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Una prova oggettiva e irrefutabile.
Nel momento di essere ucciso l'ex Duce probabilmente gridò in faccia ai suoi assassini «Viva l'Italia» come fu, con doloroso e reticente parto, riferito nell'ottobre del 1990 dopo 45 anni di omertà e menzogne, da quel Michele Moretti (Pietro) il partigiano comunista presente ai fatti (Cfr.: Giorgio Cavalleri: "Ombre sul lago" Ed. Piemme 1995).
Il Moretti, pur ribadendo la solita versione comunista di Walter Audisio (la "vulgata" come la definì Renzo De Felice) oramai pienamente sconfessata, così riferì al giornalista, scrittore e amico Cavalleri, quei momenti:
«...Mussolini non apparve troppo sorpreso e, quando ebbe l'arma puntata contro di sé, gridò con foga: "Viva l'Italia!"».
E a domanda del giornalista aggiunse: «Mi ha disturbato il "Viva l'Italia!" del duce?
No, Perchè, si riferiva alla sua Italia, non alla mia...».
E quel grido si accorda con tutta la vita umana e politica di Mussolini, un rivoluzionario, un politico, un giornalista ed uno statista, che aveva speso tutta la sua gestione del potere ai fini della grandezza dell'Italia, senza perdere mai di vista, inoltre, il popolo e il suo intento di affermare una società socialista che infine riuscì a realizzare con la RSI, quando tre malefiche forze (Confindustria, Casa Savoia e Vaticano), espressione di immondi interessi, si trovarono, dopo l'8 settembre 1943, per la prima volta nella storia del nostro paese, fuori gioco e non poterono interferire.


Nell'interesse del popolo italiano
Si possono elevare ogni genere di accuse, si può non condividere il suo operato di governo, si può dire che la sua fu una politica errata e deleteria, ma si deve ammettere che Mussolini indirizzò ogni sforzo a fare dell'Italia una piccola, ma importante potenza in Europa, avendo sempre in primo piano il benessere del popolo.
Non è esagerato affermare (basterebbe guardare i filmati Luce dell'epoca, sulle grandi opere allora in essere, un compendio di capolavori che per numero, velocità di esecuzione e qualità superarono ogni precedente storico) che senza il ventennio di Mussolini, l'Italia sarebbe probabilmente rimasta come uno di quei paesi estremamente arretrati del sud Europa e dei Balcani.
E basterebbe dare una sbirciatina alle riforme sociali, di cui la più rivoluzionaria di tutte, quella sulla socializzazione delle aziende, emessa in piene vicende belliche, per rendersi conto che dal 1922 al 1945 agì nel nostro paese una volontà riformatrice e rivoluzionaria, a volte palese, a volte nascosta, a volte annacquata e distorta, spesso contraddittoria, ma sempre presente, nel pensiero, nella prassi e negli atti di governo di Mussolini.
Una volontà che venne stroncata con la guerra dalla criminale aggressione all'Europa da parte delle democrazie plutocratiche.
È indubbio che l'azione di governo di Mussolini è stata quella di un dirigismo statale (così come normalmente dovrebbe essere) per il quale vige l'assunto che nello Stato e per gli interessi dello Stato devono prevalere gli aspetti etici e politici su quelli economici e finanziari. Un principio ed una costante questa che la massoneria non gli perdonò mai e gli costò nel 1924 la vendetta delle cosche massoniche e di un "putrido ambiente politico-affaristico di capitalismo e finanza corrotta" (così come ebbe a definirlo lo stesso Mussolini), che per defenestrarlo gli gettarono ai piedi il cadavere di Matteotti e venti anni dopo lo portò dritto a Piazzale Loreto.


La geopolitica di Mussolini
Le contraddizioni apparenti, i tentennamenti e i sotterfugi che si riscontrano nei suoi rapporti internazionali, derivano semplicemente dal fatto che Mussolini era ben coscio che lo sviluppo, la grandezza e l'indipendenza della Nazione, purtroppo una nazione estremamente povera di materie prime ed economicamente e militarmente debole, potevano essere garantite solo a patto che in Europa, una delle due grandi forze antagoniste, quella della Gran Bretagna e quella della Germania, non prevalesse definitivamente sull'altra e quindi non dominasse il continente e neppure che si accordassero tra loro. Destreggiarsi in questo contesto, essendo al contempo consci che il vero nemico del fascismo e dell'Italia era la grande plutocrazia internazionale e la geopolitica britannica nel Mediterraneo, non era certo facile.
Gli inglesi, soprattutto, dopo l'apertura del canale di Suez a metà '800, e le successive necessità di controllare le rotte del petrolio, puntarono forte sul controllo del nostro paese, una portaerei naturale nel Mediterraneo, un grande mare che consideravano come un loro lago privato. Fu questo, per esempio, il principale motivo per il quale i britannici, attraverso la Massoneria e Casa Savoia, decisero di sostenere il Risorgimento.
La geopolitica di Mussolini quindi, da Locarno, a Stresa, a Monaco e fin nella "non belligeranza", nonchè nella conduzione di una "guerra parallela" con la Germania, fu sempre incentrata su questi presupposti.
Era una geopolitica sostanzialmente antibritannica, per il fatto che gli inglesi avevano i loro interessi in contrasto con i nostri nel Mediterraneo ed in Africa, e se ricostruita a posteriori e in più ampia prospettiva, possiamo dire che era una geopolitica Euro Asiatica, diversa da quella di Hilter, che era Euro Atlantica.
Ma questa geopolitica, allo stesso tempo peninsulare e insulare, doveva anche fare i conti con i tedeschi nel continente i quali, dopo il 1938 erano praticamente arrivati al Brennero.
Ed è così che, nel contingente, si ebbero non pochi nostri atteggiamenti ambigui, come ad esempio la febbrile costruzione del Vallo Littorio nel Nord Est di chiara intonazione antitedesca, ed una politica che nel mentre esaltava l'Asse Roma-Berlino, per altri versi si sottraeva a impegni più vincolanti con la Germania.
Il fatto è che le leggi della geopolitica non sempre seguono le ideologie e gli ideali di partito, come del resto avveniva nella prassi politica e militare di Hitler, dove il nazionalsocialismo era inteso soprattutto conforme agli interessi della Germania e del popolo tedesco. Non poche infatti sono le affermazioni importanti di Hitler ed altri esponenti tedeschi che indicavano chiaramente che il loro interesse primario era un grande accordo con i Britannici, che di fatto sarebbe andato contro i nostri interessi.
Oggi, a posteriori, gli intellettuali possono anche considerare quegli eventi da un punto di vista superiore, comprendendoli in un quadro ideologico nel quale troviamo analogie tra il fascismo e il nazionalsocialismo, anzi anche in un quadro metastorico dove troviamo la presenza nelle due ideologie e nella stessa guerra del sangue contro l'oro da esse intrapresa, un aspetto ricorrente della "Tradizione", ma la politica contingente, internazionale è tutta altra cosa.
Insomma l'operato di Mussolini fu sempre ed esclusivamente dettato dalla massima degli antichi romani per la quale: "la salvezza della Patria è la legge suprema".

Mussolini rivoluzionario
Come detto Mussolini fu certamente un "rivoluzionario" ed in effetti egli giunse ad una determinata ed originale visione dello Stato, della politica e della società attraverso le sue passate esperienze umane e politiche che lo portarono a superare il socialismo marxista internazionalista nel più naturale e praticabile "socialismo da realizzare nella nazione", non disgiunto dai valori del combattentismo interventista (aristocrazia delle trincee) e quindi arrivò, attraverso un costante e spregiudicato pragmatismo e il sincretismo di tanti altri valori, al fascismo.
Osservando oggi il nulla, rappresentato da tutto l'antifascismo, comunismo compreso, imploso e dissoltosi miseramente, un antifascismo come fallimento degli immortali principi, che oramai vive solo di "antifascismo viscerale", si riscontra come il fascismo aveva surclassato questo antifascismo in tutti i campi, compreso quello del consenso di massa e della giustizia sociale.
Da rivoluzionario Mussolini seppe controllare vittoriosamente il processo politico e insurrezionale che dalla costituzione dei Fasci di Combattimento nel 1919, lo portò al potere. Giocoforza dovette passare da un programma iniziale di chiara prospettiva di sinistra, che però risultò perdente alle elezioni del 1919, ad un graduale allineamento su posizioni idealistiche di carattere anche conservatore. Era quella una strada obbligata, visto che il fascismo cresceva anche negli scontri di piazza contro i "rossi" e il loro violento e velleitario tentativo di ripetere in Italia la rivoluzione bolscevica. Queste tensioni avvicinavano inevitabilmente al fascismo molte componenti delle classe medie e giovani idealisti.
Salito al potere dopo la marcia su Roma si rese però conto che poteva restare prigioniero delle forze reazionarie che lo avevano aiutato nell'ascesa. Il suo desiderio era quello di formare un governo socialmente avanzato, aperto ai popolari (con il Vaticano che gli aveva tolto di mezzo il pretaccio antifascista Don Sturzo), ai socialisti moderati, e all'ala moderata della CGL nella quale contava vecchi amici.
Disse, più o meno, al socialista Carlo Silvestri, che bisognava sbrigarsi ad ottenere l'accordo con i socialisti e i Confederati, perché altrimenti non avrebbe più potuto controllare le frange reazionarie del partito, i Ras e lo squadrismo, in particolare quello Toscano, armato e legato agli agrari. Gli disse anche che se non fosse riuscito a domare il fascismo, avrebbe preferito strozzare la sua creatura con le sue stesse mani.
Nel 1922 non riuscì in questo intento, poi dopo aver penato per ottenere un patto di pacificazione che mettesse fine alle violenze e al sangue della guerra civile, ci riprovò nel 1924. E questa volta il suo intento di una "apertura a sinistra" lo stroncarono definitivamente, buttandogli tra i piedi il cadavere di Matteotti.
Quello di Matteotti fu un delitto massonico affaristico (tutti quelli che vi risultavano implicati, anche se fascisti, avevano la tessera della massoneria), sostanzialmente contro Mussolini, come hanno sempre riconosciuto i figli del parlamentare socialista assassinato, che doveva adempiere a tre scopi:
1. Impedire a Matteotti di produrre documentazioni su grossi scandali, in particolare quello sul petrolio che chiamava in causa anche il Re Vittorio Emanuele III.
2. Stroncare definitivamente ogni tentativo di Mussolini di aprire ai socialisti e quindi
3.liquidarlo da Capo del governo, non più tollerato per il suo dirigismo politico che intralciava i traffici massonico - affaristici (Banca Commerciale compresa).
Non possiamo qui riassumere la vicenda Matteotti e quindi rimandiamo a un nostro articolo: (M. Barozzi: Il delitto Matteotti) pubblicato su "Rinascita", nel sito del "Correre dei Caraibi" e in quello della "FNCRSI"
Per le conseguenze del delitto Matteotti, Mussolini suo malgrado fu costretto a scivolare nella dittatura.
Fu un guaio perché i dittatori devono saper spargere il sangue e Mussolini ne era incapace. Ed infatti da allora cercò di governare essenzialmente con l'uso della sua arte politica, attraverso accordi, ammiccamenti, ricatti, pressioni, che gli garantirono un certo consenso, ma che poi, alla prova della guerra, si squagliarono come neve al sole.
Purtroppo dovette fare i conti con il materiale umano che questo paese gli metteva a disposizione e spesso a chi gli rimproverava la mancanza di un più energico intervento rivoluzionario, una cosiddetta "seconda ondata", rispondeva che «con il fango non si fanno le rivoluzioni», ma non usava la parola fango.
Il ventennio fascista, che oltretutto era una diarchia con la Monarchia, costrinse Mussolini a privilegiare ogni necessario programma per la crescita della nazione, sacrificando altri aspetti ideali. Il ventennio quindi fu un periodo dove la nazione venne inquadrata su posizioni conservatrici, di ordine e disciplina.
Ma c'è da dire che Mussolini volle e riuscì nonostante questi aspetti di "destra", per lui innaturali, a varare Leggi sociali e provvedimenti all'avanguardia per l'epoca e di enorme portata sociale che uniti alle Grandi Opere pubbliche, ne beneficiarono il popolo e le classi lavoratrici.
La vera svolta rivoluzionaria e socialista, il compimento anche ideologico del fascismo, avrebbe dovuto attendere, ma non mancò di arrivare, anche se in piena guerra, con la Repubblica Sociale Italiana.

La guerra
Subito una premessa: quando si parla di Seconda guerra mondiale, bisogna sempre tenere presente che venne preparata, perfidamente innescata e scatenata dalle grandi democrazie occidentali, ovvero dall'Alta Finanza internazionale dietro un preciso progetto di dominio mondiale, un progetto che, inceppatosi dopo la prima guerra mondiale, passava preliminarmente, sulla liquidazione dei fascismi in Europa.
In ogni caso se c'è un uomo a cui tutto può addebitarsi, tranne che la responsabilità della guerra, questi è Mussolini che fu letteralmente costretto ad entrare in un conflitto che non voleva, che paventava e che aveva fatto di tutto pe evitare. Non perché avverso alla guerra in sé, sapeva bene Mussolini come la guerra è spesso necessaria, ma perché era perfettamente conscio che l'Italia non era in grado di parteciparvi.
A malincuore, a guerra oramai accesa, aveva dovuto optare per la umiliante formula della "non belligeranza", posizione fruttifera in termini di guadagni senza rischi, ma pericolosa in quel contesto storico. Ma non c'era altro da fare.
Quando però a maggio del 1940 la Francia cadde così precipitosamente e la guerra sembrava possibile che si chiudesse con la vittoria della Germania, Mussolini, con i tedeschi oramai arrivati al Tirreno e in prospettiva di una definizione della guerra tra la Germania vittoriosa e l'Inghilterra, la cui definizione ci avrebbe tagliato fuori dai nostri interessi mediterranei, nei Balcani e in Africa, dovette giocoforza scendere in campo.
Così Mussolini aveva riassunto la nostra situazione a Giuseppe Bottai:
«Qui ci sono due imperi in lotta, due leoni. Non abbiamo interesse che stravinca nessuno dei due. Se vincesse l'Inghilterra, non ci lascerebbe che il mare per fare i bagni. Se vincesse la Germania, ne sentiremmo il peso. Si può desiderare che i due leoni si sbranino, fino a lasciare a terra le code, e caso mai, andare a raccoglierle».
Dopo il vertice al Brennero con Hitler, di metà marzo 1940, quando la guerra ancora non aveva investito lo scacchiere occidentale, Mussolini con un riservato "Memoriale panoramico al Re" del 31 marzo 1940, analizzo lucidamente la situazione:
«Se si avverrà la più improbabile delle eventualità, cioè una pace negoziata nei prossimi mesi, l'Italia potrà, malgrado la sua non belligeranza, avere voce in capitolo e non essere esclusa dalle negoziazioni: ma se la guerra continua credere che l'Italia possa rimanere estranea fino alla fine. È assurdo e impossibile. L'Italia non è accantonata in un angolo di Europa come la Spagna, non è semiasiatica come la Russia, non è lontana dai teatri di operazione come il Giappone o gli Stati Uniti; l'Italia è in mezzo ai belligeranti, tanto in terra, quanto in mare. Anche se l'Italia cambiasse atteggiamento e passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra immediata con la Germania, guerra che l'Italia dovrebbe sostenere da sola. È solo l'alleanza con la Germania, cioè con uno Stato che non ha ancora bisogno del nostro concorso militare e si contenta dei nostri aiuti economici e della nostra solidarietà morale, che ci permette il nostro attuale stato di non belligeranza... L'Italia non può rimanere neutrale per tutta la guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di un Svizzera moltiplicata per dieci. Il problema non è quindi sapere se l'Italia entrerà in guerra o non entrerà in guerra, perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra. Si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra: a) per prepararci in modo tale che il nostro intervento determini la decisione; b) perché l'Italia non può fare una guerra lunga, non può cioè spendere centinaia di miliardi, come sono costretti a fare i paesi attualmente belligeranti».
Quindi Mussolini affermava che, escluso un nostro voltafaccia dell'alleanza con i tedeschi, non ci rimaneva che la possibilità di una "guerra parallela" con la Germania ed in funzione dei nostri interessi che si potevano riassumere in questi obiettivi:
«Libertà sui mari, finestra sull'oceano, L'Italia non sarà mai una nazione indipendente sino a quando avrà a sbarre della sua prigione mediterranea la Corsica, Biserta, Malta e, a mura della stessa prigione, Gibilterra e Suez. Risolto il problema della frontiere terrestri, se l'Italia vuole essere una Potenza veramente mondiale deve risolvere il problema delle sue frontiere marittime: la stessa sicurezza dell'Impero è legata alla soluzione di questo problema».
Il 29 maggio 1940, all'indomani della resa del Belgio e con i franco-inglesi in totale rotta, Mussolini ottenne su delega del Re il comando delle forze armate. Si investiva quindi di un comando più che altro "formale", di grande prestigio se le cose fossero andate bene, ma la conduzione strategica ed operativa della guerra, con tutte le sue deficienze (e tradimenti) era di fatto nelle mani di Pietro Badoglio Capo di Stato Maggiore Generale, essere spregevole, avido e legato alla massoneria.
Molti si sono chiesti come abbia potuto Mussolini puntare su Badoglio di cui pur conosceva i suoi intrallazzi e le sue responsabilità ai tempi di Caporetto.
La risposta non è difficile, conoscendo Mussolini. Intanto il Duce non era un esperto di armamenti e di strategie militari, difetto questo, come disse una volta Hitler, che consentiva ai suoi generali di ingannarlo facilmente. Quindi Mussolini partì dalla valutazione errata che in quel poco di buona che passava il materiale umano delle nostre FF.AA., Badoglio, che invece era un incapace, gli potesse mettere in piedi un esercito moderno. Si sbagliava. Conosceva Badoglio e sapendo quanto era avido lo lasciò "ingozzarsi" oltre ogni limite, ritenendo in questo modo di averlo disponibile. Non tenne però conto che Badoglio era intimamente antifascista, era sotto botta massonica e quindi si ritrovò una serpe incontrollabile in seno.
Il 29 maggio 1940 a Badoglio e agli altri generali responsabili delle imminenti operazioni belliche (capi di stato Maggiore della Marina Domenico Cavagnari, dell'Aeronautica Francesco Pricolo e dell'Esercito Rodolfo Graziani), Mussolini disse che inizialmente aveva previsto l'ingresso in campo dell'Italia all'incirca per la primavera del 1941, ma poi l'incalzare delle vicende belliche aveva travolto ogni previsione. Infatti i tedeschi avevano in poco tempo vinto in Norvegia e Danimarca (aprile 1940) e Mussolini fu costretto ad anticipare il progettato intervento per il settembre di quello stesso anno, ma adesso:
«La situazione attuale non permette ulteriori indugi, perché altrimenti noi corriamo dei pericoli maggiori di quelli che avrebbero potuto essere provocati con un intervento prematuro... D'altra parte se tardassimo due settimane o un mese, non miglioreremmo la nostra situazione, mentre potremmo dare alla Germania l'impressione di arrivare a cose fatte, quando il rischio è minimo...».
Era questa la famosa riunione, tenuta nella stanza del Duce, in cui si decise ufficialmente la nostra entrata in guerra. Il resoconto stenografico ci informa anche che non ci furono assolutamente obiezioni di sorta da parte dei generali presenti!
Chi, ancora oggi, di fronte all'evidenza dei fatti, accusa Mussolini di megalomania e avventatezza, dovrebbe invece riflettere che le decisioni di Mussolini furono tutte ponderate, soppesate e impostate sull'eccesso di prudenza, addirittura a scapito della stessa opinione pubblica della nazione, nella quale, come rivelò un rapporto riservato dell'OVRA, nella primavera del 1940, "opinione pubblica e classi dirigenti, comprese quelle tendenzialmente anglofile, di fronte ai successi tedeschi, avevano tutti il timore di "arrivare tardi", a cose fatte, di perdere prestigio e posizioni" (e ovviamente affari e interessi).
Anche Vittorio Emanuele III confidava al suo aiutante di campo, generale Puntoni, che «Il più delle volte gli assenti hanno torto» e non lesinava neppure qualche battuta sul troppo esitanteMussolini.
Solo Mussolini, invece, di fronte ai fenomenali successi dei tedeschi e nonostante l'intensificarsi delle provocazioni britanniche ai nostri danni (soprattutto il gravissimo fermo delle navi carbonifere), pur con la pressione "guerrafondaia" montante nel paese, cercava di rimanere il più razionale possibile.
Eppure a causa del blocco navale inglese il presidente della Montecatini Guido Donegani era corso a Roma a sottolineare come la sospensione dei rifornimenti di carbone stava per causare l'arresto dell'industria determinando la catastrofe nella produzione e serie conseguenze sociali.
«Tra poco i cannoni spareranno da soli» inveì Mussolini, ed aggiunse costernato: «non è possibile che io, proprio io, sia diventato il ludibrio dell'Europa. Non faccio che subire umiliazioni».
Quando poi i travolgenti successi tedeschi stavano ubriacando tutti gli italiani e la Germania ci era anche venuta incontro sopperendo alla carenza delle forniture di carbone provocata dal blocco inglese, il Duce così, significativamente, confidò a suo figlio Vittorio:
«Adesso tutti desiderano sparare il primo colpo di fucile. Il Re, lo Stato Maggiore, i gerarchi. Per quanto paradossale sembri, l'unico pacifista sono rimasto io, io solo!».
Il 30 maggio, infine, Mussolini comunicava a Hitler la decisione di entrare in guerra indicando il giorno 5 giungo 1940 che fu poi, per richiesta tedesca, spostato al 10.
Se quindi appunto può essere fatto a Mussolini è una critica opposta, cioè quella di non aver operato con ferma decisione, con un repulisti di potenziali traditori, di non aver rinunciato ad ogni pur guardinga riserva verso i tedeschi e scatenare immediatamente le nostre poche forze per il colpo risolutivo della guerra. Ed invece tutte le contraddizioni, tutti i pesi, tutti i traditori che si portò dietro ritenendo di domarli o controllarli, a cominciare da Badoglio e di cui, pur non stimandoli, non arrivava mai a pensare che potessero tradire la Patria, gli precipitarono addosso il 25 luglio 1943 e gettarono le premesse per il tradimento totale della Patria l'8 settembre.
Ma chiediamoci: gli era possibile a Mussolini procedere risolutamente in questo senso essendo a capo di una nazione "riottosa" a certe scelte impegnative anche perché, erede del Risorgimento massonico, un paese che contava una industria, una finanza e buona parte di una cultura (tranne quella cattolica, per altro avversa in altro senso) in sintonia con gli anglo francesi e si aggiungano poi gli interessi non certo "italiani" di Casa Savoia e del Vaticano?
Purtroppo le conseguenze di questa complessa e precaria situazione si palesarono quasi subito, già dall'autunno del 1940, a pochi mesi dal nostro intervento, quando Mussolini, dopo i primi rovesci dell'esercito italiano, si trovò praticamente solo, a difendere gli interessi della nazione.
Basta leggere quanto poi egli ebbe a dire ad Hitler nel corso di un loro incontro presso la "Tana del Lupo", nell'agosto del 1941 nel pieno dell'offensiva contro la Russia.
In quell'occasione il Duce confidò al Führer che ne rimase sconvolto:
 «Mi dica cosa farebbe lei se avesse degli ufficiali che hanno dei dubbi sul regime e sulle sue ideologie... e che dicono, mentre lei parla della sua ideologia o della ragion di Stato, che loro sono monarchici e che devono lealtà solo al Re?».

Il capolavoro della RSI
Nel 1943, dopo lo sfacelo e l'ignominia dell'8 settembre, Mussolini sacrificò letteralmente la sua persona al fine di evitare che la vendetta tedesca sul nostro paese non assumesse le proporzioni che era facile prevedere, ma non fu solo questo il motivo della sua ultima discesa in campo: egli infatti, come accennato, volle realizzare la Repubblica Sociale Italiana con i suoi 18 punti del manifesto di Verona, che rappresentò, oltre che un grande evento rivoluzionario e sociale, anche una rottura totale e definitiva con quella caricatura di fascismo che fu il ventennio il cui spirito conservatore poi, purtroppo, nel dopoguerra si rincarnò nello pseudo neofascismo del MSI.
Per avere una idea della portata rivoluzionaria e socialista della RSI, alla quale partecipò non a caso Nicola Bombacci, già comunista, basti pensare che vennero socializzate le Imprese, facendo entrare il lavoro nella gestione delle Aziende e nella ripartizione degli utili, riformato il mercato immobiliare, con il fine di dare le case al popolo, quello dei settori alimentari e del vestiario, nei generi di prima necessità, al fine di sottrarli alle speculazioni del privato, venne commissariata la Banca d'Italia, si studiò una riforma del mercato borsistico, ed altro ancora.
Il 15 marzo 1945 in piazza De Ferrari a Genova, davanti a trentamila lavoratori, Nicola Bombacci illustrava la edificazione di una società socialista da parte di Mussolini, disse:
«Compagni! Guardatemi in faccia, compagni! Voi ora vi chiederete se io sia lo stesso agitatore socialista, il fondatore del Partito comunista, l'amico di Lenin che sono stato un tempo. Sissignori, sono sempre lo stesso! Io non ho mai rinnegato gli ideali per i quali ho lottato e per i quali lotterò sempre…»
Ed aggiunse: «Ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzionecredevo che il bolscevismo fosse all'avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi sono accorto dell'inganno… Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini che è socialista anche se per vent'anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi lo ha tradito… ma ora Mussolini si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi lavoratori per creare il nuovo Stato proletario…».
Pragmatico e realista com'era Mussolini, perfettamente conscio che la guerra era perduta e che il fascismo sarebbe stato spazzato via dalla nazione, volle perseguire un ultimo tentativo disperato, nell'interesse del popolo italiano e conforme alla sua visione di fascista repubblicano e socialista: intendeva lasciare le audaci riforme socialiste e repubblicane della RSI ai socialisti e ai repubblicani, in modo che nel dopoguerra, quelle riforme, pur senza il fascismo, forse sarebbero rimaste in vigore salvandosi dalle imposizioni degli angloamericani e dalla ingordigia degli industriali.
Vediamo questa pagina di Storia poco conosciuta.
Il 22 aprile 1945 il Duce ricevette il socialista Carlo Silvestri. In quella occasione egli formalizzò una serie di appunti che consegnò al Silvestri pregandolo di inoltrarli alle forze moderate e socialiste della Resistenza. Racconto poi Silvestri della consegna ricevuta:
«Compagni socialisti. Benito Mussolini mi ha chiamato e mi ha dettato questa dichiarazione che mi ha autorizzato a ripetervi. Poichè la successione è aperta in conseguenza all'invasione anglo americana, Mussolini desidera consegnare la Repubblica Sociale Italiana ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi. Della sua persona non fa questione. Come contropartita chiede che l'esodo dei fascisti possa svolgersi tranquillamente. Nel proporre questa trasmissione dei poteri, egli si rivolge al partito Socialista, ma sarebbe lieto se l'idea fosse considerata ed accettata anche dal partito d'Azione nel quale, del resto, prevalgono le correnti socialiste. ... A quanto sopra sono autorizzato ad aggiungere che come contropartita Mussolini chiede: a) garanzia per l'incolumità dei fascisti e dei fascisti isolati che resteranno nei luoghi di loro abituale domicilio con l'obbligo della consegna delle armi nei termini stabiliti; b) indisturbato esodo delle formazioni militari fasciste, così come di quelle germaniche, nell'intento di evitare conflitti e disordine tra italiani e distruzione di impianti da parte dei tedeschi e nuove rovine e lutti nelle città e nelle campagne».
In uno di questi appunti, inoltre, Mussolini specificava a Silvestri che non si rivolgeva anche ai comunisti perché riteneva che nell'attuale situazione internazionale essi non potevano assumere in Italia atteggiamenti che sarebbero stati in contrasto con il riconoscimento dell'Italia come zona di influenza inglese.
Come sappiamo questo tentativo "politico" abortì subito per l'intransigenza di socialisti estremisti come Sandro Pertini, che misero in minoranza e isolarono i compagni socialisti che volevano accogliere quel passaggio di "consegne" e per la volontà e l'interesse di liquidare tutto il fascismo, comprese le sue conquiste sociali, in modo drastico e violento. Andò così a finire che gli Alleati imposero immediatamente la abrogazione di quelle Leggi sociali e la riconsegna delle Azienda agli Industriali.
In cambio i Sindacati ottennero beni immobili: i magnifici palazzi già appartenuti alla Gil , alla Onmi ai Dopolavori, ecc.
Come contentino, ai lavoratori, venne fatta elargire nel dicembre 1945, una gratifica straordinaria e una tantum, che gli Industriali furono ben felici di pagare.
Ma se le sinistre svendettero tutto il patrimonio sociale della RSI, in buona parte già codificato in Leggi, peggio ancora fecero i furfanti del MSI nel dopoguerra: legati mani e piedi ai circoli industriali, padronali e asserviti agli Atlantici, gettarono nell'oblio ogni aspetto socializzante della RSI, riservandone un bisbigliare solo nelle sezioni di partito, in sporadici opuscoli o in qualche comizio,, tanto per turlupinare i gonzi e racimolare voti.

Aprile 1945 la resa dei conti
Negli ultimi giorni di aprile '45 Mussolini dovette purtroppo fare i conti con le tante defezioni, se non tradimenti o comunque remore, dei suoi seguaci con i quali aveva messo in piedi la Repubblica Sociale Italiana.
Il 25 aprile '45, dopo che gli Alleati, oramai sfondato il fronte e superato Bologna, anche in virtù del fatto che i tedeschi oramai stavano trattando la resa, a insaputa degli italiani, in Svizzera, Mussolini decise l'ultima tattica possibile, quella temporizzatrice, ovvero di allontanarsi con il governo dalla Lombardia verso la Valtellina.
Quindi mentre egli si allontanava costantemente dalle zone dove stavano per arrivare le truppe Alleate e rifiuta di trincerarsi nelle grandi città per non esporle ad una sicura distruzione e per non cadere prigioniero del nemico (per avere un minimo di possibilità di trattare deve restare a piede libero) altri gerarchi, uomini del suo governo, molti pur fedeli fascisti, preferirebbero invece arrendersi al più presto agli Alleati, anche perchè permeati da quella forma mentis, in definitiva filo occidentale, che gli faceva magari sperare di potersi, non solo salvare, ma anche riciclare nel dopoguerra come anticomunisti e antisovietici.
In quelle ore drammatiche molti uomini del suo entourage speravano anche nell'ultima chance di un rifugio in Svizzera, mentre Mussolini, rimase sempre caparbiamente fermo nel proposito di restare sul suolo italiano, come la precisa e documentata ricostruzione di Marino Viganò, un ricercatore storico non certo di parte neofascista, ha dimostrato con il suo saggio: «Mussolini, i gerarchi e la "fuga" in Svizzera (1944-'45), Nuova Storia Contemporanea" N. 3, 2001».
E così andò a finire che Mussolini, lasciata Como all'alba del 26 aprile 1945, restò letteralmente imbottigliato in quel di Menaggio, circa 31 Km. più avanti sulla strada dell'alto lago, senza poter consumare la sua ultima e minimale strategia temporizzatrice che gli restava.
Come detto cercava di spostarsi verso la Valtellina o i confini del Reich, nella speranza di giocarsi le importantissime ed esplosive documentazioni che portava seco, al fine di trattare una resa, a piede libero, nella quale salvare la vita ai fascisti e per la nazione mitigare le conseguenze della sconfitta.
Ma i comandanti fascisti con le residue milizie armate, rimasero scelleratamente impantanati a Como, dove finirono per accettare una "resa" che ha dell'incredibile e del vergognoso.

Se Mussolini avesse voluto salvarsi
E pensare che se Mussolini lo avesse voluto si sarebbe potuto agevolmente salvare.
Già il 20 aprile '45, con la imminente presa di Bologna da parte degli Alleati (vi entreranno il giorno dopo) era oramai evidente che i tedeschi praticamente non combattevano più. Mussolini, volendo, avrebbe potuto mettersi in salvo e questo tanto più quando, il pomeriggio del 25 aprile all'Arcivescovado, venne ufficialmente a conoscenza che i tedeschi avevano raggiunto una intesa, all'insaputa degli italiani, per una imminente resa con gli Alleati, mettendo in crisi il ripiegamento dei fascistiDiveniva quindi evidente che l'unica possibilità di salvezza sarebbe stata quella di prendere il volo verso l'estero lanciando il si salvi chi può.
Il socialista Carlo Silvestri, suo acerrimo avversario ai tempi del delitto Matteotti, che gli fu vicino fino all'ultimo, riferì che Mussolini non pensava minimamente di mettersi in salvo, ma anzi il suo cruccio e il suo ultimo desiderio era proprio quello di sacrificarsi in qualche modo, affinché questo suo sacrificio personale potesse tornare vantaggioso per l'Italia.
Vediamo allora alcune vicende, quelle storicamente accertate, circa gli svariati piani di salvataggio del Duce, ideati da autorità della RSI, da settori del partito fascista o del suo entourage, dove si riscontra il ricorrente e totale rifiuto di Mussolini di aderire ad uno qualsiasi di questi progetti, tanto che c'era persino chi pensava di condurlo all'ultimo momento in salvo, narcotizzato o contro la sua volontà.
Buffarini Guidi, l'ex ministro degli interni, per esempio, parlando con Piero Cosmin, ex capo della provincia di Verona e Ugo Noceto, capitano dell'Aeronautica (come ha raccontato quest'ultimo a Marino Viganò nel 1995) ebbe a dirgli nel febbraio del 1945:
«Qui le cose si mettono male, ormai non c'è più niente da fare e bisogna cercare di salvare Mussolini in qualche modo. Lui non vuole, ma bisogna cercare in modo assoluto di salvarlo, perché se Mussolini è in salvo, o in Spagna o in Argentina, può far del bene all'Italia. Lui non vuole, ma volente o nolente, bisogna portarlo via».
Nel corso di questo colloquio sopraggiunse anche Vittorio Mussolini, il figlio del Duce, il quale messo a parte di queste intenzioni si disse d'accordo, ma aggiunse subito:
«Guardate che però mio padre non vuole».
Ed ancora, pur con qualche variante di dettaglio tra una versione e l'altra:
al figlio Vittorio, che proprio negli ultimissimi giorni gli propose di nascondersi in una garçoniere, Mussolini rispose ironicamente: «Non ti pare che le garçoniere servono per altri scopi?!».
Ma in altra occasione il padre, di fronte all'insistenza del figlio, ebbe anche a rispondergli duramente: «Nessuno ti ha pregato di interessarti della mia personale salvezza».
Noto è poi l'avanzatissimo progetto del generale Ruggero Bonomi, sottosegretario all'aviazione RSI, che aveva predisposto sul campo di Ghedi (Brescia), dei trimotori "Savoia Marchetti 79" (rimasti a disposizione fino agli ultimi giorni di Milano) adatti a raggiungere località come la Spagna dove risiedeva la moglie del segretario del Duce, Luigi Gatti, disposta ad accoglierlo. Al ché, saputolo, Mussolini, più o meno, osservò con ironia: «È questa di Bonomi la soluzione migliore per risolvere la nostra situazione? E tutti gli altri fascisti, poi, dove li metteremmo in quell'aereo?».
Racconta, un sia pur non molto attendibile, Virgilio Pallottelli, tenente pilota, che ebbe modo di vedere Mussolini il 25 aprile a sera in Prefettura dopo il ritorno dall'Arcivescovado:
«... di corsa salgo dal Duce, è pallido e nervoso. Imploro di andare subito a Linate e volare verso la Spagna. Rifiuta gridandomi che lui non scappa: "Virgilio, andremo anche noi sulle montagne, come i partigiani. No, Virgilio non scappo in volo. Andiamo in Valtellina ad aspettare gli Alleati"».
Un complesso piano, invece, con un sommergibile atlantico e/o un aereo venne studiato da Tullio Tamburini, capo della Polizia della RSI fino al giugno '44 ed ex prefetto di Trieste. Lo riferì lo stesso Tamburini a Ermanno Amicucci nel '50. Il progetto coinvolgeva anche Augusto Cosulich, l'amministratore dei cantieri dell'Alto Adriatico di Monfalcone dove si fabbricavano navi e sommergibili, ma anche aeroplani.
Come ricostruisce Marino Viganò, nell'articolo "Quell'aereo per la Spagna", Nuova Storia Contemporanea N. 3, 2001, alla fine Tamburini portò al Duce carte geografiche, progetti, cifre, disegni e gli espose il suo piano in ogni particolare [...]. Mussolini stette ad ascoltarlo, fra l'interessato e il divertito [...]. Fatto sta che il piano non lo mise di buon umore. Dopo aver accennato, con riso amaro, a Verne e a Salgari, disse a Tamburini: «Queste faccende non rientrano fra i vostri compiti. Non dovete più occuparvene. Ho il mio piano e provvederò io al momento opportuno. Non me ne parlate mai più».
In questo progetto era stato coinvolto anche l'ufficiale sommergibilista Enzo Grossi, medaglia d'oro RSI, che lo raccontò nel 1963, confermando i ricordi di Antonio Bonino vice segretario del PFR per la sede di Maderno e di Tamburini. Ricordò Grossi:
« ... [Tamburini] Mi spiegò che con il beneplacito dei Giapponesi sarebbe stato allestito un grosso sommergibile che al mio comando doveva prendere il mare, al momento opportuno, con a bordo la famiglia di Mussolini e i miei congiunti. Tutto era stato previsto per mantenere il segreto e per soddisfare le esigenze dei familiari dell'equipaggio; durata prevista della missione: un anno. Mi impegnai in senso affermativo. Tamburini si propose di parlarne a Mussolini. Qualche giorno dopo lo stesso Tamburini mi comunicava che tutto era andato a monte poiché il Duce si negava perentoriamente a quella che considerava una fuga. In occasione di un colloquio che ebbi nel mese di febbraio del 1945 Mussolini mi ringraziò per quanto ero disposto a fare e mi disse: comprendo perfettamente quali sentimenti hanno indotto Tamburini a progettare la nota missione sotto-marina e ringrazio anche voi su cui potrei fare il massimo affidamento, ma io non ho nessun interesse a vivere come un uomo qualunque» (vedesi: E. Amicucci, in: "Tempo" [Milano] 1950, N.. 19, e E. Grossi, "Dal Barbarigo a Dongo", "Un sommergibile per Mussolini", in: "Il Secolo d'Italia" 25 gennaio 1958).
In ogni caso, anche se non facile, ma certamente praticabile sarebbe stata la possibilità di porre in salvo il Duce sia in Spagna che in Sud America o forse in Svizzera o nasconderlo in qualche località segreta in Italia, anche se poi alquanto problematico sarebbe stato il "dopo" ovvero il "come" affrontare il dopoguerra, ma oltre 20 anni di segreti di Stato ed un compromettentecarteggio con Churchill, Roosevelt e anche lo stesso Stalin, gli avrebbero forse concesso la possibilità di salvare la pelle.
Ed invece, sul piano personale, si preoccupò unicamente di porre in salvo i suoi familiari mentre egli, con tutte le restanti autorità del governo repubblicano al seguito, andò incontro al suo destino.

Mussolini il "sanguinario"
Per concludere dobbiamo specificare, laddove sostenemmo che Mussolini era un rivoluzionario, che egli era prevalentemente un "rivoluzionario politico", dove la politica è anche l'arte del possibile, dell'inganno e del cinismo, e se pure egli non era un santo ed anzi utilizzò la violenza squadrista, mai mise mano ai plotoni d'esecuzione per il mantenimento del potere o fece ricorso all'assassinio per eliminare gli oppositori.
Chi storce la bocca al fatto che Mussolini utilizzò nella gestione del potere, gli Archivi dell'Ovra, spesso il ricatto, a volte la corruzione, per domare nemici e avversari, interni ed esterni al fascismo, dovrebbe sempre ricordare che, in alternativa, il monopolio del potere si può mantenere solamente con il sangue. Ma per Mussolini non era nella sua indole la risoluzione cruenta dei contrasti politici.
Ricorda la sorella Edvige come nel giugno 1934 egli inorridì alla notizia della eliminazione in Germania di Röhm e delle SA, mentre donna Rachele, la moglie, confidò che il Duce faceva la mascella feroce, ma era incapace di far del male ad una mosca.
Italo Balbo, nel giugno del 1925, parlando con Carlo Silvestri in merito alle conseguenze del delitto Matteotti, ebbe a fare una considerazione che si rivelò esatta:
«Ora invece per le conseguenze del delitto Matteotti Mussolini sarà costretto a fare il dittatore senza averne la stoffa. E saranno guai, perché un dittatore non deve avere paura del sangue.».
Su Mussolini così si espresse intelligentemente lo storico Attilio Tamaro:
«Il carattere dell'uomo non era nè quello di Cromwell, né quello di Stalin, perché non era né feroce, né inflessibile nella realizzazione delle sue idee. Era coerente più di quanto apparisse nei fini: non nei mezzi, né nelle idee, che stimava mezzi o strumenti».
Lo stesso Mussolini era conscio di questa sua inclinazione e debolezza ed ebbe a scrivere:
«La politica è un'arte difficilissima tra le difficili perchè lavora la materia inafferrabile, più oscillante, più incerta. La politica lavora sullo spirito degli uomini, che è una entità assai difficile da definirsi, perchè è mutevole. Mutevolissimo è lo spirito degli italiani.
Quando io non ci sarò più, sono sicuro che gli storici e gli psicologi si chiederanno come un uomo abbia potuto trascinarsi dietro per vent'anni un popolo come l'italiano. Se non avessi fatto altro basterebbe questo capolavoro per non essere seppellito nell'oblio. Altri forse potrà dominare col ferro e col fuoco, non col consenso come ho fatto io. (...) Tutti i dittatori hanno sempre fatto strage dei loro nemici. Io sono il solo passivo: tremila morti (tra le camice nere - n.d.r.) contro qualche centinaio.
Credo di aver nobilitato la dittatura. Forse l'ho svirilizzata, ma le ho strappato gli strumenti di tortura. Stalin è seduto sopra una montagna di ossa umane. È male? Io non mi pento di avere fatto tutto il bene che ho potuto anche agli avversari, anche nemici, che complottavano contro la mia vita, sia con l'inviare loro dei sussidi che per la frequenza diventavano degli stipendi, sia strappandoli alla morte. Ma se domani togliessero la vita ai miei uomini, quale responsabilità avrei assunto salvandoli? Stalin è in piedi e vince, io cado e perdo. La storia si occupa solamente dei vincitori e del volume delle loro conquiste ed il trionfo giustifica tutto. La rivoluzione francese è considerata per i suoi risultati, mentre i ghigliottinati sono confinati nella cronaca nera».
Negli ultimi mesi della RSI Mussolini era più che altro intento a decruentizzare la situazione, conscio che il vento sanguinario della guerra civile veniva da Londra, Mosca e New York.
Firmava praticamente ogni domanda di grazia gli venisse sottoposta ed era altresì intento a salvaguardare, impianti industriali, portuali, ecc. dalla furia della guerra e dalle possibili distruzioni dei tedeschi in ritirata.
Sperava che l'Italia in qualche modo potesse sopravvivere come nazione moderna es socialmente avanzata e si augurava, espletandone anche il 22 aprile 1945, un tentativo subito fallito, di poter tramandare le sue riforme sociali e repubblicane ai socialisti e ai repubblicani, perchè, come confidò il direttore del Corriere della Sera, Ermano Amicucci: "Mussolini voleva che gli anglo americani e i monarchici trovassero il nord Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte; voleva che gli operai decidessero nei confronti dei nuovi occupanti e degli antifascisti, le conquiste sociali raggiunte con la RSI".
E a Carlo Silvestri, ancor più esplicitamente disse:
«Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello di rivedere nel territorio della Repubblica sociale i carabinieri, la monarchia e la Confindustria. Sarebbe l'estrema delle mie umiliazioni. Dovrei considerare definitivamente chiuso il mio ciclo, finito».
Proprio questa umiliazione postuma, invece, gli riservarono i vincitori della guerra e i governi post ciellenisti, ma anche gli epigoni neofascisti, che nel dopoguerra perseguirono anni e anni di conservatorismo, reazione, filo americanismo e quant'altro e passo dopo passo, arrivarono ad edificare la cloaca della Destra Nazionale, con ex monarchici, liberali, ex papponi DC, ex tromboni trombati delle FF.AA. e dei Servizi, perfino ex venticiqueluglisti, infine, dopo tutto questo arrivarono persino a sostituirlo nei quadri nelle loro sezioni con il più consono Pinochet e le bandiere della sua macelleria cilena.
Ovviamente poi quegli epigoni missisti, finirono per rinnegarlo definitivamente definendo il fascismo il male assoluto.
Purtroppo la storia non consola e non ripaga, tanto è vero che il suo agire lo portò, come attestò e dimostrò Carlo Silvestri (ma anche Piero Parini, Renzo Montagna e altri collaboratori che lavorarono con lui) a salvare praticamente la vita a quasi tutti i capi della Resistenza, catturati dai tedeschi o ben individuati nei loro nascondigli, compresi Parri, Lombardi, Pertini, ecc., fu "ripagato" con le parole di Sandro Pertini, il partigiano estremista che in quei giorni di fine aprile '45 sbraitò alla radio che Mussolini «doveva essere ammazzato come un cane tignoso».
Proprio quello che avvenne.
Pertini, il partigiano estremista e di sinistra, che in quelle "radiose giornate" non mancava ad ogni comizio di aizzare le folle, già ebbre di sangue, nel dopoguerra divenne ligio interprete del "delicato" ruolo di Presidente della Camera (carica da assegnare a chi dà garanzie di sapersi destreggiare tra regolamenti e inciuci) e poi divenne il Presidente buono della Repubblica, difensore dell'Italia liberista e capitalista, subordinata agli USA, impegnandosi come un forsennato contro i brigatisti rossi, coloro che, di fatto, praticavano quella stessa guerriglia già partigiana e terrorista che fu dei Gap, ovvero lo sparare alle spalle e poi scappare, che il Pertini partigiano, a suo tempo aveva tanto esaltato.
- Mussolini che aveva debellato la Mafia, non tanto con il prefetto Mori, quanto con il suo Stato dove «nessun potere, nulla doveva essere fuori delle Stato», ci dice invece il "compagno" Pertini, cooperatore degli Alleati che La Mafia l'avevano riportata in Sicilia: deve morire come un cane tignoso.
- Mussolini che aveva mandato in "sonno" la Massoneria mettendola fuori legge, ci dice invece il "compagno" Pertini, quale Presidente di una Repubblica pullulante di Logge, dove lui finì gestito dalle mani del suo segretario al Quirinale, il "confratello" Antonio Maccanico: deve morire come un cane tignoso.
- Mussolini che aveva realizzato la società socialista in Italia, ci dice invece il "compagno" Pertini, lui che aveva realizzato l'Italia liberista, capitalista e riportato i lavoratori al rango di salariati: che deve morire come un cane tignoso.
- Mussolini che aveva combattuto la guerra del "sangue contro l'oro", ci dice invece il "compagno" Pertini, che aveva combattuto la guerra "dell'oro contro il sangue" in nome e per conto della City di Londra e di Wall Street di New York: che deve morire come un cane tignoso.
E Pertini mori nel suo letto d'ospedale a quasi 94 anni, avvolto dal conforto di quegli italiani scorderelli, beoti, insufflati di edulcorati e idilliaci immaginari collettivi partoriti dalla propaganda e dai mass media. Quegli italiani, quei lavoratori, ai quali per essere presi in giro bastano, non fatti, ma qualche parola di conforto, vuote enunciazioni di giustizia, pace e libertà, prive di ogni conseguenza realizzativa, che il "vecchio presidente buono", era cosi bravo a pronunciare con tanta enfasi e verve.
Mussolini invece finì ammazzato e appeso a Piazzale Loreto.
Questa è la Storia, ma tra qualche centinaio di anni siamo assolutamente certi che di Mussolini se ne parlerà ancora e nel Campidoglio ci sarà il posto che compete alla sua statua accanto ai padri della Patria, di pertini (il minuscolo è voluto) invece... fate voi.

mercoledì 22 aprile 2015

Prima di parlare dell'immigrazione degli altri informatevi sul vostro passato!


CHI NON HA MEMORIA NON PUO' AVERE FUTURO!
Prima di parlare dell'immigrazione degli altri informatevi sul vostro passato!
"Le partenze da Napoli sono soprattutto di uomini adulti, bambini, braccianti e, dopo il 1893, anche di gente qualificata. Invece le partenze da Le Havre e Genova verso gli Stati Uniti (ridotte a solo il 10% negli anni 1890) sono di contadini e donne. Anche se la grande emigrazione viene spesso rappresentata come una emigrazione familiare, in realtà coloro che si recano negli Stati Uniti sono soprattutto individui singoli. I familiari arrivano in seguito.
...Naturalmente, al trasporto dei migranti sono assegnate le carrette del mare, con in media 23 anni di navigazione. Si tratta di piroscafi in disarmo, chiamati “vascelli della morte”, che non potevano contenere più di 700 persone, ma ne caricavano più di 1.000, che partivano senza la certezza di arrivare a destinazione. E molti periscono in quei tragici viaggi verso la speranza: 576 emigrati, quasi tutti meridionali, nel naufragio dell’“Utopia” avvenuto il 17.3.1891 davanti al porto di Gibilterra; 549 emigrati, di cui numerosi italiani, nel naufragio del “Bourgogne” avvenuto al largo della Nuova Scozia il 4.7.1898; 1.198 emigrati, di cui numerosi italiani, nel naufragio dei due “Lusitania”, avvenuti il primo nelle acque di Terranova il 25.6.1901 e il secondo affondato da un sottomarino tedesco il 7.5.1915; 550 vittime del naufragio del “Sirio”, avvenuto il 4.8.1906 sugli scogli della costa spagnola di Cartagena; diversi italiani dei 1.523 morti nel naufragio del “Titanic” avvenuto il 14.4.1912 dopo aver urtato un iceberg; 206 morti, quasi tutti emigranti, nell’affondamento del piroscafo “Ancona”, avvenuto il 7.11.1915 da parte di un sottomarino austriaco; 314 vittime (657 denunciate dal “Clarin” di Buenos Aires) nel naufragio della nave “Principessa Mafalda”, avvenuto il 25.10.1927 al largo del Brasile; 446 italiani dell’“Arandora star” vittime dei siluri di un sottomarino tedesco il 2.7.1940.
Il viaggio via mare verso le Americhe non è una crociera per i migranti. In genere vengono stivati in terza classe, in condizioni pietose e prive di igiene. In fondo non si trattava che di “tonnellata umana”, così come veniva chiamato il carico umano degli emigranti che «accovacciati sulla coperta, presso le scale, col piatto tra le gambe e il pezzo di pane fra i piedi, mangiavano il loro pasto come i poverelli alle porte dei conventi. È un avvilimento dal lato morale e un pericolo da quello igienico, perché ognuno può immaginarsi che cosa sia una coperta di piroscafo sballottato dal mare, sulla quale si rovesciavano tutte le immondizie volontarie e involontarie di quelle popolazioni viaggianti» (Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti,1908).
Per dormire, «l’emigrante si sdraia vestito e calzato sul letto, ne fa deposito di fagotti e valigie, i bambini vi lasciano orine e feci; i più vi vomitano; tutti, in una maniera o nell’altra, l’hanno ridotto, dopo qualche giorno, in una cuccia da cane. A viaggio compiuto, quando non lo si cambia, ciò che accade spesso, è lì come fu lasciato, con sudiciume e insetti, pronto a ricevere il nuovo partente» (Teodorico Rosati, ispettore sanitario sulle navi degli emigranti, 1908).
In tali condizioni, contrarre una malattia è frequente, e non mancano i decessi come rivela il diario di bordo del piroscafo “Città di Torino” nel novembre 1905: «Fino ad oggi su 600 imbarcati ci sono stati 45 decessi dei quali: 20 per febbre tifoide, 10 per malattie broncopolmonari, 7 per morbillo, 5 per influenza, 3 per incidenti in coperta».
Tra i casi più clamorosi di “vascelli fantasma” con decine di morti durante la traversata, il “Matteo Brazzo”, nel 1884, in un viaggio di tre mesi con 1.333 passeggeri ha avuto 20 morti di colera ed è stato respinto a cannonate a Montevideo; il “Carlo Raggio” in un viaggio del 18.12.1888 con 1.851 emigranti ha avuto 18 vittime per fame e in un altro viaggio, del 1894, 206 morti di cui 141 per colera e morbillo; il “Cachar” che partito per il Brasile il 28.12.1888 con 2.000 emigranti ha avuto 34 vittime per asfissia e altri per fame; il “Frisia” in viaggio per il Brasile il 16.11.1889 ha avuto 27 morti per asfissia e più di 300 ammalati; nello stesso anno sul “Parà” un epidemia di morbillo uccide 34 persone; il “Remo”, partito nel 1893 con 1.500 emigranti, ha avuto 96 morti per colera e difterite e fu respinto dal Brasile; l’“Andrea Doria” nel viaggio del 1894 ha contato 159 morti su 1.317 emigranti; sul “Vincenzo Florio” nello stesso anno i morti sono stati 20 su 1.321 passeggeri.Infine, le navi per emigranti, per tutto l’Ottocento, mancavano di infermerie, ambulatori e farmacie, tanto che, tra il 1897 e il 1899, più dell’1% degli arrivati a New York è respinto in Italia perché ridotto in cattivo stato dai disagi e dalle sofferenze del viaggio...."

UN PACCO VUOTO Dalla guerra civile alla realtà istituzionale

Di Mario Consoli

da L’UOMO LIBERO

Le commemorazioni del 25 aprile – La valutazione storica – La valutazione militare – Le rappresaglie – Il ruolo dei comunisti – Le valutazioni politiche – Il Giudizio morale – La realtà istituzionale e l’esigenza della piena sovranità.


In occasione dello scorso 25 aprile si è assistito, ancora una volta, alla pantomima messa in scena dai soliti figuranti – diversi come persone, ma assolutamente identici nei ruoli ricoperti – che hanno celebrato questa ricorrenza tutti gli anni – sessantaquattro! – dal dopoguerra ad oggi.

Tutto si è sempre ridotto ad una – sostanzialmente generica – glorificazione della Resistenza, cioè della cosiddetta “guerra di liberazione”, presentata come summa salvifica di tutta la storia e la politica d’Italia.

In questi riti commemorativi il ruolo dei sacerdoti è ricoperto dalle associazioni partigiane e dai partiti di sinistra, e non manca mai chi tenta di coprire il ruolo di “conciliatore”. La posizione di questi “generosi” è quella, sfruttando la sempre maggior lontananza degli avvenimenti, di chi è disposto a tendere una mano a quei “poveracci” che hanno sì fatto la scelta “sbagliata”, che hanno sì combattuto al fianco dei cattivi per antonomasia – i tedeschi -, che sì non meriterebbero nulla, ma in fondo, bisogna riconoscerlo, potevano essere in “buona fede” e sono morti senza rendersi conto di quali “tremendi” errori erano stati corresponsabili.

I “riconciliatori” sono stati molti, nel corso degli anni, ma tutti si sono affrettati a compiere repentine e strategiche ritirate al primo stormir di fronde provocato dai “sacerdoti” della Resistenza. Tanto per ribadire, ogni volta, che i buoni e i generosi in democrazia esistono, ma la Verità, in fin dei conti, è una e a questa tutti debbono inchinarsi.

In quest’ultima tornata celebrativa del 25 aprile il tentativo – anche questa volta andato subito abortito – di onorare i caduti di entrambe le parti della guerra civile è stato fatto da Silvio Berlusconi. Il presidente del Consiglio, a Onna, in Abruzzo, ha affermato: “Sono convinto che siano maturi i tempi perché la festa della Liberazione possa diventare la festa della Libertà, e possa togliere a questa ricorrenza il carattere di contrapposizione che la cultura rivoluzionaria le ha dato e che ancora divide piuttosto di unire”.

Ma poi, dopo il consueto borbottio resistenziale, sono giunte puntuali le rassicurazioni che nessuna equiparazione sarebbe stata fatta, di nessun tipo; sulla questione nessun disegno di legge sarebbe stato presentato né caldeggiato.

Quei morti – quelli dalla “parte sbagliata” – potevano dunque continuare a vagare nell’oscuro spazio dell’oblio.

E’ arrivata infine, in occasione dell’anniversario dell’8 settembre, col tono della sentenza definitiva, la parola del presidente della Repubblica, Napolitano, con l’abituale sicumera dei comunisti, ha affermato: “La Resistenza fu guerra e guerra di popolo. Ci ha ridato dignità. I suoi sono i valori fondamentali”. Come dire: l’Italia è una Repubblica fondata su un patto – la Costituzione – che è stato redatto “traducendo” i valori fondamentali della Resistenza; tutto ciò che si discosta da tali valori, dunque, non può avere diritto di cittadinanza.

Nessuno, a questo punto, ha insistito nel dibattito. Non lo ha fatto il presidente-pacificatore – evidentemente convinto che il gioco non valesse la candela - che ha preferito riservare le polemiche col presidente-resistente per altri argomenti. Nessun intervento c’è poi stato da parte di quella destra ex-neofascista tutta preoccupata di non turbare il clima istituzionale, tornando su questioni dalle quali ha da tempo preso le distanze.

D’altronde - è stato il pensiero condiviso da tutta la classe politica – son passati sessantaquattro anni; il grosso dei testimoni è deceduto, i parenti prossimi dei caduti e delle vittime anche, quelli di seconda generazione non hanno vissuto, non hanno conosciuto, non hanno sofferto, non nutrono, salvo rarissime eccezioni, sentimenti revanscisti.

Non c’è nessuno in Parlamento che s’impegni per l’indipendenza dell’Italia – e dell’Europa – e si ribelli allo status di colonia americana cui siamo ridotti, nonostante i decenni che ci separano dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Anzi, rimarcare il mito della Resistenza come valore fondamentale della nostra Repubblica, come “lotta di liberazione” che ha ridato dignità al popolo italiano, inevitabilmente rivaluta anche il mito – che è poi quello che ha reale valenza di attualità – della guerra degli “alleati” come guerra di liberazione e non di occupazione.

Torna in mente l’arguta ironia di Giorgio Gaber quando, nel suo monologo L’America, diceva:

“A noi ci hanno insegnato tutto gli americani! Se non c’erano gli americani a quest’ora noi…eravamo europei!”

Ecco dunque il presidente del Consiglio non perdere occasione per ribadire il “debito di gratitudine” per i soldati americani che “versarono il loro sangue nella campagna d’Italia. Senza di loro, il sacrificio dei nostri partigiani avrebbe rischiato di essere vano”.

Un debito di gratitudine condiviso da tutti gli schieramenti politici e da tutte le istituzioni e che si sostanzia in una completa sudditanza ai disegni del mundialismo, ai condizionamenti culturali e al dominio monetario, politico e militare degli Stati Uniti d’America.

Il problema dei caduti nella guerra civile e dei valori della Resistenza non è dunque una questione del passato, un argomento buono solo per commemorazioni, ma è un tema politico di grande attualità. Un tema di cui è doveroso occuparsi senza complessi o pregiudizi.

Innanzitutto occorre sgombrare il campo dall’equivoco della “buona fede” dei combattenti dell’una e dell’altra parte. E’ un argomento capzioso, usato con doppi fini, secondo la convenienza del momento. Un argomento che non può aggiungere nulla al dibattito sulla Resistenza e sui suoi “valori” o sull’esperienza della Repubblica Sociale Italiana e dei suoi combattenti.

Noi possiamo attribuire, nell’analisi storica, ai singoli fenomeni sociali e politici, valenze positive o negative, ma evidentemente questo non può implicare un automatico giudizio per chi può aver aderito a quello schieramento con uno spirito idealmente rispettabile e disinteressato. Viceversa, il rispetto doveroso per qualsiasi combattente motivato da ideali “puliti”, di per sé non è sufficiente a ipotecare positivamente il giudizio sul fenomeno nel suo insieme. Si può onorare il sacrificio di un partigiano, ma criticare la Resistenza, così come un giudizio negativo sulla RSI non può essere considerato titolo sufficiente a criminalizzare o condannare all’oblio le decine di migliaia di volontari che caddero combattendo a fianco dei tedeschi e le decine di migliaia di fascisti che furono assassinati dopo il 25 aprile del 1945.

Nel commentare il film di Giuseppe Tornatore, Baarìa, un siciliano che aderì al Partito Comunista negli anni Cinquanta ha dichiarato candidamente: “Noi volevamo ribellarci al potere mafioso. Vicino alla mafia c’era la DC, quindi andammo a iscriverci al PCI. Ma non avevamo mai letto Marx; non sapevamo nemmeno chi fosse”.

In una recente ricerca storica sulla prima metà dell’800, che si riferiva al centro Italia, mi sono stupito nel riscontrare un numero di adesioni alla Massoneria molto più alto di quello accertabile in altre regioni del Nord e del Sud; numero che nei decenni successivi diminuiva vistosamente.

Nell’approfondire la ricerca ho trovato la spiegazione del fenomeno. Nel centro Italia dominava lo Stato della Chiesa, esercitando un potere molto più assoluto, dispotico e oscurantista di quello degli altri stati d’Italia. O subivi il Papa, cardinali e vescovi e tutte le loro angherie, o cercavi di collegarti con altri “ribelli”, e in quegli anni, sulla piazza, non si trovava altro che la Massoneria. E c’era, per questo motivo, chi vi aderiva anche senza sapere di Logge e di Officine, di Grand’Oriente, d’Inghilterra o di Francia, salvo distaccar visi, una volta caduto il potere temporale, dando vita a nuove correnti politiche.

E’ chiaro che nessun disegno eversivo e alcuna responsabilità storica può essere attribuita a quel bracciante siciliano o a quel ribelle antipapalino. Certo non a loro possono essere imputati i milioni di vittime dei quali il comunismo si è macchiato nel mondo, né i disastri sociali, politici ed economici provocati dai regimi marxisti. Né i disegni sovvertitori, contro le nazioni ed i popoli, a favore di quelle forze che nel corso della loro storia sono approdate al dominio mondialista, messi in atto dai complotti massonici.

Si può certamente trattare di individualità indocili, in ottima fede, che, rischiando la vita, sono, a prescindere dallo schieramento scelto, degne di ogni rispetto. E di queste individualità ve ne sono state indubbiamente anche all’interno del movimento partigiano, e – come vedremo, in ben diverso numero – tra i combattenti della Repubblica Sociale.

Rientra del resto nell’antica tradizione dei popoli civili rispettare anche il nemico che si è battuto con valore ed è caduto in battaglia.

Quello dei militanti in “buona fede” non è dunque un tema che si può sollevare a intermittenza, secondo la convenienza del momento. Il rispetto per loro è dovuto per un atto di civiltà e non può essere oggetto di trattative o opportunistiche concessioni. Quando invece si insiste su questo tema vuol dire che si vuole nascondere qualcosa e che lo si utilizza come “specchietto” per le allodole per non affrontare il nocciolo della questione.

Poi, oltre ai “puri”, in ogni schieramento, ci sono sempre stati anche i profittatori, e spesso anche i banditi. Gente che arraffa quando c’è da arraffare, e scappa quando vede la mala parata. E poi c’è la gran massa di quelli che attendono fino all’ultimo, osservano il vento che tira, cambiano bandiera e si accodano a chi vince.

Nel luglio del 1958, al porto di Genova, sbarcò dal transatlantico Cristoforo Colombo, proveniente da New York, il poeta Ezra Pound, dopo essere stato internato per dodici anni nel manicomio criminale di St. Elizabeth, per “motivi politici”, dai buoni e democratici americani.

Pound trovò ad accoglierlo una schiera di giornalisti, tutti ormai rigorosamente antifascisti. Il poeta, provocatoriamente, dedicò loro un saluto romano e sorrise, riconoscendo molti volti che aveva visto prima della fine della guerra nelle redazioni dei giornali fascisti. Si avvicinò a uno di loro in particolare, un piemontese che nel frattempo era diventato la “voce dei partigiani” e che ancora oggi siamo abituati a vedere nel ruolo di sentinella della Resistenza, uno che nel 1942 aveva accusato gli ebrei di avere scatenato la seconda guerra mondiale: “Lei ha meritato la fama di veggente”, gli disse Pound. Il giornalista in questione su La Provincia Granda – Sentinella d’Italia, il 14 agosto 1942 aveva scritto: “Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. () A quale ariano, fascista e non fascista, può sorridere l’idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei?”.

Quello dei voltagabbana è sempre stato un mestiere praticato da molti. Questi individui però difficilmente li possiamo trovare negli elenchi dei caduti e degli eroi; trovano quasi sempre il modo di cavarsela.

I ragazzi della Repubblica Sociale cantavano:

“Le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera. L’amore con i fascisti non conviene; meglio un vigliacco che non ha bandiera, uno che non ha sangue nelle vene, uno che serberà la pelle intera”

Al tempo della RSI certamente nella bilancia fascista il piatto dei rischi pesava molto di più di quello dei vantaggi. Ciò nonostante, il numero dei volontari che seguirono Mussolini al Nord fu sostanzialmente costante fino alla fine, mentre quello dei partigiani aumentava man mano si avvicinava la vittoria degli “alleati”: dagli 8-10.000 del 1943 si giunge agli 80-90.000 della primavera del 1945. Poi, con l’arrivo degli anglo-americani le piazze si riempirono di fazzoletti rossi: erano tutti diventati partigiani. Ma questo è un fatto che accade sempre, e non può avere alcuno spessore né storico, né politico.

L’Italia invece, durante il regime fascista, andava bene, le prospettive apparivano ottime e, conseguentemente, di profittatori ne circolavano.

Chi ha studiato quel periodo conosce quanta insofferenza trapelasse tra i giovani fascisti, quelli “veri”, quelli che venivano dai GUF, che si erano formati nei Littoriali ed erano approdati a esperienze come la Scuola di Mistica Fascista di Niccolò Giani.

Guido Pallotta aveva sottotitolato il suo Vent’anni, Giornale di bonifica integrale, e non si riferiva certo né a paludi, né a terreni incolti. Da quelle colonne partirono violente battaglie contro i profittatori del regime, quelli che chiamavano i “cumulisti” di cariche che, invece di servire lo Stato e perseguire gli interessi del popolo, inseguivano “quattro paghe per il lesso”.


Ma questi “puri”, coerentemente, una volta scoppiata la guerra, andarono a servire la Patria in armi e la gran parte di loro morì eroicamente, risparmiandosi il tragico scenario della sconfitta. Pallotta cadrà a Sidi el Barrani, in Egitto, sulle dune di Alam el Nibeiwa, nello scontro con i carri armati britannici il 9 dicembre del 1940. Berto Ricci, il fondatore de l’Universale, morì il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula in Cirenaica. Niccolò Giani cadde combattendo sul fronte greco-albanese, verso la Punta Nord del Mali Shendeli, a quota 1.700 metri, il 14 marzo 1941.


* * *

Fatto salvo dunque il pieno rispetto per tutti quei partigiani che sono caduti combattendo, convinti di averlo fatto per valori di giustizia, riscatto e libertà, è opportuno occuparci senza pregiudizi della Resistenza italiana e verificare se sia stata o no guerra, guerra di popolo e, soprattutto, se abbia rappresentato una realtà storica talmente trainante da trasformare una sconfitta bellica e un’occupazione militare – che si è prolungata in sessantaquattro anni di asservimento politico, culturale ed economico – in “guerra di liberazione”.

E’ necessario affrontare l’argomento sotto ogni angolazione: storica, militare, politica e morale.


La valutazione storica

La Resistenza non sarebbe mai riuscita a prendere il potere se non fossero arrivate le truppe angloamericane e se la guerra non fosse stata persa da Italia e Germania. Prima del 25 aprile 1945 nessuna vera e propria insurrezione ebbe luogo.

Nelle città e nelle zone d’importanza militare, e quindi presidiate, i partigiani si manifestarono solamente attraverso azioni terroristiche, uccisioni e sabotaggi. Inizialmente di disturbo che potevano infastidire le autorità della RSI e i comandi tedeschi, ma certamente non influire sullo svolgimento degli eventi bellici.

Le popolazioni, ben lontane dall’offrirsi ad avventure insurrezionali e già sufficientemente provate dalle ristrettezze, soprattutto alimentari, imposte dalla situazione generale e dal clima di terrore creato dai bombardamenti aerei anglo-americani, vivevano con giustificata angoscia le conseguenze degli attentati partigiani. Era ben noto a tutti che ad ogni azione di quel genere sarebbero seguite rappresaglie ed era ormai consolidata la certezza che nessun terrorista si sarebbe mai presentato alle autorità per rispondere del proprio operato ed evitare sanguinose ripercussioni sulla popolazione. E’ emblematico il caso di Via Rasella – e della conseguente rappresaglia delle Fosse Ardeatine – e, in senso opposto, quello del sacrificio del carabiniere Salvo d’Acquisto, autoaccusatosi, innocente, di un attentato compiuto a Torre di Polidoro, una località tra Fiumicino e Ladispoli, per scongiurare la fucilazione di 22 ostaggi che i tedeschi si preparavano ad eseguire per rappresaglia.

Le cosiddette “repubbliche partigiane”, tanto glorificate dalla storiografia ufficiale, sorsero nell’estate del 1944 , in zone dove mancavano o erano scarsi gli insediamenti militari tedeschi e della Repubblica Sociale, poco abitate, senza importanza strategica, facilmente controllabili perché territori prevalentemente montani e dotati di ridotta rete stradale.

Più che di “repubbliche” quindi, tranne qualche piccola, effimera eccezione, sarebbe più corretto parlare di zone non controllate dalle truppe italo-tedesche. In ogni caso durarono poche settimane; sparirono all’arrivo dei primi reparti fascisti o tedeschi e non riuscirono mai a consolidarsi.

In Friuli i partigiano scorazzarono indisturbati in zone della Carnia e dell’alto bacino del Tagliamento, Tolmezzo escluso, dal luglio al settembre. Fu questa la regione dove con maggiore evidenza si manifestò lo scontro tra fazioni all’interno della Resistenza. La vicinanza con la Jugoslavia e le brigate di Tito alimentavano, nei partigiani comunisti, una tracotanza maggiore che nelle altre regioni d’Italia. Questa lotta non si esaurì nelle poche settimane di vita della “repubblica carnica”; continuò in un crescendo di sopraffazioni e di violenze, fino a sfociare nell’eccidio di Porzus.

Il 7 febbraio del 1945, presso le malghe di quel villaggio, i comunisti gappisti guidati da Mario Toffanin, detto Giacca, decapitarono il vertice della Brigata Osoppo, uccidendone 17 elementi. La Osoppo raccoglieva i partigiani cattolici e laico-socialisti ed era accusata di osteggiare il predominio dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica controllati direttamente dal partito Comunista Italiano) e di non accettare la prospettiva – caldeggiata invece dai “rossi” – dell’annessione di Friuli e Venezia Giulia alla Jugoslavia.

Tra i partigiani massacrati in quell’occasione ci furono anche Guido Pasolini, fratello del più noto Pier Paolo, e Francesco De Gregori, detto Bolla, zio dell’omonimo cantautore.

In Veneto, nelle settimane estive, i “resistenti” si illusero di controllare l’altopiano del Cansiglio, un territorio quasi totalmente boscoso e disabitato, ma a settembre svanì ogni velleità e tutta la regione tornò sotto l’autorità della Repubblica Sociale, senza che si manifestasse alcun tentativo insurrezionale da parte dei cansigliesi.

In Lombardia ci fu un solo episodio sfociato in un periodo – ottobre-novembre – di controllo territoriale da parte dei ribelli, ed è quello di Varzi, Godiasco e della Bassa Valle Staffora, nei pressi di Voghera.

Sul sito internet dell’Associazione Nazionale Partigiani, sezione di Voghera, nel rievocare quell’episodio, si legge un involontario giudizio d’insieme di tutto il fenomeno delle “repubbliche partigiane”: “La liberazione di Varzi assume una rilevanza storica in quanto è uno dei pochi casi, negli avvenimenti della Resistenza, in cui una cittadina di fondo valle è conquistata dai partigiani a seguito di uno scontro aperto e non per abbandono da parte dei nazifascisti (come accade nella piemontese Alba, ad esempio)”.

In Emilia, nonostante nel dopoguerra proprio questa fosse la regione dove i partigiani spadroneggiarono più a lungo - quattro anni di incontrastata impunità – perpetrando assassinii e stragi, i tentativi insurrezionali furono pochi e di scarsissimo rilievo.

Sei settimane durarono le azioni nella valle del trebbia (repubblica di Bobbio), cinque nelle montagne di Modena e Reggio (repubblica di Montefiorino), e nella val d’Enza e val di Parma. Quattro settimane in val Ceno e in val Taro.

Nonostante dal 25 aprile 1945 l’Emilia abbia ricoperto il ruolo di regione “rossa” per antonomasia, fu proprio qui che i rapporti tra popolazione e partigiani risultarono ancor più problematici che altrove. Si legge in un rapporto del comandante partigiano Ferrarini della Brigata Garibaldi operante in val Ceno: “I sacrifici di lunghi mesi di montagna, la mancanza di una buona preparazione politica, l’eterogeneità delle forze, hanno reso un po’ acri i rapporti tra i garibaldini e la popolazione civile. La povertà dei mezzi dei nostri patrioti, la scarsa sensibilità politica dei montanari della zona, la loro paura per un eventuale rastrellamento non hanno permesso una cordiale convivenza e quindi la liberazione si è trasformata in una vera occupazione”.

In val Taro la situazione fu anche peggiore: i partigiani che avevano preso provvisoriamente il controllo del territorio non riuscirono nemmeno a formare un qualcosa che assomigliasse a una giunta. Il 13 luglio 1944 su La Nuova Italia, Giornale del territorio libero del Taro, si constata: “Elementi iscritti e militanti tra le file del Partito fascista repubblicano sono ancora nelle amministrazioni comunali della zona. Un provvedimento radicale, per evidenti ragioni di necessità pratica non è stato opportuno attuare”.

In Liguria la cosiddetta “repubblica di Imperia”, comprendente una decina di piccoli comuni dell’entroterra, durò da settembre all’inizio di ottobre.
Ma la regione che più d’ogni altra fu teatro di esperimenti di questo genere fu il Piemonte. Sette le zone interessate: l’alto Monferrato (un gruppo di paesi attorno a Nizza Monferrato – durata due mesi), l’alto Tortonese (dalla val Borbera alla val Curone – durata due mesi), le Langhe (la striscia che collega il Tanaro e il Bormida al nord-ovest di Mondovì – durata due mesi), la val Maira a la val Vairata (durata un mese e mezzo), le valli di Lanzo (durata poco più di due mesi), la Valsesia (da Romagnano fino ad Alagna – durata quattro settimane) e la val d’Ossola (durata cinque settimane).

Quella dell’Ossola è stata la più celebre tra le “repubbliche partigiane”. Si tratta di un territorio semplice da occupare e da difendere, fuori dalla mappa degli interessi strategici imposti dagli sviluppi bellici. Quando i partigiani decisero di passare all’azione, il territorio era in realtà difeso solo in pochi presidi militari (Piedimulera, Masera e Santa Maria Maggiore) con scarsi reparti territoriali austriaci e poche decine di militari della GNR e della Guardia di Finanza, e quando entrarono a Domodossola, il dieci settembre, le truppe fasciste e tedesche si erano già allontanate.

Quanto alla geografia della zona, se andate in Ossola, potrete osservare come il territorio abbia la forma di un grande catino con al centro Domodossola. Da lì si diramano, come in una tela di ragno, strade strette che finiscono contro le montagne della Valle Anzasca, del gruppo del Monte Rosa, della Valle Antrona, della Cairasca, del Devero e della Formazza.

Collegati con l’esterno ci sono solo il Passo del Sempione, la via delle Centovalli svizzere, la Cannobina e la strada di Mergozzo. Ancora oggi basta una piccola frana per bloccare queste carreggiate.

Un0unica apertura vera e propria collega l’Ossola ed è quella di Ornavasso, attraverso la quale si raggiunge Gravellona Toce e il Lago Maggiore. Fu facile ai partigiani dichiarare quel territorio “libero” e istituirvi anche un Governo provvisorio.

Ma le forze armate della RSI, più per principio che per motivazioni strategiche, decisero di intervenire.

Il 9 ottobre reparti di volontari si organizzarono ad Arona. Il 12 entrano in Ossola. Il 14 ottobre la Repubblica dell’Ossola è sparita. Partigiani e governo provvisorio scappano lungo la valle Antigorio, raggiungono la Formazza e di lì, attraverso il passo San Giacomo (un sentiero d’alta montagna utilizzato quasi solo dai contrabbandieri), riparano in Svizzera dove aspettano al sicuro la fine della guerra. Tra questi c’è anche il futuro presidente della Costituente, l’ebreo comunista Umberto Terracini che, già in territorio elvetico dall’agosto 1943, aveva raggiunto l’Ossola dove divenne, per quel fugace periodo di attività partigiana, segretario della Giunta di governo.

La storia delle cosiddette “repubbliche partigiane” è dunque molto istruttiva perché chiarisce, in modo inequivocabile, coma la Resistenza non abbia mai rappresentato una forza combattente capace di imporsi militarmente e di gestire un qualsiasi territorio, fino all’arrivo delle truppe anglo-americane. La durata di quelle “repubbliche” – queste sì repubblichine! – coincide esattamente con il tempo in cui le truppe italo-tedesche trascurarono di occupare quei territori.

Inoltre, per quei brevissimi periodi, i partigiani riscontrarono grosse difficoltà nel rapporto con le popolazioni, e questo è molto importante sottolinearlo, giacché è un fatto che stride violentemente col concetto di “liberazione” che fa da ritornello in tutta la storiografia e nelle celebrazioni resistenziali.

Quasi sempre alle azioni partigiane risponde una istintiva ostilità popolare – sono gli stessi storici della resistenza ad ammetterlo – legata soprattutto a due elementi: paura per le conseguenze dell’inasprimento della guerra, che ben sapevano non sarebbero mancate, e insofferenza per le immancabili razzie di beni alimentari – e non solo alimentari – che i partigiani facevano per sopperire alle proprie necessità. E già, perché, oltre al fatto di trovarsi d’improvviso in zone chiuse, dove ogni possibilità di approvvigionamento dall’esterno veniva preclusa, la popolazione doveva anche farsi carico del mantenimento delle bande che avevano preso il momentaneo controllo del territorio.

Dopo solo nove giorni dalla costituzione della “repubblica”, in Ossola i civili cominciarono ad avere fame. Riferisce sulla stampa svizzera – 29 settembre 1944 – il consigliere del Canton Ticino Guglielmo Canevascini: “Ho visitato l’Ossola liberata. La situazione alimentare è tragica. La popolazione civile della regione (60 mila persone, esclusi i militari) è ridotta alla fame. Nelle valli da quasi due settimane è cessata la distribuzione del pane. Nei centri industriali di Domodossola, Villadossola e Pieve Vergonte, le ultime riserve saranno esaurite domani. Non ci saranno più neppure patate, le cui razioni sono già state ridotte a 200 grammi; 500 grammi per gli operai. Mancano i vestiti per l’inverno. Si comincia a soffrire il freddo. Mancano i legumi, il riso, i grassi. Negli ospedali mancano il sapone e i medicinali. Manca tutto; si incontra ovunque, fra una nobile e dignitosa fierezza che è nel comportamento del popolo, lo squallore e la miseria. I bambini (da 10 a 12 mila) sono denutriti. Il latte è insufficiente; lo zucchero è totalmente assente (un esempio: Domodossola con 14 mila abitanti, dispone di soli 538 litri di latte al giorno)”.

Il prof. Massimo Legnani, docente di storia del XX secolo all’Università di Bologna, specializzatosi nella storia della Resistenza, ha affermato: “…l’atteggiamento della maggioranza della popolazione è molto circospetto, soprattutto per ragioni di carattere economico: le formazioni partigiane avevano ovviamente problemi di approvvigionamento è ciò presupponeva la spartizione delle limitate risorse esistenti…questa dialettica legata alle condizioni materiali spesso determinava climi psicologici che incidevano negativamente sui rapporti politici”.

Ed i problemi non si esaurivano solo al livello alimentare, ma riguardavano tutte quelle risorse di cui le bande “venute giù dalla montagna” certo non disponevano.

Emblematico ciò che avvenne nel Monferrato: per l’aspetto finanziario, la giunta della nuova “repubblica” decise di imporre nuove pesanti tasse a tutti i viticultori e, per risolvere la questione dei trasporti, requisì gli autocarri e le automobili delle aziende private. Per il carburante si provvide alla fabbricazione di alcool sequestrando, a questo scopo, le famose distillerie di Nizza e Canelli.

Parlare, a questo punto, di consenso e collaborazione da parte delle popolazioni, appare quanto meno avventato.
La Resistenza storicamente non fu una guerra, ma, tutt’al più, una guerriglia di disturbo che peraltro fu la causa di quelle rappresaglie oggi così ingigantite e pubblicizzate, operate dalle Forze Armate della RSI e, principalmente, dai reparti tedeschi.

La Resistenza dunque non solo non fu guerra, ma soprattutto non fu guerra di popolo. Non aggiunse nulla al determinarsi degli avvenimenti bellici e aggravò le condizioni di vita delle popolazioni.

Come sempre avviene, i vincitori, nel redigere la storiografia ufficiale, allargano, s’inventano, romanzano e l’immagine finale che giunge alla pubblica opinione, soprattutto a quelle generazioni che non hanno vissuto nulla di quegli avvenimenti, diventa tutt’altra cosa rispetto alla realtà dei fatti.

Nella colonna sonora delle rievocazioni resistenziali si ascoltano sempre le note di Bella ciao. Ebbene, molti storici affermano che nessun reparto partigiano cantò mai quella canzone. Le parole sarebbero state scritte nel 1948 in occasione di un congresso comunista tenutosi a Praga e furono abbinate alla musica di un canto ottocentesco delle mondine padane. C’è addirittura chi afferma che si tratta di una musica ancora più antica, di origine yiddish.

A Milano, nei giorni immediatamente successivi al 25 aprile, lo studio fotografico Publifoto reclutò un gruppo di comparse, le dispose agli incroci delle strade e sui tetti, facendo loro imbracciare mitra e fucili, truccandoli cioè da partigiani, per immortalare, ad uso dei posteri, quegli scontri armati che in realtà non ci furono. Il titolare di Publifoto, Vincenzo Carrese, è presente in molti di questi scatti con faccia truce e mitra spianato. Si tratta di foto che hanno fatto il giro dei giornali e dei libri di storia: una di queste è stata usata – ancora nel 2000 – da Einaudi per la sovra copertina e il cofanetto del Dizionario della Resistenza.

Il cinema fu subito a disposizione delle nuove necessità propagandistiche. Il primo a mettersi in mostra fu Roberto Rossellini che sfornò tre film antifascisti di grande successo: Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero. Poi seguirono tutti gli altri, registi bravi e no, in una sequela di rappresentazioni che ancor oggi non si è conclusa e che si è anzi arricchita del nuovo mezzo di comunicazione, quello televisivo.

Rossellini, l’apripista dei film antifascisti – è opportuno ricordarlo -, grande amico di Vittorio Mussolini, iniziò la sua carriera alla fine degli anni Trenta, partecipando come sceneggiatore al film Luciano Serra pilota, vincitore, alla Mostra del cinema di Venezia del 1938, della Coppa Mussolini. Prima della fine della guerra, come regista, fece in tempo a realizzare una trilogia di film esaltanti i valori fascisti e dell’Italia in armi: La nave bianca, L’uomo della croce e Un pilota ritorna, la cui sceneggiatura era dello stesso figlio del Duce che si firmava con l’anagramma Tito Silvio Mursino.



La valutazione militare

Ci sono tre criteri di valutazione oggettivi per definire una forza combattente e un reparto militare. Occorre essere riconoscibili a distanza, inquadrati in un organico e conformarsi alle leggi ed agli usi di guerra.

I partigiani, a differenza dei combattenti della RSI, operavano in clandestinità, in borghese, imboscando le armi, usando falsi nomi – enfatizzati come nomi di battaglia -, erano pochi e si nascondevano, prevalentemente in montagna. Evitavano lo scontro aperto e si dedicavano soprattutto al sabotaggio e ad attentati terroristici.

L’attore Giorgio Albertazzi, volontario nella RSI, nel suo libro di memorie, Un perdente di successo, scrive: “Forse non dovrei dirlo – non sta bene! – ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti”.

Militarmente nessuno può dare dignità di esercito o di forza belligerante alla Resistenza o negarla ai combattenti della RSI. Questo giudizio è confortato da una sentenza del 26 aprile 1954 del Tribunale Supremo Militare Italiano che afferma: “Non può negarsi, alla stregua dell’articolo 40 che gli appartenenti alle Forze Armate della RSI abbiano conservato la qualità di belligeranti, né è possibile concepire che tali Forze avessero detta caratteristica solo di fronte agli alleati e non al cospetti dei cobelligeranti italiani”.

“Ecco come si spiega il trattamento di prigionieri di guerra concesso dagli alleati ai militari delle Forze Armate della Repubblica Sociale Italiana, sin dai primi mesi del 1944. Ciò vale a smentire quelle teorie unilaterali che, ormai, sono del tutto superate, con cui si vuole negare il carattere di belligeranti ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana, argomentando in maniera erronea e fallace, in base alle norme della legislazione italiana post-fascista, che, come si è rilevato, non ha, sotto il profilo del diritto internazionale, alcuna veste e alcuna autorità al riguardo”.

“Ma pure da un altro punto di vista si conferma la tesi suesposta. Accertato che la Repubblica Sociale Italiana concretava un governo di fatto, soggetto di diritto internazionale, entro certi limiti, non poteva, sotto questo riflesso, negarsi ai suoi combattenti la qualifica di belligeranti. Anche (…) perché, comandati da capi responsabili, portavano segni distintivi e riconoscibili a distanza, apertamente le armi, e si conformavano, per quanto era possibile, nei confronti dell’avversario belligerante, alle leggi ed agli usi di guerra” (…) Infatti il n. 2 del detto articolo 4 (…) precisa che “sono prigionieri di guerra i membri delle altre milizie e i membri degli altri corpi volontari, ivi compresi quelli dei movimenti di resistenza organizzati, appartenenti ad una parte in conflitto e agente fuori e all’interno del loro territorio, anche se questo territorio è occupato, purché queste milizie o corpi volontari, ivi compresi i movimenti di resistenza organizzati, adempiano alle condizioni seguenti: a) avere a capo una persona responsabile per i suoi subordinati; b) avere un segno distintivo fisso e riconoscibile a distanza; c) portare apertamente le armi; d) conformarsi, nelle loro operazioni, alle leggi e agli usi di guerra”.

“I partigiani invece, non possono essere considerati belligeranti, non ricorrendo nei loro confronti le condizioni che le norme di diritto internazionale cumulativamente richiedono”.

Il giudizio militare poi, non può esimersi da una, storicamente corretta, valutazione numerica dei due schieramenti.

Alla fine del 1943 i partigiani erano, in tutto il Nord Italia, poche migliaia. Le fonti di tendenza fascista riferiscono di 3-4.000 terroristi, le fonti resistenziali, più celebrative e “ottimistiche”, arrivano ad indicare il numero di 10.000.

Nel corso del 1944, soprattutto a partire dalla primavera, la consistenza del movimento partigiano arrivò a cifre maggiori. Mentre, infatti, si moltiplicavano le adesioni ai reparti della RSI, si verificava anche l’incremento di renitenti alla leva. Alcuni di questi decidevano di collegarsi con i membri della Resistenza, molti altri si nascosero, pensando solo a far salva la pelle, aspettando senza rischi il trascorrere degli avvenimenti. Le cantine e le soffitte si popolarono e furono mimetizzate grazie a porte nascoste, stratagemmi e “opportune” opere murarie, come oggi siamo abituati a vedere nei telegiornali, quando vengono scoperti i rifugi dei latitanti di mafia e camorra.

Nonostante non si trattasse di combattenti, il loro conteggio finì spesso ad ingrossare la cifra degli aderenti alla Resistenza. Si arriva così ad ipotizzare, nella primavera-estate del 1944, numeri che vanno dai 30.000 ai 70.000. Il capo partigiano Ferruccio Parri parla di 40.000; Luigi Longo, in un suo rapporto a Mosca, riferisce la cifra di 38-50.000 (dei quali dai 30 ai 40.000 i comunisti), Giorgio Bocca si spinge ad ipotizzare una consistenza di 50-70.000 partigiani.

A seguito della repressione operata dai reparti fascisti e tedeschi, nell’inverno 1944-45, quei numeri si ridimensioneranno drasticamente: c’è chi afferma addirittura che la Resistenza, in quel momento, poteva contare solo su 10.000 uomini. A determinare questo risultato contribuirono certamente i caduti negli scontri a fuoco e il numero dei prigionieri fatti dalle forze dell’Asse, ma anche la fuga di parecchie migliaia di loro all’estero. Dalla sola Ossola ripararono in Svizzera oltre 3.000 partigiani.

Ebbe anche il suo peso il Proclama Alexander del 13 novembre 1944. Il messaggio, trasmesso via radio dalla emittente Italia combatte, rivolto alle formazioni del Comitato di Liberazione Nazionale, ordinava di “cessare le operazioni organizzate su larga scala, di conservare le munizioni e i materiali, (…) di continuare nella raccolta delle notizie di carattere militare concernenti il nemico, studiare le intenzioni, gli spostamenti e comunicare tutto a chi di dovere”.

Gli “alleati” dunque, mentre si ripromettevano di utilizzare la Resistenza italiana per facilitare l’arrivo delle loro truppe al Nord, con azioni di sabotaggio e la conquista, all’ultimo momento, di posizioni chiave, nelle città, nelle fabbriche, negli snodi ferroviari, giudicavano militarmente inutili le attività partigiane dei mesi precedenti, tanto da ordinarne la sospensione e sollecitare esclusivamente un’attività di spionaggio.

Con l’avvicinarsi della fine, il numero dei resistenti tornò a crescere. I rischi erano diminuiti e il vento che tirava indicava chiaramente quale fosse il carro del vincitore sul quale conveniva saltare. Alla vigilia del 25 aprile 1945 si può parlare di una cifra di 90.000 unità.

Dalla parte della RSI i numeri sono ben diversi.

E inesatto affermare che dopo l’8 settembre la totalità dell’esercito italiano si dissolse. “Tutti a casa” non riguardò tutti. Anche se questo è un fatto subdolamente ignorato dalla storiografia ufficiale, di fronte al tradimento del Re e di Badoglio, nonostante Mussolini fosse ancora tenuto agli arresti in una località segreta, nonostante il Partito fascista sembrasse dissolto come neve al sole, non tutti abbandonarono le armi o voltarono le spalle all’alleato tedesco. Questa “rivolta alla resa” avvenne in modo massiccio nei reparti di stanza in Germania, in Francia, nel Baltico, ma rappresentò un fenomeno consistente anche in Italia. A La Spezia si costituì immediatamente un’unità di fanteria di marina che successivamente divenne la famosa Divisione “Decima” con i suoi battaglioni e i suoi mezzi d’assalto, comandata dalla medaglia d’oro Junio Valerio Borghese.

Rimasero in campo, nonostante tutto, anche reparti della Nembo e della Folgore. Centinaia di piloti da caccia, bombardieri e ricognitori, eliminati i simboli sabaudi dalle carlinghe degli aerei, continuarono a volare e combattere.

Quando fu costituita la Repubblica Sociale Italiana e fondato il nuovo esercito, già 80-90.000 soldati italiani erano in campo “per l’Onore d’Italia”, automobilitatisi a proseguire la guerra accanto alle truppe del Terzo Reich.

La leva volontaria – indetta subito dopo la costituzione del governo repubblicano presieduto da Mussolini, la fondazione del nuovo Partito fascista diretto da Pavolini e la formazione dell’esercito repubblicano sotto la guida del maresciallo Graziani – incontrò un’adesione massiccia, superiore ad ogni più ottimistica previsione.

La stragrande maggioranza di chi indossò le uniformi dei reparti delle Forze Armate della RSI era composta da volontari. Il numero totale di questi combattenti superò la cifra di 800.000. Senza comprendere quei fascisti che avevano scelto i reparti delle Waffen SS – che organizzavano i volontari provenienti da tutta Europa -, le forze di Polizia e la Guardia di Finanza.

L’esercito aveva 405.000 effettivi; la GNR (la Guardia Nazionale Repubblicana) 150.000; la Marina 26.000; la Decima Mas 25.000; l’Aviazione 79.000; le Brigate Nere (la struttura militare del PFR comandata da Pavolini) 110.000; la Legione autonoma Ettore Muti 3.500; il Servizio Ausiliario Femminile 5.500; le Fiamme Bianche (i volontari giovanissimi, dai 13 ai 17 anni) 5.000.

Nonostante per molti mesi si fosse diffusa la convinzione della ineluttabilità della sconfitta, nonostante il grande caos dei giorni finali – aprile 1945 -, le Forze Armate della RSI tennero fino alla fine. Abbracciando quella bandiera, i volontari avevano compiuto una scelta ideale e non dettata da interesse egoistico. Non erano in cerca di benemerenze, né speravano in futuri benefici, quei ragazzi erano lì per testimoniare l’idea di una rivoluzione nazionalpopolare, per tutelare l’onore della Patria, per adempiere al proprio dovere di italiani e di fascisti.

“Ce ne freghiamo! La signora morte
fa la civetta in mezzo alla battaglia,
si fa baciare solo dai soldati.
Forza ragazzi! Facciamole la corte,
diamole un bacio sotto la mitraglia,
lasciamo le altre donne agli imboscati”.

E 100.000 di loro trovarono la morte. Altri 400.000 finirono nei campi di concentramento e nelle carceri.


Le rappresaglie

Quello delle rappresaglie è un discorso che merita un particolare approfondimento e necessità di considerazioni storicamente oggettive. Innanzitutto perché nella storiografia propagandistica le rappresaglie sono state ingigantite e messe in primo piano, artatamente ignorandone o minimizzandone le cause scatenanti. Poi perché lo studio di queste tristi pagine consente di osservare nella giusta luce quella che fu la strategia messa in atto dai partigiani, soprattutto nella sua maggioritaria componente comunista.

Quando, l’8 settembre 1943, il re e Badoglio proclamano l’armistizio e il cambio di fronte, in Italia erano presenti numerosi reparti tedeschi, fino a quel momento come alleati. Era presumibile che i soldati del Reich, traditi sul campo, avrebbero mutato il loro atteggiamento nei confronti dell’Italia e degli italiani. Vittorio Emanuele e il governo del Sud, oltre a compromettere l’onore della nazione e macchiarsi d’infamia con il precipitoso abbandono di Roma e la fuga a Brindisi, si assunsero la grave responsabilità di lasciare le popolazioni in mano ad un esercito che legittimamente si sentiva tradito e non più sicuro sul nostro territorio.

A parte le considerazioni di ordine politico e ideale che si possono fare circa la Repubblica Sociale, va riconosciuto che, a fronte dell’atteggiamento scellerato della monarchia, la formazione al Centro-Nord di un governo fedele ai patti, con un esercito belligerante a fianco dei tedeschi, ha ricoperto anche un ruolo di mediazione e tutela verso la sicurezza e gli interessi della popolazione.

Di segno diametralmente opposto la strategia della Resistenza. L’obiettivo cui si puntava era la caduta del Fascismo e la candidatura dei partiti antifascisti a partecipare al governo che, a guerra finita, le forze vincitrici avrebbero imposto all’Italia; anche se il prezzo da pagare era rappresentato dall’aumento delle sofferenze e dei lutti per i cittadini.

C’erano antifascisti che, ascoltando il rombo dei bombardieri anglo-americani sopra le nostre città e gli schianti provocati dai grappoli di bombe, si fregavano le mani: “più distruzioni, più morti sotto i bombardamenti, maggiore diventa l’odio contro Mussolini che ha dichiarato la guerra, prima cadrà il Fascismo”.

Le tristemente note rappresaglie, prevalentemente eseguite dall’esercito tedesco, furono l’obiettivo di questa mentalità. La Resistenza, come abbiamo visto, non fu una forza belligerante, evitò puntualmente lo scontro aperto, ma si dedicò ad attività terroristiche, ad agguati proditori e sabotaggi indiscriminati.
Gli attentati furono il risultato di una pianificazione fatta dai partigiani, soprattutto dai GAP comunisti, finalizzata ad ottenere proprio una reazione da parte dei tedeschi, che quindi non si può considerare “effetto collaterale”, ma conseguenza voluta di un calcolo scellerato. Attraverso la sofferenza della popolazione per le fucilazioni eseguite per rappresaglia, i GAP intendevano diffondere l’odio contro i fascisti e tedeschi. Ed è qui che si dimostra quanto sia irreale la tanto sbandierata Resistenza come guerra di popolo.

Nei civili, infatti, certo gravemente colpiti da questi fatti, oltre ad aumentare l’insofferenza per le devastazioni prodotte dalla prosecuzione della guerra, cresceva anche l’indisponibilità a collaborare con i partigiani che apparivano chiaramente come i responsabili dell’ulteriore peggioramento della situazione.

Giorgio Bocca, in merito, è molto chiaro: “Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E’ una pedagogia impietosa, una lezione feroce”.

La scelta terroristica fu fatta fin dall’inizio.

Il giornalista fascista Enzo Erra, raccontando le circostanze del suo arruolamento come volontario, ricorda: “A chi vi parla, una di queste pedagogiche lezioni venne impartita per così dire all’istante, mentre stavo firmando il foglio di arruolamento nel cortile di una caserma romana della Milizia a Monte Mario, e vide rientrare con un morto e due feriti un plotone che si era appena formato, ed era uscito per l’addestramento, senz’armi, in maglietta, pantaloncini e scarpe da ginnastica. Era il 30 settembre 1943. Il caduto, quasi certamente il primo delle forze repubblicane, aveva 17 anni e si chiamava Salvatore Morelli. I suoi coetanei, che lo videro tornare senza vita, e che si stavano arruolando per combattere contro gli anglo-americani, appresero così che sarebbero stati coinvolti in una guerra civile. Tuttavia, a quella prima aggressione terroristica non seguirono ritorsioni, e nemmeno ve ne furono dopo altri agguati dello stesso tipo. Quando però i fascisti videro cadere – per citarne solo due tra i tanti – il federale di Ferrara Igino Ghisellini a novembre, e un mese dopo quello di Milano, Aldo Resega – anche loro finirono per reagire. Le loro ritorsioni, tuttavia, non si potevano nemmeno paragonare a quelle dei tedeschi, ben più violente e indiscriminate. Questo portò i GAP, pur senza trascurare gli obiettivi fascisti, a preferire quelli tedeschi, nella convinzione che lo sdegno e l’orrore si sarebbero riversati anche contro la RSI e contro chi ne portava le insegne”.

Tutti conoscono la tragica rappresaglia delle Fosse Ardeatine, ma pochi sono informati sui dettagli dell’attentato che scatenò la pesante risposta tedesca. Il 23 marzo 1944 una bomba, esplosa a Roma, in via Rasella, uccise 32 militari del battaglione Bozen, composto da altoatesini in servizio di leva nella polizia, e ne ferì 50, dei quali, nei giorni successivi, ne morirono 14. I soldati stavano tornando in caserma ed erano senza armi. Rimasero uccisi anche 5 passanti, tra cui un bambino, e 20 furono ricoverati con gravi lesioni.

Dalla Germania giunse l’ordine di rappresaglia – 10 italiani per ogni tedesco – se non fossero stati individuati gli autori della strage.

La radio trasmise ripetutamente appelli affinché gli attentatori si consegnassero per scongiurare l’esecuzione degli ostaggi, ma nessuno si presentò. Il giorno successivo fu eseguita la rappresaglia.

Molti conoscono – per le celebrazioni periodiche – la fucilazione di 15 antifascisti avvenuta a Milano, in piazzale Loreto, il 10 agosto 1944. Quasi nessuno è invece al corrente dell’attentato di due giorni prima che fu all’origine della rappresaglia. Una bomba, collocata su un camion tedesco, era esplosa provocando la morte di cinque soldati tedeschi e 13 civili italiani, tra i quali una donna e tre bambini.

Il camion era carico di generi alimentari destinati alla popolazione. Tra i morti tedeschi c’era un maresciallo ben noto ai milanesi – che lo avevano soprannominato el Carlùn – perché ogni mattina distribuiva in quella zona latte per i bambini e viveri per gli indigenti, in quei tempi, molto numerosi.

A Marzabotto, la rappresaglia più drammatica – 770-780 morti che nella propaganda resistenziale sono diventati 1.830, 3.000, “quasi 5.000” e persino 8.000 – si arrivò dopo una sequela di attentati antitedeschi durata mesi. Il comando germanico si decise così – siamo nel settembre del 1944 – a effettuare un rastrellamento su vasta scala. L’operazione fu annunciata dall’affissione di manifesti in tutti i borghi del circondario.

Gli abitanti di Marzabotto, spaventati, avrebbero voluto scendere a valle e allontanarsi dalle località piene di quei partigiani verso i quali si sarebbe indirizzato il rastrellamento, ma i comunisti della Stella Rossa li dissuasero: stanno per arrivare gli americani; aspettate, siete più sicuri qui, se arriveranno i tedeschi vi difenderemo noi.

Il comando tedesco decise di inviare una pattuglia a parlamentare con i comandanti di Stella Rossa per arrivare a una tregua: voi sospendete ogni forma di terrorismo e di guerriglia, noi fermiamo il rastrellamento. Per tutta risposta i partigiani trucidarono i parlamentari nei pressi di Rioveggio.

I tedeschi a questo punto sono inferociti. Partono i reparti verso la zona di Marzabotto e il territorio viene ispezionato palmo a palmo. I partigiani scappano verso le montagne, lasciando, dopo averla inutilmente trattenuta, isolata e indifesa la popolazione civile.

E questi sono alcuni dei molti esempi che si potrebbero ricordare. Dietro le rappresaglie di quegli anni esiste un numero altissimo di agguati e sabotaggi il cui unico scopo – peraltro, come abbiamo visto, apertamente dichiarato – era quello di inasprire la situazione. Solo tra i tedeschi i morti per attentati furono circa 5.000. E poi c’erano gli italiani, i soldati della RSI e i civili che passavano per caso in quel posto e in quel momento.

Albertazzi ricorda: “Altri atti di guerra a Sestino: con un filo di acciaio teso sotto un ponte fecero sbandare un altro nostro autocarro, che fu attaccato da ogni parte: otto morti, tutti ritrovati con la M rossa (che la “Tagliamento” portava sulle mostrine) infilata negli occhi (la M era quella della firma di Mussolini, con la prima gamba, come si dice, più grande e staccata dalle altre due: un gioco da “ragazzi” infilarla nell’occhio e farlo schizzare fuori)”.

Nel novero degli orrori della Seconda Guerra Mondiale non ci si può certo fermare al ricordo delle rappresaglie tedesche, come la storiografia ufficiale vorrebbe. Furono queste, infatti, azioni militari eseguite su ogni fronte, da tutti gli eserciti, applicando rapporti numerici ben più feroci di quelli usati da italiani e tedeschi. I francesi usarono una proporzione di uno a ottanta, gli americani di uno a centodieci, i russi di uno a centoventi.

Ci furono anche le stragi senza nessuna diretta causa scatenante, cioè senza nessuna possibile giustificazione. Esempio indicativo può essere il massacro di Biscari. Il generale americano Patton, comandante della Settima Armata, prima dello sbarco nel sud della Sicilia, arringò ufficiali e soldati ordinando loro di non fare prigionieri, non fossa’ltro per non dovergli dare da mangiare.

Appena giunti nella zona dell’aeroporto di Biscari, Santo Pietro e Piano Stella – l’attuale Acate – tra Ragusa e Gela, gli americani applicarono gli ordini e lasciarono per terra e nei fossi, ai bordi delle strade, 81 italiani e 3 tedeschi; si trattava di inermi braccianti e di soldati che si erano già arresi e avevano gettato le armi. Alcuni di loro erano in borghese.

Il presidente Napolitano, sollecitato da un senatore del PDL che sull’argomento ha appena scritto un libro, ha ricevuto, alla fine di settembre, l’ultimo sopravvissuto di quel massacro. L’avvenimento è stato segnalato solo da qualche attimo di telegiornale e ignorato da quasi tutta la stampa. I morti per mano dei vincitori, evidentemente, non meritano di essere onorati e neppure ricordati. Quelli dei vincitori non sono mai “crimini di guerra”. Si è saputo addirittura che il nome di alcune di quelle vittime era stato inserito negli elenchi dei disertori.

E poi c’è la tremenda pagina dei bombardamenti terroristici contro le nostre città e le popolazioni inermi, che provocarono ovunque devastazione e morte. Ci limiteremo qui a ricordare alcuni episodi, scegliendoli a simbolo dei sistemi usati – ancora oggi – per “liberare” i popoli ed “esportare” la democrazia.

Alla mattina del 25 settembre 1944 due aerei inglesi bombardarono un quartiere di Intra, il Cassinone, provocando 11 morti e numerosi feriti. Successivamente i piloti si diressero verso il lago e si misero a mitragliare, di fronte a Baveno, il battello Genova adibito al trasporto passeggeri tra i paesi del Lago Maggiore. Molti i feriti e 34 i morti; tutti civili, in maggioranza donne e bambini.

Il giorno dopo gli aerei tornarono e ricominciarono il loro macabro tiro a segno. Questa volta se la presero col battello Milano in rotta da Laveno a Intra. Morirono 10 militari e un numero imprecisato di civili dei quali furono recuperati 17 corpi, mentre altri rimasero sul battello che si inabissava. Cinque anni fa una spedizione di sub ha individuato sul fondale del lago il relitto; dalle foto effettuate si vedono chiaramente numerosi resti umani.

Il 20 ottobre 1944 un gruppo di bombardieri B24 e B27 “alleati”, partito dall’aeroporto di Foggia, era diretto alla zona industriale tra Milano e Sesto San Giovanni. Alcuni di questi aerei arrivarono sull’obiettivo, dove sganciarono il loro carico distruttivo, colpendo gli stabilimenti della Breda, altri proseguirono sull’abitato di Gorla.

Il tempo era bello, la quota di volo era bassa, la visibilità ottima, mentre i bombardieri sganciavano 342 bombe da 500 libbre sulle case e sulla popolazione, I piloti non si persero nulla dello spettacolo. 703 morti, 481 feriti, 300stabili di abitazioni distrutti. Erano le 11,24. La scuola elementare Francesco Crispi, in piena attività, fu tra i primi edifici ad essere colpiti. Una strage terrificante: 174 scolari dai 6 ai 12 anni; 20 tra insegnanti e mamme corse per prendere i figli; 18 bambini – il più piccolo aveva 11 mesi, il più grande 5 anni – che erano assieme a quelle donne.

Nel Mediterraneo facevano rotta tra le zone di guerra e i porti italiani le navi della Flotta Bianca. Ventidue ospedali viaggianti gestiti dalla Croce Rossa della quale portavano in modo estremamente visibile il simbolo (croce rossa su fondo bianco) sia sulle fiancate che sui fumaioli.

Gli aerei inglesi si divertirono ad attaccare, mitragliare e silurare queste navi, contro ogni convenzione internazionale ed ogni comportamento umanitario e civile. Una di esse, la Po, il 14 marzo 1941, di fronte a Valona, fu affondata da un aerosilurante inglese. Pochi riuscirono a salvarsi gettandosi in mare e raggiungendo la costa a nuoto: tra loro la figlia di Mussolini, Edda che svolgeva sulla Po il servizio di crocerossina. Solo due navi di questa flotta, alla fine della guerra, rimasero indenni.


* * * *

La Seconda Guerra Mondiale si proiettò sull’Europa con un’ombra di morte e distruzione senza eguali. Le rappresaglie, indubbiamente, fanno parte di questo quadro, e la Resistenza ha la responsabilità incontestabile di avere voluto, con il proprio terrorismo, l’inasprimento della situazione con grave danno per le popolazioni civili.


Il ruolo dei comunisti

Nell’ambito della Resistenza convissero due componenti politiche: una più moderata – monarchici, cattolici, i radicali di Giustizia e Libertà e i socialisti delle Brigate Matteotti – e una rivoluzionaria, egemonizzata dal Partito comunista.

Tra le due componenti non regnò mai l’armonia, non solo per le differenti radici culturali e ideologiche, ma soprattutto per le scelte strategiche e gli obiettivi perseguiti. I moderati, coscienti della debolezza del movimento partigiano nel suo insieme e dello scarso seguito presso la pubblica opinione, spingevano verso scelte attendiste: la loro attività non poteva andare altre la preparazione del fiancheggiamento agli eserciti anglo-americani nel momento dell’offensiva finale.
Il Partito comunista invece era per la linea terroristica e, come abbiamo visto, tutta la storia della Resistenza è caratterizzata dalla spregiudicata azione dei GAP, Gruppi di Azione Patriottica, strutturati militarmente, alle dirette dipendenze del PCI. Gli altri venivano appena tollerati, tanto per dare una patinatura di “ampio schieramento antifascista” alla loro lotta. Comparse ininfluenti in una strategia tutta ispirata agli interessi comunisti. Giovanni Guareschi era solito chiamarli “l’esercito degli utili idioti”.

Gianpaolo Pansa, giornalista di sinistra, oggi indicato come “revisionista”, ma che iniziò le sue indagini proprio nell’ambito della resistenza, ha scritto: “E’ indubbio che senza il PCI non ci sarebbe stata nessuna guerra partigiana. E la Resistenza si sarebbe svelata un’impresa modesta. Ma con il PCI la guerra di liberazione è diventata anche una guerra rivoluzionaria, per la conquista del potere in Italia. E questo progetto eversivo ha autorizzato un succedersi di errori, di menzogne, di intrighi, di soprusi, di delitti e di misteri: tutta robaccia occultata da una storiografia succube degli interessi di quel partito”.

Quando poi il dissidio sulle scelte strategiche si manifestava con troppa evidenza, i GAP non andavano troppo per il sottile. Ne è testimonianza la strage di Porzus cui abbiamo accennato.

Praticamente tutta la Resistenza finì per essere dominata dai comunisti. Si agiva in Italia, ma si decideva a Mosca. I partigiani cantavano Fischia il vento sull’aria della canzone russa Katiuscia. E cantavano anche:

“Noi siamo la canaglia pezzente,
noi siam chi suda e lavora,
finiam di soffrire che è l’ora.
Ai soviet stringiamo la mano,
l’Italia farem comunista,
a morte il regime fascista,
insorgiamo, che giunta è la fin.
Evviva la Russia, evviva Stalin”.

Fino all’inizio del 1944 la posizione dell’U.R.S.S., e conseguentemente del PCI, fu nettamente ostile alla monarchia italiana e al suo governo. Nella notte tra il 4 e il 5 marzo Palmiro Togliatti – allora noto come “il compagno Ercoli” – incontra nella capitale sovietica Giuseppe Stalin. Cosa si siano detti appare chiaro dalle scelte che nelle settimane successive vengono rese pubbliche.

Il 14 marzo il governo Badoglio viene riconosciuto dall’Unione Sovietica. Togliatti era già partito alla volta dell’Italia del sud – 6 marzo – intraprendendo un viaggio lungo e difficoltoso. E’ costretto a raggiungere in aereo prima Baku in Azerbaigian, poi Teheran e di lì il Cairo. Quando arriva a Napoli, sono passate tre settimane. Viaggia con la nave da carico Ascania scortata dagli inglesi che avevano amichevolmente organizzato quest’ultima parte del viaggio.

L’arrivo, il 27 marzo, è funestato da una violenta eruzione del Vesuvio. Così lo ricorda: “Già da molte ore, anche prima di arrivare in vista delle coste, una enorme massa di fumo che si addensava sul mare per decine di chilometri annunciava l’Italia (…) Il volto della Patria, di nuovo raggiunta dopo diciotto anni di esilio, aveva qualcosa di apocalittico”.

Si presenta nella sede della federazione partenopea del PCI che è quasi notte e si fa riconoscere dai dirigenti comunisti ancora presenti a quell’ora. In seguito questi ricorderanno le cose che li avevano più colpiti nel primo incontro con il compagno Ercoli: il buffo maglione a strisce orizzontali e il suo modo di parlare, “l’inflessione piemontese e le cadenze del russo”.

Il primo aprile rende nota, in una conferenza stampa, la nuova linea del Partito, che passerà alla storia come la Svolta di Salerno. “Bomba Ercoli” la definì Nenni: “Occorre mettere fine ad una situazione – affermò Togliatti – che vede da una parte un governo con potere ma senza autorità; dall’altra un movimento popolare che ha autorità senza il potere”; occorre perciò “creare un nuovo governo che abbia la simpatia delle masse attraverso l’appoggio dei partiti antifascisti”.

Di qui la decisione di accettare Badoglio e di far entrare il PCI nel suo governo. Commentò Benedetto Croce: E’ certamente un abile colpo della Repubblica dei soviet vibrato agli anglo-americani, perché, sotto colore d’intensificare la guerra contro i tedeschi, introduce i comunisti nel governo, facendoli iniziatori di una nuova politica sopra e contro gli altri partiti, che si troveranno costretti a seguirli, senza che quelli provino il minimo imbarazzo”.

Con la Svolta di Salerno appaiono chiari due elementi destinati ad ipotecare la storia italiana per parecchi decenni. Il PCI agiva come cordone di trasmissione delle decisioni e degli interessi del Cremlino. Da Mosca arrivavano le linee politiche, gli ordini e i finanziamenti. Contemporaneamente, i comunisti si inserirono nella lotta per il potere occupando, senza perdere tempo, posizioni privilegiate rispetto agli altri partiti. Al Sud al governo, al Nord motore della Resistenza. Avevano “messo il cappello” sulla realtà politica del “dopo” ancor prima che finisse la guerra e nonostante risultasse già chiaro come l’Italia fosse destinata alla sfera di occupazione occidentale. Gli anglo-americani erano già nel sud dell’Italia e l’Armata Rossa non poteva certo raggiungere il nord.

Questa situazione aiuta a comprendere il fatto che, nonostante l’Italia nella spartizione di Yalta fosse assegnata alla sfera USA, il PCI – il più forte partito comunista dell’occidente – da noi continuasse a ipotecare politica e cultura. Cominciò a farlo con la Costituente, col referendum istituzionale, coi primi governi della Repubblica, poi con le amministrazioni locali e i sindacati, sempre occupando posizioni chiave nel mondo della cultura, dello spettacolo e dell’informazione.

Essendo stati i motori della Resistenza – ed essendo stata la Resistenza beatificata e scelta come scrigno dei valori fondanti della Repubblica – i comunisti hanno goduto di un’immunità particolare, riuscendo a sopravvivere alle rivelazioni sui Gulag e sulle purghe staliniane, ai milioni di morti, ai fatti di Ungheria, a quelli della Cecoslovacchia, al crollo del muro di Berlino, alla stessa implosione dell’Unione Sovietica. Ecco perché, unico caso in Occidente, una parte politica completamente squalificata e compromessa con un passato di cui sempre più si conoscono i fatti tragici, criminali e fallimentari, è riuscita a riciclare i propri uomini tanto che ancor oggi, dopo averli visti a Palazzo Chigi, li ritroviamo ai vertici del secondo partito italiano e addirittura al Quirinale.

Occorre dunque risalire al ruolo del PCI nella Resistenza e nella Costituente per comprendere come siano ancora possibili, in Italia, fatti a dir poco sconcertanti: un presidente comunista, Napolitano, che non mostra alcuna vergogna nel commemorare il ventennale della caduta del Muro di Berlino, mentre il governo dichiara il proprio appoggio alla candidatura di un altro comunista, D’Alema, addirittura al ruolo di ministro degli esteri d’Europa.

Inoltre, dopo più di sessant’anni, lo spirito gappista serpeggia ancora. Quando le tensioni politiche aumentano esce dai suoi nascondigli pitturati di vittimismo e perbenismo.

Negli anni Sessanta e Settanta, nei tempi dei cosiddetti “anni di piombo”, i muri erano pieni di scritte tipo “uccidere un fascista non è reato”. E si uccideva. Ogni tanto si vedono ancora slogan di quel genere.

Il 16 ottobre 2006, a Reggio Emilia, un gruppo di comunisti impedì a Giampaolo Pansa la presentazione di un suo libro sulla guerra civile. Sventolavano un lenzuolo rosso sangue con la scritta: “Triangolo rosso, nessun rimorso”.

Lo spirito bolscevico esiste ancora e non solo a livello di base, dei “trinariciuti” come li chiamava Guareschi. Il leader del Partito Democratico, Pier Luigi Bersani, parlando del buon vicinato della sinistra con i “poteri forti” si è lasciato scappare (Corriere della Sera, 19 settembre 2009): “Se non ci fosse il suffragio universale vinceremmo sempre noi”.

Giorgio Bocca, in una recente intervista televisiva, per esternare tutta la sua contrarietà per l’esistenza del governo Berlusconi, mostrando la sua alta vocazione democratica, ha detto: “gli italiani (che lo hanno votato, cioè la maggioranza) sono imbecilli”.

La testa bifronte della politica antifascista – da una parte la spudoratezza americana, dall’altra la logica bolscevica – ha sempre evidenziato questa caratteristica: quando le elezioni premiano la parte avversa sono soliti giudicare cretini gli elettori, giustificando ogni forma di sabotaggio verso il nuovo governo e, se il caso, arrivano a bombardare il malcapitato paese, per “liberarlo”.

Forse è proprio questa la democrazia.


Le valutazioni politiche

Oltre a quella storica e militare è opportuno, per individuare il reale spessore e la fisionomia della Resistenza, approfondire i contenuti politici di cui era portatrice e rapportarli a quelli del mondo che combatteva.

Le varie componenti del movimento partigiano – liberale, socialista, radicale, cattolica, monarchica – si ricollegavano alle ideologie ottocentesche e a modelli politici ed economici già proposti e spesso già sperimentati con esiti deludenti. Non c’era nessuna idea nuova, nessuna rivoluzione, eccezion fatta per la componente comunista che proiettava nell’agone politico il miraggio della lotta di classe e della dittatura del proletariato. Un obiettivo che si concretava nell’azione sovversiva, violenta e sanguinaria, ma era destinato, almeno in Italia, a rimanere un’utopia. Il PCI, fin dai tempi della resistenza, come si è visto, si esauriva nel ruolo di longa manus sovietica in un paese ad influenza USA.

Praticamente tutte le forze politiche rappresentate nel movimento partigiano, chi per un verso, chi per l’altro, erano subordinate alle nazioni che stavano vincendo la Seconda Guerra Mondiale. Da una parte ci si affidava agli anglo-americani, dall’altra si parlava con una “vistosa cadenza russa”. Innanzitutto per un discorso militare (unica possibilità di vincere era che prima vincessero gli “alleati”) poi per una sudditanza politica (l’unica possibilità di entrare nei parlamenti della nascente repubblica era quello di scegliere o il partito americano o quello sovietico). La Resistenza dunque era una piccola minoranza, senza un progetto politico unitario e originale, tenuta assieme solo dall’odio al fascismo e dal desiderio di proporsi come nuova classe dirigente al servizio dell’invasore. Non c’erano grandi contenuti politici da offrire per ottenere consensi da parte della popolazione. Unica idea-forza da poter sfruttare e che il 25 aprile 1945 consentì di riempire le piazze, era quella della “fine della guerra”. Un’immagine certamente vincente, dato che le popolazioni, dopo cinque anni di tragedie, difficoltà e sacrifici, erano allo stremo. Ma si trattava di un’idea-forza senza particolari colorazioni politiche, che poteva essere cavalcata da chiunque in quel momento fosse stato il latore del messaggio: americani, inglesi o partigiani poco importava.

Dall’altra parte il Fascismo, nonostante il breve periodo nel quale era stato al potere – vent’anni in Italia; il nazionalsocialismo in Germania solo dodici – aveva rappresentato, esso sì, una vera rivoluzione, sia con il superamento della democrazia partitocratica e la mobilitazione delle masse nella costruzione della nazione – il popolo come baricentro del potere e il lavoro come cardine dell’economia -, sia con la realizzazione di grandi opere pubbliche, sia con la fondazione di un nuovo tipo di assetto societario – lo Stato sociale -, sia con la scelta di riscattare la libertà dei popoli dal giogo del monetarismo e della grande usura internazionale.

E l’obiettivo delle forze demo plutocratiche – centri della finanza cosmopolita e giudaismo – che scatenarono il secondo conflitto mondiale era proprio questo: bloccare queste rivoluzioni e, con ciò, impedire il riscatto e la libertà dell’Europa.

Joseph Goebbels scrisse sul Das Reich del 28 aprile 1944: “Durante le campagne nei diversi paesi d’Europa, il soldato tedesco ha potuto rendersi conto quanto sia progredita la Germania nel campo delle previdenze sociali di fronte agli altri Stati. Ancor più stridente è il contrasto con le condizioni sociali assolutamente retrograde che si riscontrano in Inghilterra e in America”.

In Italia lo Stato sociale fu realizzato ancor prima.

Sono del 1923 le leggi per la tutela del lavoro di donne e bambini, l’assistenza ospedaliera per i poveri, l’assicurazione contro la disoccupazione, l’assicurazione invalidità e vecchiaia, l’assistenza maternità e infanzia.
Sono del 1927 le leggi per l’assistenza agli illegittimi e abbandonati e l’assistenza contro la tubercolosi.

E’ del 1928 l’esenzione tributaria per le famiglie numerose; del 1929 l’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali e l’Opera nazionale orfani di guerra.

L’INAIL, l’Istituto nazionale Infortuni sul lavoro, è stato fondato nel 1933.

Nel 1935 è istituito il libretto di lavoro e l’INPS, Istituto nazionale per la Previdenza Sociale.

Nel 1937 la settimana lavorativa è ridotta a 40 ore, sono introdotti gli assegni familiari e fondate le Casse rurali ed artigiane.

Nel 1939 è introdotta la tessera sanitaria per gli addetti ai servizi domestici e nel 1943 è fondata l’INAM, Istituto nazionale per le Assicurazioni contro le Malattie.

Un capolavoro sociale, dunque, in gran parte sopravvissuto sino ad oggi, sessant’anni di regime antifascista sono riusciti solo a demolirne parti, anche fondamentali, e non hanno aggiunto nulla di sostanzioso.

In molte nazioni ancora oggi si è molto lontani da quelle conquiste sociali che il Fascismo aveva realizzato in pochi anni. Basti pensare al presidente USA Obama che, nonostante le promesse elettorali, non è ancora riuscito a introdurre nello Stato americano l’assistenza gratuita ospedaliera per tutti. In Italia Mussolini l’ha realizzata 86 anni fa.

Il discorso delle opere pubbliche e urbanistiche è ugualmente fondamentale per comprendere che tipo di Stato si stava realizzando. Dopo 64 anni di democrazia ci ritroviamo con un’Italia dove, in un primo momento, si è dato libero sviluppo all’edilizia selvaggia, poi si è costruita una fitta, spesso inutile, ragnatela di autostrade e infine sono sorti ovunque, come funghi, centri commerciali d’ogni tipo, vere e proprie città del consumismo. I beneficiari di queste operazioni sono stati: nel primo caso gli speculatori, nel secondo la famiglia Agnelli e tutti gli altri costruttori d’auto, nel terzo le multinazionali agevolate nel piazzare i prodotti della globalizzazione. Non certo il popolo.

Le opere del fascismo sono state di tipo diverso. Le bonifiche delle zone paludose e incolte: più di cinque milioni di ettari, prima inutilizzabili, consegnati al lavoro dei contadini. Paludi pontine, Tavoliere delle Puglie, latifondo siciliano, aree insalubri del Veneto, dell’Emilia Romagna, della Maremma, del Garigliano, del Volturno, del Sele, della Basilicata, di Sibari, della Sila, del Neto e della Sardegna.

Oltre 100 (cento!) città, borghi e villaggi realizzati ex novo per ospitare le nuove comunità agricole, minerarie ed artigiane. Acilia, Littoria (l’attuale Latina), Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Guidonia, Pomezia, Carbonia, per citare solo le più note. E si costruiva bene: durante il recente terremoto dell’Aquila le case edificate durante il regime fascista sono rimaste tutte in piedi; a venir giù sono state quelle “democratiche”, anche quelle recentissime, nonostante il fatto che, in teoria, la moderna tecnologia possa oggi offrire all’edilizia maggiore qualità, affidabilità e controlli.

In campo legislativo, in quegli anni, è stata realizzata una monumentale rivoluzione. L’intera impalcatura dei quattro codici, penale e di procedura penale, civile e di procedura civile, viene ricostruita completamente e nascono il codice forestale e quello di navigazione.

In campo economico fascismo e nazionalsocialismo avevano individuato il fulcro della lotta di potere che si stava sviluppando a livello planetario – che poi ha raggiunto le follie di cui oggi stiamo vivendo le conseguenze – cioè il progetto mondiali sta di governare l’intero globo attraverso il monetarismo, l’usura bancaria e la speculazione finanziaria.

“Contro Giuda, contro l’oro, sarà il sangue a far la storia”, cantavano i volontari della RSI.

Il governo Mussolini aveva realizzato un saldo controllo della rete bancaria, aveva contrapposto Banche di Stato a quelle della speculazione privata e aveva istituzionalizzato la diffusissima, capillare struttura delle Casse di Risparmio, costringendole a rigidi vincoli statutari no profit. Aveva inoltre collegato strettamente la Banca d’Italia agli Enti statali, raggiungendo l’obiettivo del suo controllo ed evitando che divenisse – come oggi invece è avvenuto – terra di pascolo di gruppi privati.

E’ sempre opportuno ricordare che il governo della Germania, in quegli anni, nazionalizzava la Banca Centrale, affermando in modo in equivoco che il proprietario della moneta deve essere il popolo. Contemporaneamente Stalin privatizzava l’Istituto di emissione sovietico, vendendolo alla finanza ebraico-americana.

I combattenti della RSI, ovviamente con un’ampia gamma di differenziazioni individuali, erano portatori di un’idea nuova ed erano i testimoni attivi di una rivoluzione che aveva cominciato a realizzarsi, con successo. Dall’altra parte, nella resistenza, quelli che combatterono in buona fede, erano spinti da una generica voglia di libertà che, come abbiamo visto, spesso si confondeva con il prorompente desiderio di vedere la fine della guerra.

Il fascismo fu politicamente una fucina di idee, culturalmente un’eccezionale esplosione di creatività, scientificamente un opificio di ingegni ed inventiva. Ancora oggi l’architettura e il design prendono le mosse dalle correnti che in quegli anni si formarono. Il Futurismo ha condizionato tutto il mondo artistico.

L’aviazione italiana era ammirata nel mondo. A New York fu dedicato un viale a Italo Balbo, in onore della transvolata atlantica del 1933, nella quale il quadrumviro della Marcia su Roma comandò uno squadrone di 25 idrovolanti.

Erano gli anni di Guglielmo Marconi e delle sue invenzioni. I primi studi sulla fissione nucleare furono fatti all’Università di Roma.

Durante il Fascismo si formò una gioventù estremamente ricca di idee e cultura. Una parte di questa visse quest’esperienza anche come scelta di militanza politica e si mise in prima fila in ogni opportunità che la rivoluzione le offriva. Scrive Alberto Bairati, redattore di Vent’anni, il giornale di Guido Pallotta, “per noi il Fascismo doveva essere un qualcosa che rendesse gli uomini migliori, più puri, più onesti, più generosi, che li facesse mettere a disposizione del Paese”.

Erano i giovani entusiasti, quelli destinati a divenire la nuova classe dirigente del fascismo. Ma da militanti, sin dall’inizio della guerra, coerentemente partirono volontari e furono tra i primi a morire.

D’altra parte, per la Repubblica nata dalla resistenza non esisteva una classe dirigente alternativa che si fosse preparata vivendo un’altra rivoluzione, frequentando altre scuole, forgiandosi ad un’altra cultura.

Quasi tutti i nuovi governanti erano cresciuti nell’Italia fascista esattamente come i Pallotta, Giani, Ricci, Pavolini, Mezzasoma. La nuova classe dirigente era dunque formata da individualità che, per scelte che si sono differenziate nel corso delle esperienze, degli avvenimenti, degli anni, o – la maggioranza – per convenienza, aveva preso le distanze dal Ventennio, ma si erano preparati nelle università del fascismo, nei GUF – i gruppi universitari -, nei Littoriali, nelle redazioni dei tantissimi giornali fascisti. Mi riferisco, tanto per fare qualche nome, nel mondo della politica, a personaggi come Andreotti, Fanfani, Ingrao, Moro, Preti, Spadolini e Taviani. Nel mondo del giornalismo, a Biagi, Bocca, Gorresio, Orlando, Rusconi, Montanelli e Zangrandi. Nel mondo della cultura a Quasimodo, Ungaretti, Montale, Gatto, Dessì, Pasolini, Pratolini, Pavese, Vittorini e Guttuso. Nel mondo del cinema a Rossellini, Antonioni, Comencini, lattuada, Lizzani, Zavattini e Blasetti.

Nonostante fosse dichiarata pregiudizialmente “antifascista”, la realtà che si andava delineando necessariamente pescava uomini e idee proprio nel mondo che voleva negare. Togliatti, dietro le quinte, invitava i dirigenti del PCI a imparare dal Fascismo; egli arrivò, nei suoi rapporti di partito, a indicare l’ideologia fascista come “un fattore essenziale nella formazione della sua base di massa”.

Affermò inoltre: “Se l’industria italiana è ancora un’industria debole in paragone con altri paesi, specialmente per la mancanza di materie prime, dal punto di vista della sua organizzazione interna è stata portata dai fascisti a un grado di sviluppo che si avvicina a quello dei paesi avanzati”. Togliatti individuava nel sindacato e nel dopolavoro fascista le organizzazioni di massa da studiare ed emulare. E’ molto chiaro nel definirli non meri fiori all’occhiello propagandistici del regime, ma “istituzioni effettivamente funzionanti e dinamiche della società civile”.

La Resistenza dunque, oltre a non aver avuto un suo patrimonio di idee nuove, non disponeva neanche di una propria classe dirigente. Le strade che si offrivano per il “dopo” erano caratterizzate principalmente dal servilismo ai blocchi dei vincitori della guerra – Occidente e URSS – coll’aggiunta di un forte condizionamento del Vaticano e della sua capillare rete clericale, ansiosa, dopo vent’anni di Stato forte, di tornare a muoversi con quella libertà e invadenza, come già goduta nei lunghi secoli del suo potere temporale.

Due mondi si stavano scontrando dunque, uno realmente rivoluzionario, sociale, popolare, ricco di idee, di creatività, di intraprendenza e di ardimento, battuto ma non rassegnato; un altro che nasceva dalla sconfitta – accettata con soddisfazione -, che rinunciava ad ogni sovranità ed era apertamente servile verso i nuovi padroni. Un mondo portatore di una concezione della politica, dello Stato e della partecipazione grigia, opaca, triste e deludente.

Oggi, dopo 64 anni, la politica è praticamente morta, le idee sono uscite dal dibattito e il confronto si esaurisce nel gossip e nelle contrapposizioni personali. La gente si disinteressa, le sedi di partito sono vuote, quando non sono addirittura chiuse. Sono rarissimi i libri che trattano la storia di questi decenni, ancor meno quelli che propongono le idee di questi tempi democratici, mentre sono usciti, e continuano a uscire con ritmo incalzante, migliaia di libri, film, documentari, sull’Europa fascista e nazionalsocialista di quei pochi anni tra le due guerre mondiali.


Il giudizio morale

Abbiamo svolto considerazioni sui combattenti della RSI e sui partigiani dal punto di vista storico, militare e politico e abbiamo anche affrontato il tema del rispetto dovuto a chi, in buona fede, combatte per un’idea e offre la vita per la sua affermazione.

Ma c’è una fetta della storia della guerra civile che rappresenta un capitolo a sé, non trova giustificazioni e, anzi, configura una questione morale insormontabile e ineludibile. Ci riferiamo agli assassinii perpetrati, a guerra finita, dopo il 25 aprile 1945, su fascisti o presunti tali e parenti di fascisti. I casi di persone fatte oggetto di vendette personali, o di famiglie benestanti massacrate per saccheggiarne i beni furono all’ordine del giorno.

Non si tratta di episodi marginali, provocati da qualche esaltato, di casi sporadici e isolati; si tratta di una mattanza sistematica, che ha insanguinato il nord Italia per mesi e, in alcune zone, per anni. E’ un’infamia che coinvolge tutta la cosiddetta “guerra di liberazione”: la Resistenza interna – sia nella base che nelle dirigenze, perché, anche quando non furono coinvolte direttamente nei crimini, tutti trattarono la questione con estrema disinvoltura, spregiudicatezza e omertà – e anche le Forze Armate “alleate” che lasciarono volutamente mano libera ai massacratori. Basti pensare a ciò che avvenne a Trieste dopo la cosiddetta liberazione: i partigiani di Tito arrestavano, uccidevano e deportavano gli italiani nonostante la presenza in città delle truppe neozelandesi.

L’istruzione operativa n. 5 del quartiere generale “alleato”, inviata il 4 aprile 1945 ai comandi della Quinta e Ottava Armata, definisce i comportamenti da tenere nei confronti delle formazioni partigiane per quanto riguarda il trattamento da riservare ai prigionieri fascisti: “E’ certo che al loro arrivo nell’Italia settentrionale, gli alleati troveranno una situazione nella quale i partigiani avranno già intrapreso azioni violente contro militari e funzionari fascisti, azioni che potranno prendere la forma di esecuzioni, pestaggi, imprigionamenti o destituzione dagli incarichi. L’atteggiamento degli alleati sarà il seguente:
a) nessuna azione verrà intrapresa rispetto a esecuzioni, pestaggi o destituzioni decise dai partigiani prima del loro arrivo,
b) i fascisti precedentemente imprigionati dai partigiani non saranno, salvo casi eccezionali, liberati dalle autorità alleate, ma rimarranno a disposizione delle autorità italiane per i processi di epurazione che essi vorranno intraprendere”
Roberto Battaglia, comandante di Giustizia e Libertà e primo “storico” della resistenza, affermò: “L’epurazione dobbiamo farla adesso, ché dopo la liberazione non si farà più, perché in guerra si spara, finita la guerra non si spara più”.

Il coinvolgimento dei comandi “alleati” e di tutta la Resistenza ha indotto la storiografia ufficiale a minimizzare, nascondere e negare. Lo fece, spudoratamente, Mario Scelba, allora ministro dell’Interno, l’11 giugno del 1952, affermando in Parlamento che il numero delle vittime accertate era solo di 1.732. Lo hanno continuato a fare gli storici “accreditati”, i registi in cerca di successo e i giornali compiacenti.

Afferma Giampaolo Pansa: “Una grande bugia nasce da un insieme di reticenze, di omissioni, di piccole menzogne ripetute mille volte, di distorsioni della verità. Tutte giustificate dal pregiudizio autoritario che la storia di una guerra la possono raccontare solo i vincitori. Anzi, uno solo dei vincitori. Mentre i vinti debbono continuare a tacere”.

“I vincitori – afferma Pansa – si sentono gli unici custodi del solo racconto autorizzato e legittimo del conflitto interno che insanguinò l’Italia fra l’autunno del 1943 e l’aprile del 1945. Per poi sfociare in una dura resa dei conti sui fascisti sconfitti. E tutto ciò contraddice il racconto da loro difeso deve essere smentito o, meglio ancora, taciuto, ignorato, cancellato”.

La congiura del silenzio è stata così massiccia che spesso l’individuazione dei numeri esatti è risultata quasi impossibile. Stiamo infatti parlando di un censimento che riguarda anche corpi che sono stati fatti sparire e fosse comuni che non sono ancora state rintracciate.

Sul numero degli zeri invece non ci sono più dubbi. Il giornalista Carlo Simiani, uomo della Resistenza, fece un’onesta indagine e la pubblicò in un volume ormai introvabile – I giustiziati fascisti nell’aprile 1945 – in cui riferiva di 40.000 uccisioni. Giorgio Pisanò, a seguito delle sue preziose e meticolose indagini, arrischiò la cifra di 46.000. Livio Valentini, dell’Istituto storico della RSI, arriva a 30.000, Giampaolo Pansa a 31.500, Gianantonio Valli ad un minimo di 35.000. Per rendersi conto della dimensione della mattanza dei fascisti effettuata nella settimana successiva al 25 aprile 1945 basta raffrontare queste cifre con il numero – 2.500 – delle uccisioni della mafia in dieci anni.

Insomma, decine di migliaia di delitti, assassinii inutili, esecuzioni feroci, tutti compiuti a guerra finita, a danno di persone disarmate, che non opponevano resistenza e non rappresentavano un pericolo per alcuno.

Esistono molti libri sull’argomento, che indichiamo nella bibliografia, cui rimandiamo i lettori interessati ad approfondire in modo esaustivo questi avvenimenti. Ci limiteremo qui ad una sintetica – e sicuramente incompleta – trattazione e a citare solo alcune delle stragi più efferate.

In Friuli si ebbe la decimazione del Battaglioni volontari Bersaglieri “Benito Mussolini”, soldati prima rinchiusi in caserma a Tolmino, poi prelevati a gruppi e trucidati sul greto dell’Isonzo, a Fiume, a Gorizia. I superstiti furono internati nel campo di prigionia jugoslavo di Borovnica nel quale molti trovarono la morte per fame, epidemie, torture. Solo 150 di loro, dopo il giugno 1947, rividero l’Italia; molti erano ridotti in tali condizioni fisiche che, nonostante il ricovero in ospedale, morirono nelle prime settimane del loro rientro in Patria.

La ferocia dei partigiani comunisti di Tito si scatenò contro le popolazioni italiane in Istria. Furono gettati, a gruppi di centinaia, nelle tristemente note foibe carsiche migliaia di italiani. Molti venivano “infoibati” ancora vivi. In Friuli e Venezia Giulia si raggiunse il tragico primato di uccisioni dopo il 25 aprile 1945, circa 12.000.

Anche in Veneto le vittime furono migliaia; i picchi si ebbero nelle provincie di Vicenza e Treviso.

A Oderzo 126 giovani della GNR e della Scuola allievi ufficiali arresisi al CLN il 28 aprile, dietro promessa di aver salva la vita, furono trasportati a Ponte della Priula e sul fiume Monticano e massacrati.

In quella zona, per festeggiare il matrimonio del capo partigiano Adriano Venezia, detto Biondo, con l’augurio di avere 12 figli, vengono prelevati 12 fascisti e fucilati lungo l’argine del Piave.

Sempre in provincia di Treviso, nei pressi della cartiera Burgo di Mignagola di Carbonera, tra la fine di aprile e la prima settimana di maggio furono sterminate 3.400 persone.

Scrive Antonio Serena, autore di una recente, dettagliata ricostruzione storica, La cartiera della morte: “Delle vittime – fascisti rastrellati nella zona e civili uccisi per motivi di vendetta e rapina – solo un centinaio furono riconosciute perché quasi tutti i corpi, come dichiareranno diversi testimoni a guerra finita, furono gettati nelle acque del fiume Sile, bruciati nei forni della cartiera o sciolti nell’acido. Le maggiori efferatezze avvennero all’interno della cartiera, dove imperava Gino Simionato, detto Falco”.

A Codevigo, vicino Padova, furono massacrate centinaia di persone. Parte dei corpi gettati in fosse comuni che solo in parte sono state rintracciate. Altri buttati nelle acque del fiume Brenta. Dopo ricerche durate fino al 1962 i parenti degli uccisi sono riusciti a recuperare i resti di 114 vittime: 77 a Cedevigo, le altre a S. Margherita e Brenta d’Abbà. E’ stato realizzato un ossario comune, anche a ricordo di tutti coloro i cui resti non saranno mai più ritrovati.

Nella notte fra il 6 e il 7 luglio i partigiani entrarono nel carcere di Schio dove erano rinchiuse 99 persone, 8 detenuti comuni e 91 fascisti o presunti tali. Per alcuni di loro appurata l’estraneità a fatti delittuosi, era già pronto l’ordine di scarcerazione. I partigiani raggruppano i prigionieri in uno stanzone e li mitragliano. Sopravvissero solo quelli che, caduti per primi, furono protetti dai cadaveri che gli erano finiti addosso. Morirono 54 persone, tra cui una ragazza di 16 anni e altre 13 donne. Ai cittadini che, richiamati dal frastuono degli spari prolungati, avevano raggiunto il carcere, si presentò uno spettacolo raccapricciante: il sangue, colato attraverso la scala e il cortile, era arrivato alla strada.

In Lombardia le vittime furono 8-10.000, con la punta massima nella provincia di Milano dove gli assassinii furono calcolati in 5.000 (3.500 in città). Sono state testimoniate esecuzioni sommarie di gruppi di militi disarmati a Pescarenico (Lecco), Lovere (Bergamo), S. Eufemia e Botticino Sera (Brescia), Varese, Como, Brescia, Pavia.

A Sondrio fu riempito il carcere di fascisti. I partigiani ogni giorno andavano a prelevarne un gruppo (una trentina per volta), che conducevano fuori e fucilavano. Fece particolare scalpore l’uccisione di due capitani medici e del sottotenente Alfredo Paganella che, portato in cima ad un campanile, fu gettato sulla piazza sottostante.

A Rovetta, in provincia di Bergamo, la Sesta compagnia della Legione Tagliamento al comando del sottotenente Roberto Panzanelli, di presidio al Passo della Presolana, il 26 aprile tentò la resa con i responsabili locali del CLN. Erano 47 ragazzi dai 14 ai 22 anni. Ricevuta l’assicurazione di essere trattati conformemente alle convenzioni internazionali, consegnarono le armi e furono rinchiusi nei locali della scuola elementare.

Sopraggiunsero da Lovere 160 partigiani al comando dello slavo comunista Paolo Poduie, che si faceva chiamare il Moicano. Sbrigativamente, i prigionieri furono sottratti alla custodia dei dirigenti di Rovetta e si stabilì che dovessero essere fucilati. A chi avanzava qualche perplessità in considerazione della giovane età dei prigionieri e del fatto che uno di loro, il ventenne vicebrigadiere Giuseppe Mancini, fosse il nipote di Mussolini, il Moicano rispose: “Abbiano un anno, due anni, siano figli anche del Papa, devono essere tutti fucilati”.

Il giovane Mancini, anzi, fu fucilato per ultimo, per farlo assistere alla morte di tutti i suoi camerati: come ultimo gesto salutò il mucchio dei 42 cadaveri riversi a terra, lungo il muro esterno del cimitero, poi si aprì la camicia, rivolgendosi con dignità alle canne da fuoco partigiane. Solo in quattro, alla fine, furono “graziati”, perché avevano meno di 16 anni.

La notte precedente, nell’attesa dell’esecuzione, i prigionieri furono trasportati – come riferisce Grazia Spada nel suo approfondito libro Il Moicano e i fatti di Rovetta – “in una zona di baite nei pressi del paese, ufficialmente per evitare che una colonna di tedeschi in ritirata lungo la provinciale li veda, ma più probabilmente perché sanno ciò che la Brigata “Camozzi” sta preparando e forse vogliono evitare che, qualora la situazione precipiti, l’irreparabile accada in paese”.

Il partigiano Buchi (Angelo Rossi di Giustizia e Libertà), con alcuni altri partigiani “decide di prendersi qualche svago: a suon di botte allinea i legionari lungo le pareti di due cascinali vicini, pretendendo di voler procedere alla loro fucilazione con le armi puntate nell’attesa dell’ordine di fuoco. Poi pare ripensarci e fa condurre i giovani nella vicina baita Gratarola dove li ammassa nella stalla al piano terra mentre lui e gli altri partigiani si sistemano al piano superiore. Inizia così una lunga notte di violenza. “Il Buchi e tutti gli altri presero a gozzovigliare e si divertivano a immaginare di quale morte ci avrebbero ucciso, se tramite fucilazione o per impiccagione o ambedue, per il giorno successivo: queste le affermazioni che dal sovrastante locale ci venivano trasmesse a squarciagola. A ore alterne scendevano a maltrattarci, bastonarci e depredarci, tanto che a me fu strappata un’armonica a bocca regalatami dal compianto capitano Alberto Martinola, comandante della mia compagnia d’appartenenza, la quinta, caduto sul Mortirolo, cui tenevo moltissimo, e con la quale stavo tentando di rialzare il nostro morale” (testimonianza di uno dei quattro sopravvissuti, Ferdinando Caciolo). La ricompensa del Buchi per quella nottata sono gli orologi, i portafogli e le catenine dei ragazzi”.

A Milano la mattanza fu lunga e indiscriminata. Alcuni camion, ogni giorno, giravano la mattina per recuperare i cadaveri dei fascisti dai bordi delle strade. Molti avevano gli occhi strappati dalle orbite.

Il cieco di guerra, medaglia d’oro, Carlo Borsani venne assassinato in piazzale Susa, insieme a don Tullio Calcagno, il sacerdote direttore di Crociata Italica. Il cadavere fu gettato su un carretto della spazzatura e portato in giro con un cartello su cui era scritto “ex medaglia d’oro”.

Nel solo Campo 10 del cimitero di Musocco, nella periferia nord ovest di Milano, sono sepolti oltre 1.000 fascisti uccisi dopo il 25 aprile.

La storica immagine di piazzale Loreto con i cadaveri di Mussolini, di Claretta Petacci e dei dirigenti fascisti assassinati a Dongo appesi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina è l’orrido simbolo di una città preda di folli bande armate, abbandonata ad animaleschi istinti e spoglia di qualsiasi valore morale e civile.

In Piemonte il numero dei delitti non fu minore. Nella sola provincia di Torino se ne contarono 5.000.

Si ricordano le esecuzioni “a gruppi” di Avignana e Cigliano dove, il 27 aprile, si arresero 24 ufficiali del 2° RAU (Reparti Arditi Ufficiali) che furono rinchiusi nell’albergo Cavallino Bianco assieme a cinque ausiliarie e due donne, una delle quali incinta. Successivamente furono trasferiti tutti a Graglia dove per giorni, senza mangiare e bere, furono sottoposti a percosse e sevizie d’ogni genere. Il 2 maggio, infine, furono fucilati a gruppi nella campagna circostante.

Nel biellese la ferocia partigiana toccò limiti estremi. Sono innumerevoli le storie di uccisioni, così come quelle di sevizie e stupri. In quella zona operò Francesco Moranino, detto Gemisto, al comando del distaccamento Pisacane delle brigate Garibaldi. Ma Moranino non infierì solo sui fascisti. A guerra finita fu processato e condannato all’ergastolo dal Tribunale di Firenze per la strage della missione Strassera, l’eliminazione di sette partigiani “non comunisti”. Il PCI lo fece eleggere senatore e Giuseppe Saragat, una volta divenuto Presidente della Repubblica, lo graziò, nonostante non avesse fatto un solo giorno di galera.

Il 27 aprile, nei pressi di Vercelli, si arresero tutte le forze della RSI della zona, circa 2.000 soldati. Furono rinchiusi nello stadio di Novara allestito, per l’occasione, come campo di concentramento. Il 12 maggio arrivarono i partigiani di Gemisto che prelevarono un cospicuo gruppo di prigionieri e li condussero nell’Ospedale Psichiatrico di Vercelli. Qui si scatenò una mattanza da film dell’orrore; riferiscono i testimoni: 51 militi delle Brigate Nere furono straziati vivi; ad un camion attaccavano la testa con un fil di ferro e ad un altro le gambe, li squartavano e poi ci passavano ancora con le ruote; alle cave di Lozzolo ci fu un’esecuzione di un altro gruppo, fra cui un ragazzo di 19 anni; all’interno dell’ospedale le pareti erano sporche di sangue per un’altezza di due metri. Si trovarono cadaveri anche nell’orto, vicino alla lavanderia e anche a Larizzate, una frazione a sud di Vercelli; altri, caricati su due autocarri e una corriera, furono portati sul ponte di Greccio, sul canale Cavour e, a quattro a quattro, fucilati e gettati in acqua. Nei giorni seguenti, nei fossati d’irrigazione collegati con quel canale, furono ripescati oltre 60 cadaveri.

Nel cuneese le uccisioni, seguite a violenze d’ogni genere, furono talmente numerose da indurre il Vescovo, Giacomo Rosso, a far affiggere, in città e nei borghi limitrofi, un manifesto nel quale si chiedeva ai partigiani di dar fine a “giudizi sommari” e “vendette”, lasciando il compito di far giustizia alle Autorità costituite.

Riferisce il partigiano Lino Toselli, in un suo libro di memorie, di parecchie azikoni compiute in quei giorni, come, ad esempio, lo sterminio dei componenti della famiglia Giordano-Giraudo avvenuta a Sant’Antonio Aradolo. La madre e la figlia, risparmiate, furono costrette, assieme ad altre ragazze del posto e una decina di ausiliarie della Divisione Littorio, a rimanere nelle loro case trasformata in “bordello per partigiani”. Dopo una settimana di “questo trattamento” furono portate lontano dal paese e fucilate.

Tristissime anche le cronache di quei giorni provenienti dalla Liguria. A Genova si contarono 1.500 vittime. Il servizio recupero cadaveri fu per molti giorni svolto da autocarri targati Città del Vaticano.

1.0 furono gli uccisi a Savona, 1.000 a Imperia, 300 a La Spezia.

Nel savonese, sul Monte Manfrei, tra i comuni di Vara e Sassello, furono massacrati, i primi di maggio, 200 ragazzi della divisione San Marco che avevano consegnato le armi alle autorità della zona. Età media 18 anni. I partigiani li trasportarono nella zona tra la località La Romana e il Passo del Faiello. Denudati e legati mani e piedi, furono falciati dalle mitragliatrici e sepolti, alcuni ancora vivi, in fosse scavate nel sottobosco e poi ricoperte da foglie.

Nel 1948 il sindaco di Urbe, sollecitato dall’Associazione familiari caduti e dispersi della RSI, iniziò la ricerca delle fosse. Un lavoro che durò otto anni, ottenendo il recupero dei resti di 61 vittime. Nel 1957 bi carabinieri, con due documenti, dichiararono l’impossibilità di proseguire le ricerche a causa del terreno scosceso e impervio. Alcuni partigiani, interpellati all’epoca sull’eccidio, si giustificarono affermando che i prigionieri erano troppi per poterli internare e “dover pure dar loro da mangiare”.

A Cadibona, sopra Savona, al km 142 della provinciale 29, trentasette prigionieri furono fatti scendere dalla corriera sulla quale erano trasportati, condotti all’interno della boscaglia, spogliati e abbattuti con colpi sparatigli alla testa. I cadaveri, rotolati nella scarpata, furono trovati nelle settimane successive. Nella zona si parla ancora della “corriera della morte”.

A Guidobono di Legino, alla periferia di Savona, il 27 aprile tre partigiani prelevarono Giuseppina Gersi, una bambina di 13 anni che nello svolgimento di un tema aveva scritto di “ammirare Benito Mussolini”. La portarono nei locali della scuola media, la stuprarono per ore e poi la uccisero. C’è, ancora oggi, qualche mano anonima che lega al cancello di quell’edificio un fiore con una fettuccia tricolore.

Un orrido scenario si apre anche approfondendo ciò che avvenne in Emilia e in Romagna. Le vittime furono oltre 10.000. La mattanza durò molto più a lungo che nelle altre regioni: ci furono assassinii fino al 1949.

A Ferrara, nel carcere Piangipane, l’8 giugno entrò una squadra di partigiani. Individuarono i prigionieri politici e li radunarono al fondo di un corridoio; cominciarono a falciare i fascisti con ripetute raffiche di mitra. Nell’eccitazione provocata dall’esecuzione, continuarono a sparare, a lungo, sopra i cadaveri. Il capo guardia del carcere, siccome si era dimostrato visibilmente turbato, fu ucciso nel cortile. Prima di uscire, i partigiani fecero evadere i reclusi per reati comuni.

La zona delimitata dalle provincie di Reggio Emilia, Modena, Bologna e Ferrara, fu denominata “il triangolo della morte”. I giornalisti e gli storici che si sono occupati della questione sono arrivati a redigere un elenco di 3.976 vittime con un nome; oltre 550 sono i corpi non identificati, parecchie centinaia gli scomparsi di cui non si è mai trovata traccia.

Si tratta di uno stillicidio di storie maledette dove le vendette politiche si intersecano con faide tra famiglie, questioni personali e razzie di cose e beni.

Un solo esempio per tutti: la strage dei fratelli Govoni. Scrive Giorgio Pisanò: “Uno dei fatti più atroci compiuti nel bolognese dopo la liberazione, accadde la sera dell’11 maggio 1945 allorché, in una casa colonica della campagna presso Argelato, un gruppo di partigiani, in maggioranza comunisti, seviziarono e strangolarono ad una ad una 17 persone: sette di queste appartenevano alla stessa famiglia. Erano i fratelli Dino, Marino, Emo, Giuseppe, Augusto, Primo e Ida Govoni. Il massacro di questi sette fratelli costituisce di certo una delle pagine più spaventose di tutta la guerra civile. Dei sette Govoni solo due, Dino e Marino, erano iscritti al Partito Fascista Repubblicano. Gli altri cinque non si erano mai interessati di politica; la più giovane, Ida, appena ventenne, si era sposata da poco ed era mamma di una bambina di solo due mesi”.

* * *

Oltre alle decine di migliaia di omicidi gratuiti ed efferati commessi dai partigiani dopo la fine delle ostilità, vanno ricordati anche i 400.000 prigionieri trattenuti in condizioni spesso disumane e alle 500.000 epurazioni durate sino alla svolta delle amnistie del 22 giugno 1946 dell’allora ministro di Grazia e Giustizia, Palmiro Togliatti, e del 7 febbraio 1948 proposta da Giulio Andreotti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

Nel corso dei processi istituiti sull’onda delle “giornate radiose della liberazione” non fu risparmiato nessuno. Si portarono alla sbarra anche le vedove di guerra, colpevoli di essersi dichiarate orgogliose del sacrificio eroico dei propri mariti e, coerentemente, di aver aderito alla Repubblica Sociale.

A Varese fu portata dinanzi alla Corte d’Assise la vedova della medaglia d’oro Niccolò Giani. Il processo si concluse con la condanna dell’imputata a tre anni, sette mesi e otto giorni di reclusione.
Certamente, per concludere, a carico della Resistenza esiste una pesantissima e incancellabile questione morale determinata da una infamante pagina di violenza e sangue che si è cercato in ogni modo di nascondere, negare e dimenticare. Si è persino inserito nel codice penale – nell’articolo 290 – il reato di “vilipendio delle forze armate della liberazione”.

Una questione morale che è impossibile non ricordare tutte le volte che si parla di “valori” della Resistenza.


La realtà istituzionale e l’esigenza della piena sovranità

E’ chiaro, concludendo l’osservazione dei fatti attinenti la guerra civile e la Resistenza, che l’attuale assetto politico italiano ed europeo è direttamente collegato, nonostante i sessantaquattro anni trascorsi, proprio a quegli avvenimenti, alle scelte fatte o subite allora, alle situazioni di subalternità accettate e alle quali non ci si è ancora ribellati.

I famosi “valori” della Resistenza, che si indicano ancora oggi come l’elemento condizionante della realtà istituzionale italiana e della legittimità politica, dopo le considerazioni che abbiamo fatto, assumono quanto meno un tono indefinito ed approssimativo, il riflesso di una storia che, se ha qualche luce, sicuramente ha molte ombre; si rivelano spesso “valori” costruiti a posteriori, ad uso dei vincitori: un francobollo raffazzonato, appiccicato ad un pacco, quello della Repubblica “antifascista”, completamente vuoto di ogni forma di sovranità.

Ma la mancanza di sovranità non è cosa da poco: rappresenta una gabbia che preclude ogni reale cambiamento, una gabbia dalla quale occorre uscire in fretta per dare libere prospettive all’Italia e all’Europa di domani.

Libertà di avere un’autonoma politica estera, di gestire il proprio sviluppo economico, di proporre originali scelte monetarie, di andare a cercare, dove più conviene, l’approvvigionamento delle fonti energetiche e delle materie prime.

Libertà di scrivere un nuovo Patto, una nuova Costituzione non più soggetta a condizionamenti e vecchie suggestioni ideologiche.

Il sistema politico Italia, così come è regolamentato dalla Carta – e i recenti scontri tra Palazzo Chigi, Quirinale e Consulta lo hanno ben evidenziato – prevede un potere politico debole, impossibilitato a innescare profonde ristrutturazioni e sempre sottoposto alle pressioni dei cosiddetti “poteri forti” che continuano a dominare e situarsi sopra le leggi.

Si tratta della caratteristica, sempre ricorrente, delle moderne democrazie occidentali. Anche in America il potere politico risulta essere sotto tutela della Federal Reserve e delle lobbies.

Il ministro delle Finanze Tremonti, nell’interesse dei cittadini, ha ripetutamente previsto nuove regole per gli Istituti di Credito e per la Banca Centrale, ma si è scontrato con la spavalderia di questi poteri i quali, come nulla fosse, hanno continuato a fare ciò che vogliono, ignorando le nuove leggi. Dopo aver provocato la crisi, il sistema bancario – indisturbato – si sta organizzando per speculare sulle conseguenze della ridotta liquidità. Nathan Rothschild ammoniva: “Compra quando il sangue scorre nelle strade, e vendi al suono delle trombe”.

Finché la politica sarà debole, sarà molto difficile cambiare il corso delle cose. E finché ci sarà questa Costituzione e perdurerà la sudditanza ai poteri internazionali che si sono “alloggiati” da noi fin dal 1945, la politica continuerà a rimanere debole.

Il popolo è libero di eleggere i camerieri, ma i padroni nessuno è legittimato a sceglierli, a contraddirli, a rimuoverli.

Occorre rifondare lo Stato, ritrovare i valori del nostro popolo e della nostra civiltà, riscrivere il Patto, riconquistare, ad una ad una, tutte le sovranità di cui ha bisogno una nazione per essere veramente libera. E per farlo è necessario che il popolo accetti di guardarsi, con estrema onestà, nello specchio della propria storia.

01/09/2010

http://www.italiasociale.net/storia07/storia010910-1.html