Di Franca Poli
Il desiderio di scrivere brevemente la storia della famiglia Govoni nasce dal fatto che recandomi nella biblioteca comunale del mio paese, non solo non ho trovato libri che ricordassero la vicenda dei sette fratelli, ma ho dovuto scontrarmi per l’ennesima volta con il muro di omertà eretto dalla sinistra dopo la guerra verso le vicende di sangue e gli orrori commessi dal partigianato locale contro cittadini innocenti. Infatti la direttrice nel comunicarmi che non c’erano libri inerenti l’eccidio di Argelato, ha candidamente ammesso, minimizzando, che non conosceva assolutamente l’avvenimento, stringendosi nelle spalle, come se non fosse mai successo. Mi avvarrò dunque nel raccontare, per date, nomi e riferimenti precisi, di quanto letto più volte nei testi di Giorgio Pisanò.
Gli unici sette fratelli martiri noti e
di cui si potevano trovare molteplici pubblicazioni in biblioteca, sono i
fratelli Cervi per i quali, al contrario, nel corso degli anni le
onorificenze si sono sprecate. A Campegine, la loro casa è stata
trasformata in “museo della resistenza”, ogni 25 aprile le
organizzazioni di partito da settant’anni a questa parte incessantemente
hanno convogliato in visita comitive di cittadini provenienti da ogni
parte d’Italia, intere scolaresche al fine di ottenebrare i giovani
cervelli degli studenti con le menzogne apologetiche che hanno
raccontato e che continuano a propinare. I capi di stato si sono
susseguiti nella visita “obbligata” a rendere omaggio agli eroi della
campagna emiliana e Pertini ebbe a sottolineare come la storia dei Cervi
aiuti a divenire antifascisti avvalendosi dei valori “più elementari ed
essenziali: l’amore per l’uomo, il culto della famiglia, la passione
per il lavoro dei campi”.
Dimenticava, il presidente più amato
dagli Italiani, che poco lontano da quel paese, nella stessa fetta di
pianura padana, esattamente a Pieve di Cento, vivevano altri sette
fratelli, allevati anch’essi nel culto della tradizione popolare,
ragazzi con grande passione per il lavoro, fedeli alla Patria e devoti
alla famiglia. Dimenticavano volutamente lui e tutti gli altri di
ricordarli e di far conoscere l’inutile massacro che subirono solo
perchè due di loro erano fascisti, avevano osato dunque schierarsi
“dalla parte sbagliata”, pertanto scrittori e giornalisti non hanno
riportato storie e articoli commoventi sulla triste vicenda di questa
famiglia poiché ancora oggi, non merita pietà, né rispetto chi ha
vestito la camicia nera.
Andando in visita al loro paese non
troverete musei, né monumenti e nemmeno allegre comitive di compagni in
gita di istruzione, nessuna indicazione stradale con scritto “casa dei
fratelli Govoni”, nei luoghi del loro martirio nemmeno un semplice
cartello con la dicitura “qui morirono sette innocenti, che, a guerra
finita, prelevati dalle mura paterne, furono ingiustamente e senza
nessun motivo trucidati” eppure è successo, è tutto vero, era l’11
maggio 1945.
Il conflitto che aveva insanguinato
l’Italia e l’Europa era finito da poco, ma gli spargimenti di sangue non
erano ancora terminati, anzi stava cominciando la stagione delle
vendette, della prevaricazione, dell’odio di parte, dei delitti di
civili innocenti. La famiglia Govoni, abituata ai sacrifici, si era
rimboccata le maniche e aveva ricominciato di buona lena a lavorare il
terreno, una sera di primavera nella campagna bolognese, tutto intorno
profumo di fieno appena tagliato, nella loro casa colonica fecero
irruzione in cucina alcuni uomini, sedicenti eroici partigiani, che
prelevarono l’unico dei fratelli trovato in casa a quell’ora: Marino.
Gli altri erano in giro per il paese, i più giovani addirittura erano
andati a ballare, perchè non avevano niente da temere, infatti proprio
pochi giorni prima, dopo l’arrivo delle truppe angloamericane, erano
stati arrestati, interrogati e ovviamente rilasciati poichè nulla era
emerso a loro carico. Non sospettavano di essere stati inseriti, senza
colpa alcuna, in “una lista nera” redatta da una banda che da quando era
finita la guerra spadroneggiava in quella zona e che, approfittando del
caos di quei tristi giorni, sostituendosi alle autorità, si era assunta
persino il ruolo di forza di polizia, e che compì orrendi crimini di
cui peraltro si era già macchiata durante i mesi della RSI. Era la “2a
brigata Paolo” guidata da Marcello Zanetti ,detto “Marco”,
vicecomandante e commissario politico era Vittorio Caffeo “Drago”; a
seguire ne fecero parte Adelmo Benini detto “Gino”, Vitaliano Bertuzzi ,
detto “Zampo” e a capo della polizia partigiana fu invece Luigi Borghi,
detto “Ultimo” un esponente dei GAP bolognesi, la formazione
terroristica che nella sola città capoluogo fu artefice di centinaia di
uccisioni. L’infame lista, come poi risultò dagli atti processuali fu
stilata dal comunista Caffeo, che godeva di grande quanto inquietante
ascendente sui suoi gregari. La sede della banda era proprio San Pietro
in Casale, il paese della famiglia Govoni.
La sera stessa sul tardi, tornarono a
casa Govoni e trovarono tutti gli altri figli: Dino, Emo, Giuseppe,
Augusto e Primo. Li caricarono su un camion e li portarono via, alle
angoscianti domande della madre che, con terrore, ne chiedeva il motivo,
quegli uomini senza scrupoli risposero che i suoi figli sarebbero stati
interrogati e rilasciati, che era una semplice “misura di Polizia”.
Amara fu la scoperta di trovare già sul camion anche la sorella Ida. La
più piccola di loro, sposata da poco tempo, era stata prelevata dalla
sua casa dove viveva col marito Angiolino Cevolani, e dove aveva dovuto
lasciare Paola la sua piccola bambina di appena due mesi. L’unica a
salvarsi era stata l’altra sorella Maria anch’essa sposata, che viveva
però ad Argelato e che non erano riusciti a rintracciare. Già perchè nei
progetti della banda c’era il disegno di ucciderli tutti in quanto era
risaputo in paese che i fratelli Govoni erano uniti, affiatati e, se si
fosse reso necessario, anche coloro che non si erano mai interessati di
politica, non avrebbero perso tempo per schierarsi in difesa di
qualsiasi familiare si fosse trovato in difficoltà.
Di antico ceppo contadino costituivano
col padre Cesare e la madre Caterina una delle famiglie più numerose del
paese: sei maschi e due femmine.
Voglio citarli uno ad uno, non per
stilare uno sterile elenco, ma per ricordarli tutti chiamandoli per
Il primogenito era Dino 41 anni, falegname artigiano sposato e padre di due figli, dopo l’8 settembre, si era iscritto al Partito Fascista Repubblicano; poi veniva Marino 33 anni, sposato con una bambina, combattente d’Africa anch’egli aderì alla RSI, ma non avevano mai dato modo a nessuno di puntare il dito verso la loro condotta; la terza era Maria l’unica scampata al massacro; il quarto figlio di 32 anni era Emo, anch’egli falegname, viveva ancora coi genitori e poco più giovane di lui Giuseppe, 30 anni, coniugato, divenuto padre da tre mesi, era dedito all’agricoltura e viveva al podere; entrambi non avevano mai aderito al PFR. Venivano poi i due fratelli più giovani Augusto di 27 anni e Primo di 22, erano ancora celibi facevano i contadini insieme al padre al podere e non avevano mai fatto politica. L’ultima era la giovane Ida che al momento dell’irruzione in casa propria, invano aveva pregato i banditi di non essere costretta ad abbandonare la sua piccola.
“Drago” “Zampo” “Ultimo” e la loro gang
non furono che gli esecutori materiali di un piano preordinato: le
direttive del PCI erano di seminare il terrore e ottenere facile
sottomissione. Le sparizioni, gli omicidi gettarono la popolazione di
molte zone dell’Emilia Romagna nello sconforto e nella cieca paura,
tanto che nessuno denunciava i crimini e solo molti anni più tardi si
cominciarono ad aprire inchieste e a ottenere dolorose e scomode verità.
La mattanza era cominciata subito dopo
l’abbandono del fronte da parte di tedeschi e soldati della RSI, i
partigiani della “2a brigata Paolo” con la violenza avevano preso
possesso del territorio occupando Pieve di Cento, San Pietro in Casale,
San Giorgio di Piano e Argelato, assassinando tutti coloro che avevano
per qualche ragione avuto a che fare coi fascisti, parenti, amici,
vicini, ma anche proprietari terrieri, professionisti, persone innocenti
che venivano indicate per la loro condizione sociale “nemici del popolo
e della democrazia”. Un ben strano e crudele concetto di democrazia che
d’altronde animò tutte le “repubbliche democratiche” instaurate dai
comunisti nel dopoguerra nei vari paesi da loro occupati.
Dunque all’insegna di questa “pulizia”
prima dei fratelli Govoni erano stati effettuati altri massacri. Un
prelevamento con conseguente eccidio di dodici persone era avvenuto l’8
maggio. Uno dei sequestrati fu salvato dal fratello che inseguendo
l’auto dei partigiani giunse al covo e perorando la causa del familiare,
tirò in ballo l’amicizia con il sindaco comunista del paese e riuscì
nell’intento di riportare a casa il congiunto, ma nonostante avesse
visto cosa succedeva nel casolare e sapesse chi erano gli artefici, ne
fuggì talmente terrorizzato che trovò il coraggio di raccontare la
verità solo molti anni più tardi.
Così pochi giorni dopo, i sette fratelli
Govoni si trovarono rinchiusi nella casa di campagna di un contadino
che aveva avuto un figlio ucciso dai fascisti e scelta dai partigiani
come luogo per l’esecuzione perchè, sicuramente, il proprietario sarebbe
stato un complice fidato e omertoso. Quando gli aguzzini iniziarono il
loro macabro processo farsa, tutti furono seviziati, malmenati senza
esclusione di colpi, anche la ragazza ebbe uguale trattamento nessun
privilegio, nessun trattamento di favore. Solo uno dei partigiani provò a
prendere le parti della giovane madre, ma ottenne soltanto di non
assistere all’esecuzione, fu rimandato a casa e minacciato di morte se
avesse osato parlare dell’accaduto. Tutte queste verità uscirono solo
molti anni dopo, durante il processo verso i responsabili.
Il giorno successivo alla sfortunata
famiglia si aggiunsero altri dieci paesani. Tutte persone note per la
loro onestà e rettitudine, contro di loro non si potevano sollevare
accuse di nessun genere se non quella di essere anticomunisti e tanto
bastò per sentenziare la condanna a morte. Erano Alberto Bonora,
catturato col figlio Cesarino e il nipote Ivo di soli diciannove anni;
Guido Pancaldi; Alberto Bonvicini;Vinicio Testoni; Guido Mattioli;
Giovanni Caliceti e Ugo Bonora, lascio per ultimo Giacomo Malaguti
perchè costui merita due parole a parte. Si trattava di uno studente
universitario sottotenente degli alpini che dopo l’8 settembre era
passato con l’esercito del Sud e che al comando del suo plotone nella
VIII Armata alleata, aveva combattuto contro i tedeschi sul fronte di
Cassino, restando anche ferito. Avrebbe dovuto essere dunque considerato
un alleato dai partigiani, avevano, a loro dire, lo stesso obiettivo e
gli stessi nemici, ma fin dal suo ritorno in paese aveva suscitato solo
rabbia e invidie. Vedendolo ammirato e rispettato dalla popolazione per
aver avuto il coraggio di combattere faccia a faccia e non di
nascondersi e scappare, era stato più volte preso di mira dai comunisti
che intendevano annullare i valori di integrità, il rispetto per l’onore
e la divisa che la guerra civile non aveva ancora completamente
cancellato. In una prima occasione, parlando con alcuni cittadini che si
lamentavano dei soprusi subiti dalla polizia partigiana, rispose
fiducioso “Comanderanno ancora una ventina di giorni” a significare che
presto sarebbe stato ricostituito l’ordine. Per aver pronunciato questa
frase, offensiva della dignità degli eroici partigiani fu arrestato,
detenuto, interrogato e minacciato. Poche sere più tardi gli fu impedito
di partecipare a una festa in paese, venne malmenato e buttato fuori
dalla balera in malo modo, ciononostante egli non sospettò mai di essere
stato incluso nella lista delle persone “indesiderabili”, che
significava morte sicura, stilata dalla “2a Brigata Paolo”. Egli fino
all’ultimo momento, col sorriso sulle labbra, cercò di tranquillizzare
gli altri che in breve sarebbero stati liberati e che si trattava di uno
spiacevole equivoco.
Alla fine della giornata erano 17 le
persone raccolte nel casale e quello che successe in realtà non è dato
saperlo per certo, però dalle risultanze delle autopsie, avvenute
soltanto molti anni dopo, si poté stabilire che nessuno era morto per
colpi di arma da fuoco, quando i poveri resti furono esaminati si
accertò che tutti presentavano ossa rotte e incrinate, è facile dunque
immaginare la sofferenza, lo strazio, le grida, il dolore che
precedettero la morte dei prigionieri.
Si era sparsa la voce che si stava
“tenendo una festa” così molti partigiani accorsero per godersi lo
spettacolo e per dividersi il misero bottino, ai derelitti furono tolti
tutti gli averi, per esempio a Caffeo toccò l’anello d’oro di Testoni,
insomma macabri trofei da esibire in pubblico quale fregio per la
valorosa impresa. La cose di poco valore come pettini, chiavi e altro
furono gettate nel pozzo e durante le indagini, là vennero rinvenute a
conferma di quanto raccontato dai testimoni. Già i testimoni oculari,
coloro che accorsi sul posto avevano assistito all’orrendo massacro e
che per tanto tempo non avevano avuto il coraggio di rompere il
silenzio.
Altri quattro anni e più durò il terrore
che si era impadronito degli abitanti della zona e nessuno rispose alle
disperate domande dei familiari che chiedevano almeno di sapere il
luogo di sepoltura dei loro cari. I genitori dei fratelli Govoni non
smisero mai di girare le campagne, casa per casa chiedendo pietà,
pregando chi sapeva di parlare, ma nessuno ascoltò le loro richieste,
anzi spesso furono cacciati, insultati e derisi.
Nell’estate del 1949 mamma Caterina, che aveva allora già 70 anni, in paese si avvicinò a Filippo Lanzoni, un ex partigiano che si vantava in giro di essere bene informato sulla fine dei fratelli Govoni, lo guardò dritto negli occhi e disse “se è vero che lo sai, dimmi solo dove li avete seppelliti, ho il diritto di saperlo” l’uomo, senza nessuna pietà rispose che le sarebbe bastato un bravo cane da tartufo per ritrovare i suoi figli. La povera donna si mise a urlare e lui, vigliaccamente, chiamò a gran voce la moglie e una nipote del sindaco comunista di Pieve di Cento che si trovavano nei pressi e gliele aizzò contro. Le due si avventarono come iene, la buttarono a terra e la picchiarono selvaggiamente, fu l’intervento di una nuora della Govoni, la vedova di Dino, che passando in bicicletta si precipitò come una furia contro le assalitrici e le mise in fuga, ovviamente anche il vigliacco che aveva istigato il gioco fuggì vergognosamente.
Il racconto di ciò che era successo fece
in poche ore il giro del paese e sollevò grande indignazione, rabbia,
disgusto, c’è chi dice che proprio quella scintilla fece scatenare
l’incendio delle confessioni. Di lì a poco alcuni cittadini cominciarono
a parlare, a liberare le coscienze che per tanto tempo avevano
soffocato il rimorso e aiutarono a far luce su fatti che stavano in
qualche modo venendo allo scoperto.
Alla fine del 1949 i carabinieri
denunciarono per i delitti del 9 maggio un primo gruppo di partigiani.
Il secondo eccidio, quello che comprendeva i sette fratelli Govoni era
strettamente collegato al primo e il 24 febbraio 1951 si conclusero
tutte le indagini con il ritrovamento delle fosse comuni in cui erano
stati sepolti alla meno peggio.
Al termine dell’istruttoria 27 ex
appartenenti alla “2a brigata Paolo” e alla “7a GAP” furono rinviati a
giudizio per sequestro di persona, omicidio premeditato, rapina
aggravata, occultamento di cadavere e altri reati minori.
Ce n’era abbastanza per sbatterli dentro
e buttare via la chiave, ma quando nel 1953 il processo terminò
nessuno, dico nessuno, pagò per le sue colpe. Molti dei responsabili
erano fuggiti in Cecoslovacchia grazie all’aiuto logistico fornito dal
PCI, e risultarono quindi latitanti, gli arrestati usufruirono
dell’amnistia Togliatti poiché i giudici stabilirono di poter applicare
tale beneficio, secondo cui i delitti commessi dai partigiani durante e
dopo la guerra civile, erano da considerarsi giustificabili dal movente
politico e per conseguenza non punibili, quindi delle 29 persone uccise
nelle due terribili giornate incriminate, il paradosso volle che solo
l’uccisione di uno di loro fosse perseguibile. Solo per l’omicidio
dell’ufficiale degli alpini Giacomo Malaguti, l’unico che doveva essere
considerato loro alleato, mai stato fascista e che anzi aveva combattuto
contro i tedeschi, tutti i partigiani in blocco furono considerati
colpevoli e condannati all’ergastolo.
Il Giudice della corte d’Assise di
Bologna si legge nella sentenza “riconosce la soppressione dei sette
fratelli Govoni e dei prelevati di San Giorgio, ad eccezione del
S.Tenente Malaguti Giacomo, fu determinata da motivi di lotta contro il
nazifascismo” e ancora che Dino e Marino erano fascisti, mentre Ida era
di “sentimenti fascisti” mancando concretamente addebiti verso gli altri
quattro fratelli il Giudice concluse che forse la soppressione di tutti
fu probabilmente causata dal fatto che i partigiani stessi, non sapendo
con certezza quali di essi fossero i fascisti “decisero di ucciderli
tutti per avere così la certezza di avere eliminato i responsabili”.
Parole che si commentano da sole.
Inutile dire che dopo pochi anni, il
ricorso in Cassazione, le amnistie e i condoni vari, tutti gli
appartenenti alla banda della morte furono liberati.
Il terribile massacro dei fratelli
Govoni non ottenne mai giustizia e costituisce una delle pagine più
orrende della storia italiana, una delle più vergognose e ancora oggi
dopo settant’anni, non si vuole rendere loro un po’ di dignità.
I fratelli Cervi, erano tutti e sette
ferventi comunisti e antifascisti, che furono arrestati, con le armi in
pugno, dopo un conflitto a fuoco, probabilmente denunciati da un ex
disertore della Milizia. Vennero fucilati dopo circa un mese di
detenzione per rappresaglia in seguito all’uccisione da parte dei
partigiani del segretario comunale di Bagnolo in Piano. La loro morte,
per quanto triste, fu dunque conseguenza diretta di una scelta
consapevole, era il 27 dicembre 1943.
A loro sono state intestate strade,
piazze e scuole in ogni parte d’Italia, sono stati decorati con sette
medaglie d’argento al valor militare. Pietro Calamandrei ha dedicato
loro una famosa “Epigrafe” e “A fratelli Cervi, alla loro Italia” è
anche il titolo di una poesia di Quasimodo. Il padre Alcide, ricevette
l’onorificenza di una medaglia d’oro creata dallo scultore Mazzacurati e
uno dei nipoti porta avanti la memoria della famiglia impegnandosi
politicamente.
Ai genitori dei sette fratelli Govoni,
non fu tributato nemmeno una minima parte di tanto onore, essi ebbero
riconosciuto nel 1961 dallo Stato italiano, come unico risarcimento per
la grande ingiustizia subita, il diritto a una pensione di sette mila
lire mensili: umiliante il calcolo di mille lire per ogni figlio.
Il presidente del consiglio, quest’anno,
nella ricorrenza del 25 aprile si è recato a Marzabotto e per, parole
sue “contribuire a costruire una memoria condivisa” ha cantato “bella
ciao” insieme alle scolaresche e a quelli dell’ANPI, sono passati
settant’anni ancora e ancora solo e soltanto una parte viene ricordata,
oggi vorrei che tutte le persone di ogni colore politico, dopo tanto
tempo avessero il coraggio e la forza di prendere atto della verità, di
fare un passo verso la vera pacificazione nazionale ancora così lontana,
posando idealmente un fiore su queste tombe dimenticate e provare a
ricordare anche quel padre che concluse la sua esistenza, mai un giorno
senza dolore, con tanta dignità, oltraggiato, senza nessun
riconoscimento, ma con tenacia e coraggio.
Il mio desiderio è di chiudere queste pagine insanguinate, non di strapparle dai libri di storia, rileggendole un’ultima volta senza falsità e non è retorica visto che ancora nel 2012 il manifesto commemorativo affisso dalla famiglia Govoni nel 67° anniversario venne imbrattato con scritte offensive e disegni di falce e martello.
Con questo intento per ricordare i sette fratelli Govoni userò proprio le parole del padre dei fratelli Cervi:
“Dopo un raccolto ne viene un altro, andiamo avanti…”
TRATTO DA:
https://www.ereticamente.net/2015/06/figli-e-figliastri.html?fbclid=IwAR1tzhEEmzu8Duf5yse-ySxKDx1AImFdlzIbPZc-xxRI5mVlwKgpB_8e3Lc
TRATTO DA:
https://www.ereticamente.net/2015/06/figli-e-figliastri.html?fbclid=IwAR1tzhEEmzu8Duf5yse-ySxKDx1AImFdlzIbPZc-xxRI5mVlwKgpB_8e3Lc
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