Questo articolo di Gabriele Rapaci, su Stalin e l’ebraismo, è di una importanza fondamentale.
Non interessa, sul piano storico, sapere se Rapaci è un comunista di “Comunismo e Comunità”, scuola di C. Preve, o che sia di tendenze Trozkisste, o altro, E’ FONDAMENTLE CHE RAPACI NON E’ DI DESTRA, NE TANTOMENO TRADIONALISTA.
Rapaci, studioso di storia e filosofia, descrive, sul piano puramente storico cosa è accaduto tra Stalin e l’ebraismo o meglio la ingerenza ebraica nell’Urss.
A scanso di equivoci, diciamo subito che:
1. Stalin non è mai stato antisemita, anzi aveva anche una moglie ebrea e comunque aveva collaboratori, ministri e dirigenti ebrei.
2. Stalin, anche quando ha avuto una politica filo sionista, per esempio, nel sostenere la nascita di Israele, lo ha fatto unicamente per interessi strategici nazionali.
3. Stalin era un marxista leninista con una sua visione del potere e degli obiettivi strategici ideologici e nazionali da raggiungere. Di conseguenza la sua irriducibile lotta contro potentati ebraici, contro i compagni ebrei di partito che eliminò ad uno ad uno dal potere, e spesso condannò a morte, rientra solo nella visione politica del potere di Stalin, nella convinzione che, da una parte, questi “ebrei” avevano comportamenti e interessi divergenti dai fini del comunismo in cui Stalin credeva, e dall’altra che si era ben accorto che spesso, gratta, gratta, dietro la apparente fede nel comunismo, molti compagni ebrei avevano scopi politici e ideologici del tutto diversi, cosmopolitici, finanziari, fino a palesarsi filo sionisti.
QUALE E’ LA GRANDE IMPORTANZA DI QUESTO ARTICOLO?
Quella che finalmente anche dal campo diverso dai precedenti, ovvero in ambito di sinistra, non importa come considerate Rapaci, si palesa la grande verità storica, da tutti conosciuta, ma da certi compagni negata:
la rivoluzione bolscevica ebbe una esagerata, partecipazione ebraica, tanto che poi nella composizione del Comitato Centrale e altri organi di partito e di Stato, le percentuali di ebrei furono incredibili, arrivando all’80 percento, il che era strano visto che gli ebrei su oltre 200 milioni di sovietici, erano qualcosa più di 3 milioni, un bel numero, ma non tale da giustificare quelle percentuali di presenze ebraiche.
E’ spaventoso constatare come fu intenso e numeroso (praticamente una maggioranza quasi assoluta) l’apporto ebraico alla rivoluzione bolscevica. Tanti autori hanno riportato i veri nomi dei dirigenti ebrei (per esempio,Trotsky, ovvero Lev Davidovič Bronštejn, oltretutto imparentato con esponenti dell’alta finanza, quindi Sverdloff, Zinovief, Kamenef, Radek, ecc.) che incendiarono la Russia e portarono Lenin al potere..
Di fronte a questi dati, non potendo negarli, sappiamo che gli studiosi comunisti, rispondono che era così perché gli ebrei nel partito bolscevico, erano quelli che in netta prevalenza avevano buoni titoli di studio e quindi è ovvio che poi primeggiarono.
Ma è una risposta che non spiega niente se non in parte.
Un'altra motivazione, infatti, della presenza ebraica nel bolscevismo, era in virtù del suo antizarismo, della funzione “ribelle” che gli ebrei avevano nella russia zarista e relative persecuzioni, e questo soprattutto in quanto ebrei e quindi con loro atavici modi di vedere le cose, di ragionare, di comportarsi, di carattere sociale e altro, li portavano a conflittuare con le autorità.
E’ ovvio quindi che questo ribellismo ebraico, travasò nel bolscevismo che forniva una potente arma politica per combattere la società zarista.
I compagni questo lo sanno, ma temono di dirlo, perché poi si palesa il fatto che questi “ebrei bolscevici” erano prima di tutto ebrei e poi comunisti (se lo erano).
Stalin sapeva tutto questo e cercò di ricondurlo alla “normalità rivoluzionaria” e da grande tattico e stratega quale era, riusci, dapprima a mettere uno ad uno i capi bolscevici contro gli altri e poi a farli fuori.
Questa è la verità storica.
Ps.: un paragone per dimostraare che Stalin non vaneggiava.
Chi studia gli anni di piombo, il caso Moro, e le formazioni armate di sinistra degli anni ’70 riscontra una fatto indubitabile. Nel Movimento e nelle formazioni armate, tra i compagni comunisti, vi erano anche ebrei. Quindi dei comunisti ebrei, pochi o tanti che siano. In linea teorica essendo il comunismo al di sopra delle appatenze e credenze religiose, questo non doveva influire minimente. Si è costatato invece che il Mossad era sempre ben informato di quanto accadeva nel Movimento e nei gruppi armati. Infatti, magari attraverso le comunità israelitiche e le famiglie, questi compagni del Movimento ebrei, passavano informazioni alla Intelligence ebraica.
In alcuni casi si riscontrano anche evidenti collusioni.
Questo per far capire che il problema esiste eccome.
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Stalin e l’ebraismo: il grande eccidio.
A fianco ai numerosi elogi per la puntata di “Ulisse – Il piacere della scoperta”,
il programma diretto da Alberto Angela, dedicata al 75esimo
anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma e sulla Shoah, al
conduttore è giunta anche qualche critica. Nel corso della trasmissione è
stato affermato che «nel caso della Russia di Stalin, prima della
guerra furono i russi a consegnare ai nazisti migliaia e migliaia di
ebrei in omaggio al patto Molotov-Ribbentropp». Subito pronta è stata la
replica di Marco Rizzo segretario del Partito Comunista che dalla sua
pagina facebook ha puntualmente ribattuto: «La discriminazione razziale
in Unione Sovietica non è mai esistita, basti ricordare che una parte
rilevante dei dirigenti bolscevichi erano di origine ebraica, anche tra i
più stretti collaboratori di Stalin». Purtroppo i dati storici
contraddicono le affermazioni di Rizzo. La perdita della prospettiva
internazionalista e la conseguente “nazionalizzazione” del bolscevismo
sotto Stalin, ha fatto riemergere in Unione Sovietica alcuni dei tratti
più deteriori dello sciovinismo grande-russo come l’antisemitismo.
Di
ritorno dall’Unione Sovietica, dove aveva condotto un’inchiesta sulla
demografia ebraica, lo scrittore Joël Cang valutava che gli ebrei
viventi nelle quindici repubbliche dell’URSS ammontassero, nel 1959, a
una cifra pari a quella dell’anteguerra, vale a dire ad una cifra che si
attestava sui tre milioni e mezzo: più del doppio della popolazione
d’Israele.
Il
censimento del 1939 aveva stabilito una minoranza ebraica di 3.100.000
su una popolazione totale di circa 200 milioni. A questa cifra (che
evidentemente non comprendeva i 300.000 ebrei assimilati o che tali si
consideravano) bisogna aggiungere i due milioni di ebrei che vivevano
sui territori annessi della Polonia orientale, dei tre paesi baltici,
della Bucovina e della Bessarabia.
Il
censimento del 1959 parla di 2.268.000 ebrei, dei quali il 20,8% ha
dichiarato che lo yiddish era la propria lingua materna. Numero degli
ebrei per repubblica: 875.000 nella Repubblica Federativa Russa, 840.000
in Ucraina, 15.000 in Bielorussia, 94.000 in Uzbekistan, 52.000 in
Georgia, 25.000 in Lituania, 95.000 in Moldavia (Bessarabia), 37.000 in
Lettonia, 5.000 in Estonia. Il censimento non indica il numero degli
ebrei nelle repubbliche del Kazakhstan, Azerbaigian, Kirghisistan,
Tagikistan, Armenia, Turkmenistan, per il motivo che il numero degli
ebrei in queste repubbliche non raggiungeva la soglia minima perché la
minoranza sia menzionata.
La
maggior parte degli ebrei sovietici era concentrata nelle grandi città.
Così, secondo Cang, circa 700.000 ebrei vivevano a Mosca, 300.000 a
Leningrado, 250.000 a Kiev, 250.000 a Odessa, 70-80.000 a Dnepropetrovsk
e a Cernovits; 40-50.000 in ciascuna delle seguenti città: Minsk,
Bobrojsk, Riga, Vilna, Kishinev, Lvov e Alma Ata.
Per
quanto riguarda le attività lavorative degli ebrei dell’Unione
Sovietica, nel 1939 il 70% avrebbe lavorato come operai o impiegati
nelle aziende dello Stato; il 20% erano artigiani (specialmente sarti),
il 6% agricoltori (220.000 famiglie che coltivavano, soprattutto in
Crimea e nel Birobidžan, 1.500.000 acri di terra). Dopo il 1939 le
colonie agricole ebraiche sono scomparse e, nell’insieme, il numero
degli ebrei che esercitano un lavoro manuale è diminuito in favore di
quelli che esercitano un lavoro non manuale. Così si ebbero 30.000
scienziati ebrei, 2.000 architetti, numerosi musicisti (un quarto dei
musicisti dell’orchestra del Bol’šoj), artisti cinematografici e tecnici
dell’industria chimica.
Durante
il Grande Terrore (1936-1938), tra i dieci milioni di vittime delle
purghe, fu eliminato circa mezzo milione di ebrei. Tra i più rilevanti,
fu ucciso Lev Borisovic Kamenev (1883 – 1936), uno dei cinque massimi
dirigenti bolscevichi, cognato di Lev Trockij (1879 – 1940), che dopo la
morte di Lenin aveva fatto parte con Stalin della trojka al governo.
Assieme a lui, dopo un grande processo pubblico, fu giustiziato l’ex
capo del Comintern Grigorij Evseevic Zinov’ev (1883 – 1936), il cui vero
cognome era Radomyl’skij, anche lui ex membro della trojka. Nikolaj
Ivanovic Bucharin (1888 – 1938), il “beniamino di tutto il Partito”
leninista, che aveva appoggiato Stalin contro Zinov’ev e Kamenev, come
già lo aveva appoggiato contro Trockij, per ironia della sorte fu
accusato di trotzkismo e giustiziato nel 1938.
Questa
operazione continuò anche negli anni Quaranta: «un’intera generazione
di sionisti ha trovato la morte nelle prigioni sovietiche, nei campi, in
esilio», ha scritto il dottor Julius Margolin (1900 – 1971), che venne
detenuto in vari campi di concentramento nella regione del Baltico e del
Mar Bianco dal 1940 in poi. Margolin ha anche detto che nel mondo
esterno nessuno, nemmeno i sionisti, hanno fatto alcunché per salvarli.
Il
fatto che gli ebrei epurati fossero così numerosi non passò inosservato
nell’Unione Sovietica. Un vecchio ufficiale zarista avrebbe detto al
suo compagno di cella: «finalmente i sogni del nostro amato Nicola II,
che egli era personalmente troppo debole per tradurre in realtà, si sono
realizzati. Le prigioni sono piene di ebrei e bolscevichi».
Un
anno prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, il direttore dei
campi di concentramento sovietici, Genrich Jagoda (1891 – 1938), venne
giustiziato assieme a Nikolaj Ivanovic Bucharin, a Alexei Ivanovich
Rykov (1881 -1938), a Lev Grigor’evic Levin (1870 – 1938) e agli altri
imputati degli ultimi processi pubblici della purga. Erano quasi tutti
ebrei. A Jagoda succedette Nikolai Ivanovich Yezhov (1895 – 1940), che
gestì il terrore per quattro anni.
A
Ezhov succedette Lavrentij Pavlovic Berija (1899 – 1953). Quando Berija
assunse l’incarico di capo della polizia segreta, che contava un
milione e mezzo di agenti, erano ormai pochi gli ebrei di rilievo che
rimanevano nelle gerarchie del partito, delle forze armate e degli
organi di sicurezza. Tra costoro, Berija ebbe il compito di liquidare
Béla Kun (1886 – 1938), il capo della rivoluzione comunista ungherese
del 1919. Il magiaro, che era in prigione dal 1937, fu ucciso il 30
novembre 1939. Stalin epurò anche tutti i capi delle sezioni ebraiche
che si erano adoperati sotto la sua direzione per cancellare la vita
ebraica organizzata. Quasi tutte le istituzioni culturali ebraiche che
rimanevano in vita – comprese 750 scuole in cui si insegnava in yiddish –
furono chiuse tra il 1934 e il 1939. Il principale strumento di Stalin
in tale operazione fu Samuel Agurskij, già anarchico e membro del Bund
ebraico, che aveva diretto la prima campagna di Stalin contro le
organizzazioni politiche, religiose e culturali ebraiche. Costui venne
gettato in una cella e accusato di far parte della «clandestinità
ebraica fascista», alcuni membri della quale, come Moishe Litvakov (1875
– 1938) e Esther Fromkin, furono giustiziati.
Il
3 maggio 1939 Stalin licenziò improvvisamente il ministro degli esteri
Maksim Litvinov (1876 – 1951), un ebreo che aveva ricoperto questa
carica per dieci anni, e lo sostituì con Vjačeslav Michajlovič Molotov
(1890 – 1986), che firmò di lì a poco il patto di non aggressione tra
l’URSS e il Terzo Reich.
Subito
dopo, a Brest Litovsk (1918), Stalin fece consegnare alla Germania
circa seicento membri del partito comunista tedesco, per lo più ebrei.
Uno di costoro era Hans David, il compositore di “musica degenerata”
(Entartete Musik in tedesco).
Dal
settembre 1939 al luglio successivo, in seguito alle annessioni
sovietiche, due milioni di ebrei dei tre stati baltici, della Polonia
orientale, della Bessarabia e della Bucovina passarono sotto l’URSS. I
dirigenti delle società ebraiche attive presso queste comunità furono
mandati in Siberia; tutte le organizzazioni e le istituzioni sioniste
furono chiuse.
Nella
zona polacca occupata dai Sovietici, a partire dal febbraio 1940 l’NKVD
di Berija arrestò e deportò circa mezzo milione di ebrei. Molti
morirono durante il viaggio per la Siberia. Arthur Koestler (1905 –
1983) avrebbe definito questa azione di Stalin e Berija «deportazioni in
massa su una scala finora non riscontrata nella storia, [deportazioni
che] furono i principali metodi amministrativi di sovietizzazione».
Julius Margolin, che si trovava a Leopoli nell’Ucraina occidentale,
riferisce che nella primavera del 1940 «gli ebrei preferivano il ghetto
tedesco all’uguaglianza sovietica».
Le
liste di Berija erano divise in varie categorie, una delle quali era la
“controrivoluzione nazionale ebraica”, che comprendeva sia i sionisti
sia i bundisti antisionisti. Uno degli ebrei polacchi arrestati era
Menachem Begin (1913 – 1992), giovane dirigente sionista; furono
arrestati anche Henryk Ehrlich (1882 – 1942) e Viktor Alter (1890 –
1943), fondatori del Bund polacco, il partito ebraico più importante del
paese. Nel 1941, dati i legami dei due dirigenti del Bund con i
sindacati americani, Berija approvò in linea di principio che essi
organizzassero un comitato ebraico antinazista con base nell’URSS; ma
Stalin scrisse sulla richiesta che gli era pervenuta in relazione a tale
progetto: «Rasstrelijat oboich» (Fucilarli tutti e due). La loro
fucilazione scatenò una tempesta nell’ebraismo statunitense.
Per
controbilanciare questo scandalo, nel 1943 furono inviati in missione
negli USA l’attore e regista teatrale Solomon Mikhoels (1890 – 1948),
alias Vovsi (fondatore del Teatro Yiddish di Mosca) e il noto poeta
yiddish Icik Solomonovic Feffer, in qualità di rappresentanti del
Comitato Antifascista Ebraico. Quando giunsero in America, furono
accolti da Nahum Goldmann (1895 – 1982), Albert Einstein (1879 – 1955),
Chaim Weizmann (1874 – 1952), Marc Chagall (1887 – 1985) e altre
celebrità del mondo ebraico. In settembre, i due conclusero un accordo
di assistenza coi funzionari del Joint Distribution Committee of
American Funds for the Relief of the Jewish War Sufferers, la potente
organizzazione ebraica nata il 27 novembre 1914 per iniziativa di
banchieri quali i Warburg (Felix M. Warburg ne fu appunto il
presidente), gli Schiff, i Kuhn, i Loeb, i Lehmann e i Marshall, i
Rosenwald.
Quando
i due fecero ritorno nell’URSS, nel febbraio 1944, Mikhoels pensò di
poter estendere e sviluppare le attività del Comitato antifascista
ebraico e sollevò presso Molotov la questione dell’aiuto del Joint per
la costituzione di un insediamento di ebrei nella penisola di Crimea.
Nel marzo 1944 il Comitato indisse un’assemblea di massa, alla quale
tremila ebrei intervennero per ascoltare Solomon Mikhoels, Icik Feffer e
Il’ja Erenburg (1891 – 1967). Quest’ultimo, in particolare, aveva
preparato assieme allo scrittore e giornalista ebreo Vasilij Grossman
(1905 – 1964) ex membro del Comitato Antifascista Ebraico) un Libro nero
in cui si affermava che erano stati sterminati un milione e mezzo di
ebrei sovietici. Il libro era pronto in bozze, ma il governo, allarmato
per l’intensa attività ebraica, ne proibì la pubblicazione. Erenburg,
comunque, ne pubblicò alcuni estratti sulla rivista yiddish “Znamja” (La
bandiera), sotto il titolo “Assassini di popoli”. Il titolo si riferiva
ai Tedeschi, ma in esso veniva anche vista un’allusione ai Sovietici.
Quanto
a Solomon Mikhoels, la sua ultima impresa fu la celebrazione della
nascita del defunto scrittore yiddish Mendele Mocher Sforim (1836 –
1917), che terminò con una fragorosa manifestazione di appoggio
all’istituzione dello Stato ebraico in Palestina. Mikhoels morì a Minsk
qualche giorno dopo, il 12 gennaio 1948. Il suo cadavere, assieme a
quello di un altro ebreo, fu trovato il giorno dopo accanto alla
stazione ferroviaria; «vittime di un incidente», disse la polizia.
Vent’anni dopo Svetlana Alliluyeva (1926 – 2011), la figlia prediletta
di Stalin, accuserà suo padre del duplice omicidio: «Mikhoels era stato
assassinato: non c’era stato nessun incidente […]. Conoscevo fin troppo
bene l’ossessione di mio padre, che vedeva complotti “sionisti” in ogni
angolo». Ai funerali di Mikhoels, il poeta, drammaturgo e romanziere
yiddish Perec D. Markis (1895 – 1952) recitò una lunga trenodia, nella
quale faceva di Mikhoels una delle tante vittime dell’Olocausto. Un anno
dopo fu arrestato anche lui.
Fu
dunque la nascita di uno Stato ebraico in Palestina a ridestare
l’entusiasmo degli ebrei sovietici. Il sostegno dato dal governo
dell’URSS a Israele e il voto favorevole espresso dall’URSS alle Nazioni
Unite, vennero interpretati dagli ebrei sovietici come
un’autorizzazione ad esprimere solidarietà all’entità politica sionista.
«Per
tutte queste ragioni, negli anni 1947-1948, fra gli ebrei sovietici si
levarono onde di commozione che giunsero al culmine (nei giorni più neri
di Stalin) quando nelle strade adiacenti alla Sinagoga di Mosca,
migliaia di persone si radunarono, per singola iniziativa di ognuno, per
accogliere la prima ambasciatrice d’Israele, Golda Meir (1898 – 1978),
mentre il canto di Ha-Tikvà esplodeva tra il pubblico e grida di “Am
Israel chai” (il popolo d’Israele vive) echeggiavano nell’aria.
Oggi
sappiamo pure che ci furono ebrei tanto ingenui da presentare alle
autorità sovietiche la domanda di potersi arruolare nell’esercito di
difesa di Israele per servire quali artiglieri, carristi, marinai o
aviatori, nelle sue unità combattenti. Questo avvenimento straordinario
venne a conoscenza del dittatore e radicò in lui il terribile sospetto
che in trent’anni, il regime comunista non era riuscito a staccare, né
intellettualmente né sentimentalmente la massa degli ebrei, e neppure
una notevole parte di essi, dall’attaccamento alle proprie origini e
dalla sensibilità agli avvenimenti drammatici del mondo ebraico fuori
dell’Unione Sovietica. Allora il dittatore decise che, per spegnere la
fiamma ebraica che cominciava a riaccendersi era necessario versare
sugli ebrei, e particolarmente sulla loro cultura, e sui loro
sentimenti, torrenti di acqua gelata. Anzitutto, bisognava impedire ogni
contatto tra gli ebrei sovietici e quelli dell’Occidente».
Il
21 novembre 1948 il Comitato Antifascista Ebraico venne sciolto
d’autorità, perché era diventato un «centro di propaganda
antisovietica». Le pubblicazioni edite dal Comitato furono proibite, in
particolare il giornale yiddish “Einikai”, al quale collaborava l’élite
intellettuale dell’ebraismo sovietico. Nelle settimane successive, tutti
quanti i membri del Comitato Ebraico Antifascista furono arrestati.
Nel
febbraio del 1949 la stampa lanciò una vasta campagna anti-cosmopolita.
I critici teatrali ebrei furono denunciati per la loro «incapacità di
capire il carattere nazionale russo». «Quale idea possono avere un
Gurvic o uno Juzovskij del carattere nazionale dell’uomo russo
sovietico?» si chiedeva la “Pravda” del 2 febbraio 1949. Nei primi mesi
del 1949 centinaia di ebrei furono arrestati, soprattutto a Leningrado e
a Mosca.
Il
7 luglio 1949 il tribunale di Leningrado condannò a dieci anni di
internamento nei Gulag Akila Grigor’evic Leniton, Il’ja Zejlkovic Serman
e Rul’f Aleksandrovna Zevina. Gli imputati furono riconosciuti
colpevoli di aver «lodato gli scrittori cosmopoliti» e di aver
«calunniato la politica governativa sovietica sulla questione delle
nazionalità». In appello, gli imputati furono condannati a venticinque
anni dalla Corte Suprema, che riconobbe gli imputati colpevoli di aver
«condotto agitazione controrivoluzionaria basandosi su pregiudizi
nazionalistici e affermando la superiorità di una nazione sulle altre
nazioni dell’Unione Sovietica».
Il
siluramento degli ebrei fu eseguito in maniera sistematica, soprattutto
negli ambienti della cultura, della stampa, della medicina. Ma gli
arresti ebbero luogo anche in altri settori: nel complesso industriale
metallurgico fu arrestato un gruppo di “ingegneri sabotatori”, che
furono condannati a morte e quindi giustiziati il 12 agosto 1952. Il 21
gennaio 1949 venne arrestata e internata nel Gulag la moglie di Molotov,
Pavlina Zemcuzina, dirigente superiore nell’industria tessile. Nel
luglio 1952 fu arrestata per spionaggio e quindi fucilata la moglie di
Aleksandr Poskrebysev (1891 – 1965), segretario personale di Stalin.
Il
1948 vide l’inizio della fine dell’attività del Joint in varie
democrazie popolari. In Unione Sovietica il Joint non operava più dal
1938; solo fra il 1943 e il 1945 era stato consentito l’invio di pacchi
in territorio sovietico. Nel 1949 la Polonia espulse i rappresentanti
del Joint e la Cecoslovacchia fece lo stesso. L’Ungheria permise solo la
somministrazione di aiuti attraverso la Comunità ebraica locale; anzi,
nel 1949 il capo del Joint in Ungheria, Israel Jakobson, venne
arrestato. In quel medesimo anno, in Ungheria veniva condannato e
giustiziato, assieme ad altri, l’ex ministro degli Esteri László Rajk
(1909 – 1949).
Nel
1951 c’erano in URSS 215.000 medici. Circa 35.000 erano ebrei. Al grado
supremo della categoria dei medici sovietici si trovava il gruppo dei
medici del Cremlino. L’élite della medicina sovietica lavorava
nell’ospedale del Cremlino, dove venivano curati i dignitari del PCUS e
dei partiti comunisti “fratelli”.
Alla
fine dell’agosto 1948 morì, nell’ospedale del Cremlino, Andrej
Aleksandrovic Zdanov (1896 – 1948), che aveva diretto la campagna
ufficiale contro la cultura formalista e cosmopolita. Un rapporto
stilato per gli organi di sicurezza affermò, sulla base degli
elettrocardiogrammi di Zdanov, che la malattia di quest’ultimo non era
stata diagnosticata correttamente. Il reparto elettrocardiografico era
diretto da un’ebrea, Sofija Karpaj. Fu solo nel 1951, però, che venne
arrestato il primo medico del Cremlino, il professor Jacov Etinger (1929
– 2014), membro del Comitato antifascista ebraico. Il secondo arresto
fu quello dell’elettrocardiologa Sofija Karpaj. Sia Etinger sia la
Karpaj erano accusati di avere deliberatamente falsificato la diagnosi
dell’elettrocardiogramma di Zdanov. Nei diciotto mesi successivi furono
arrestati il cardiologo Binijamin Nezlin, suo fratello il dottor Solomon
Nezlin e altri celebri medici ebrei. Il complotto dei medici sarebbe
stato denunciato pubblicamente il 13 gennaio 1953.
Nell’ottobre
1952, Stalin convocò il XIX Congresso del PCUS. Circa milletrecento
delegati, in rappresentanza di sette milioni di iscritti, registrarono
il proprio nome sotto trentasette nazionalità, tra le quali non
figuravano gli ebrei. (Kaganovic e Mechlis erano semipensionati). Si
realizzò così una battuta che già circolava: «Mosè ha fatto uscire gli
ebrei dall’Egitto, Stalin li ha fatti uscire dal Comitato Centrale».
Al
congresso, Malenkov disse che agenti stranieri stavano tentando di
«sfruttare elementi instabili della società sovietica per i propri
obiettivi infami». Poskrebysev collegò i crimini economici, come quelli
denunciati a Kiev o nell’organizzazione del partito in Ucraina, con lo
spionaggio e l’accerchiamento capitalistico. Tutti sapevano che i
funzionari economici e politici epurati in Ucraina erano ebrei ormai in
procinto di essere giustiziati. (Nota1). Dopo la fine del XIX Congresso,
si intensificarono le nuove purghe, con una campagna mirante al
rafforzamento della disciplina di partito e con una serie di condanne a
morte emesse contro funzionari dell’industria tessile ucraina: H.A.
Khain, J.E. Jaroseckij, D.I. Gerson, tutti ebrei. Nel medesimo periodo
in cui gli ebrei del partito comunista ucraino venivano epurati, molti
dei più importanti dirigenti comunisti dei paesi dell’Europa orientale –
per la maggior parte ebrei – erano in carcere e stavano per essere
giustiziati.
A
Mosca, circa una dozzina di medici del Cremlino andò a raggiungere i
dottori Etinger, Kogan e Karpaj. Nel frattempo, veniva allestito a Praga
il processo Slansky, «un modello pilota della purga ai vertici
moscoviti che Stalin andava preparando». Alla fine del 1951 Stalin aveva
ordinato al presidente cecoslovacco Klement Gottwald di arrestare il
presidente di quel partito comunista, Rudolf Slansky, come agente di
Israele e del sionismo. Tra il 20 e il 27 novembre 1952, quattordici
dirigenti di primo piano del partito comunista e del governo
cecoslovacchi, undici dei quali ebrei, furono processati con
l’imputazione di aver tentato di complottare con i sionisti per
assassinare il presidente Gottwald, rovesciare il governo popolare e
restaurare il capitalismo. L’atto d’accusa letto dal pubblico ministero
puntava il dito contro il Joint, «gli avventuristi sionisti», «Israele e
l’America», i «cosmopoliti», i «nazionalisti borghesi ebrei», i
«trotzkisti, i lacchè della borghesia e altri nemici del popolo ceco».
Appena ebbe inizio il processo, su case e negozi di ebrei apparvero
scritte di questo tenore: «Via gli ebrei!», «Abbasso gli ebrei
capitalisti»! Si continuavano ad arrestare ebrei di spicco, tra i quali
Eduard Goldsucker (1913 – 2000), ministro plenipotenziario cecoslovacco
in Israele. Nella prima giornata del processo, Slansky confessò tutto: i
rapporti coi Rothschild, con Ben Gurion, con Bernard Baruch, con Henry
Morgenthau. Avevano orchestrato un complotto sionista per distruggere la
Cecoslovacchia: «Il movimento sionista del mondo intero – disse alla
corte – è di fatto il mondo degli imperialisti, soprattutto di quelli
americani».
Le
accuse contro il Joint, che fin dal 1950 era impegnato in interventi in
Cecoslovacchia, sarebbero state ripetute a Mosca sei settimane più
tardi, nel contesto del complotto dei medici. Gli accusatori dissero che
il Joint era un «ramo segreto del servizio di spionaggio americano»,
che operava sotto la copertura dell’organizzazione assistenziale.
Dissero che «lo spregevole traditore Slansky» (nato Salzman) era sempre
rimasto «un lacchè della borghesia» e del sionismo internazionale e che
aveva legami diretti con il diplomatico israeliano Ehud Avriel. «Rude
Pravo» (quotidiano del PC cecoslovacco) descrisse gli «occhi insolenti e
perfidi» e la «faccia da Giuda» di Slansky e scrisse che era un
«serpente calpestato», un «cannibale» che sarebbe stato ripagato con la
sua stessa moneta. Slansky fu accusato di aver cercato di assassinare il
presidente servendosi di medici come «il massone dottor Haskovec».
Slansky ammise che lui e il medico massone avevano effettivamente
tramato per far morire Gottwald, al quale sarebbe dovuto subentrare
Slansky stesso.
Al
processo testimoniarono due cittadini israeliani che si trovavano in
carcere da un anno: i cugini Mordechai Oren (1905 – 1985) e Shimon
Ohrenstein. Oren era un dirigente del partito comunista israeliano, il
Mapam, mentre Ohrenstein era stato un funzionario dell’ufficio
commerciale della legazione israeliana a Praga. Oren confessò di essere
stato in Russia e di avervi incontrato dei medici ebrei, nonché il
defunto Solomon Mikhoels.
Il
4 dicembre 1952, qualche giorno dopo la fine del processo, undici
condannati furono impiccati. I loro cadaveri furono cremati nel carcere
di Ruzyn e le ceneri furono raccolte in un sacco di patate. Un autista,
con due agenti della polizia segreta, portò il sacco alla periferia di
Praga, dove le ceneri furono disperse sulla strada ghiacciata. Tre
imputati, tra cui l’ex sottosegretario agli esteri, Arthur London (1915 –
1986), furono condannati all’ergastolo.
I
giornali israeliani e statunitensi, come “New Republic” del 27 novembre
1952, collegarono le accuse formulate nel corso del processo ai
Protocolli dei Savi di Sion. Il “New York Times” del 23 novembre 1952
scrisse che la vasta cospirazione ebraica evocata dal processo di Praga
riecheggiava «ancora una volta gli infami Protocolli dei Savi di Sion
(…), ma in una versione stalinista alla quale il terreno fu preparato
quattro anni or sono dalla campagna contro il “cosmopolitismo” scatenata
nella stessa Russia sovietica […] le cui vittime furono prevalentemente
ebrei». L’affare Slansky, concludeva il “New York Times”, «può segnare
l’inizio di una grande tragedia, mentre il Cremlino tende sempre di più
verso un antisemitismo mascherato da antisionismo».
In
Romania, dove la popolazione ebraica assommava a 400.000 individui (i
quali avevano accolto entusiasticamente l’Armata Rossa e in moltissimi
casi avevano aderito al partito comunista, entrando così
nell’amministrazione statale e accedendo rapidamente agli uffici dei
ministeri, della polizia e dei quadri dirigenti del Partito)
l’eliminazione degli ebrei dall’amministrazione statale e soprattutto
dalla polizia cominciò nel 1947. Furono anche epurati i quadri superiori
del Partito, perché non si volevano indisporre gli elementi cristiani
che vi si trovavano e che già avanzavano riserve sulla presenza di Anna
Pauker (1893 – 1960) e di altri ebrei alla testa del movimento. Le sedi
delle organizzazioni sioniste di Bucarest furono assaltate da militanti
comunisti. Ma questi ultimi trovarono gli ebrei muniti di armi bianche e
preparati a difendersi. Fu il solo caso di resistenza attiva
dell’ebraismo est-europeo negli anni del socialismo reale.
Alla
fine, tra gli ebrei arrestati vi fu la stessa Pauker, figlia di un
rabbino, diventata dirigente del Komintern e ministro degli esteri di
Romania nonché eminente pensatrice marxista-leninista. Radio Bucarest
annunciò: «Anche tra noi ci sono criminali, agenti sionisti e agenti del
capitale internazionale ebraico. Li smaschereremo ed è nostro dovere
distruggerli».
Secondo
un dossier che fu consegnato a un emissario di Berija, Anna Rabinsohn
Pauker, «figlia di un piccolo borghese, era istitutrice in una scuola
ebrea di Bucarest e insegnava lingua ebraica. Si innamorò del suo
direttore e ne divenne l’amante […]. Conobbe Marcel Pauker, traditore
della classe operaia e che doveva poco dopo sposare. Introdotta da lui
nel movimento socialista, ella nutriva per il proletariato la stessa
ostilità del marito, ma seppe meglio nascondere il proprio gioco.
Ritornò in Romania, dove le condizioni di lotta erano tali ch’ella poté
usurpare un posto direttivo nel partito, dopo aver denunciato alla
polizia i militanti che si erano opposti alla sua ascesa. Dopo il 1930,
Anna lascia il paese e si stabilisce dapprima a Parigi, dove conduce una
vita poco conforme alle regole della morale comunista e del semplice
buonsenso. Al suo ritorno, la polizia l’arresta in condizioni che non
abbiamo ancora potuto chiarire. Comunque il suo arresto fu seguito da
quello di numerosi membri del partito, allora clandestino. In prigione
Pauker ebbe una vita facile: era, tra l’altro, rifornita di viveri da
suo zio, proprietario d’un giornale borghese di Bucarest, mentre gli
altri prigionieri morivan di fame».
Abbiamo
visto che dopo il XIX Congresso del Pcus fu arrestata una quindicina di
medici ebrei, tra i quali il dottor Boris B. Kogan. Questo suo cugino,
cardiologo e internista, aveva avuto in cura sia Dimitrov e Zdanov, che
erano morti entrambi: la dottoressa Lidija Timasuk sosteneva che la
morte di Zdanov era un caso di omicidio medico. Boris Kogan era l’aiuto
di Vladimir N. Vinogradov (1955 – 2008), direttore dell’ospedale del
Cremlino e medico personale di Stalin. Questi fu arrestato il 9 novembre
1952, con l’accusa di aver deliberatamente prescritto cure sbagliate a
dirigenti del partito e del governo e di avere «svolto azione di
spionaggio per conto della Gran Bretagna». Due giorni dopo fu arrestato
uno stretto collaboratore di Vinogradov: Miron Semionovic Vovsi (1897 –
1960), consulente del consiglio terapeutico e sanitario del Cremlino,
cugino di Solomon Mikhoels, col quale aveva lavorato nell’ormai
disciolto Comitato Antifascista Ebraico.
Dopo
Vovsi e Vinogradov, nella seconda settimana di novembre furono
arrestati altri nove medici del Cremlino, tra i quali Boris B. Kogan.
Poco dopo gli arresti dei medici, il maresciallo Ivan Stepanovich Konev
(1897 – 1977), comandante in capo delle forze di terra nonché ispettore
generale dell’Armata Rossa, scrisse a Stalin una lettera in cui lo
avvertiva che stavano avvelenando anche lui, con «le stesse medicine
usate per ammazzare Zdanov».
Il
13 gennaio 1953 la “Pravda” uscì con un titolo a tutta pagina:
«Arrestato un gruppo di medici sabotatori», sotto il quale veniva
riportato un comunicato della Tass di dieci capoversi. L’editoriale che
accompagnava l’annuncio era intitolato: «Miserabili spie e assassini con
la maschera di professori e medici». Il comunicato menzionava nove
medici che avevano partecipato al complotto terroristico, i cognomi dei
quali rivelavano l’appartenenza ebraica: Miron Vovsi (1897 – 1960), Ivan
Matveevich Vinogradov (1891 – 1983), Egorov, Feldman, Yakov
Gilyarievich Etinger (1887 – 1951), Grinstein, Majorov, M. B. Kogan,
B.B. Kogan. Costoro, secondo la “Pravda”, erano «collegati con
l’organizzazione nazionalista borghese ebraica internazionale Joint,
creata dallo spionaggio americano col falso scopo di fornire aiuti
materiali a ebrei di altri paesi». Vovsi, in particolare, aveva
confessato di aver ricevuto dagli Stati Uniti, tramite il Joint e «il
noto nazionalista borghese ebreo Mikhoels, l’ordine di eliminare i
massimi quadri dell’URSS». Il comunicato aggiungeva che i tre erano
«agenti di vecchia data dello spionaggio inglese». I criminali avevano
confessato di avere ucciso Zdanov «diagnosticando scorrettamente la sua
malattia, nascondendo che aveva avuto un infarto al miocardio» e
prescrivendo «un regime controindicato per la sua grave malattia». Allo
stesso modo, i criminali avevano fatto morire anche il compagno A.S.
Scerbakov: «gli hanno prescritto un regime che per lui era mortale e
così lo hanno portato alla morte». Inoltre, il gruppo dei medici ebrei,
«questa banda di criminali antropoidi», cercava di «compromettere la
salute di comandanti militari sovietici, per ridurli all’inattività e
indebolire la difesa del Paese». Le vittime designate erano tre
marescialli, un ammiraglio e un generale.
Tutta
la stampa sovietica partecipò alla campagna contro la “banda
criminale”. La rivista sindacale “Trud” affermava che l’imperialismo
anglo-statunitense agiva a stretto contatto con il sionismo e in
particolare con l’organizzazione ebraica dello Joint.
La
“Literaturnaja Gazeta” smascherò una cellula sovversiva, annidata nel
comitato scientifico dell’Istituto della Biblioteca di Mosca, che era
guidata dagli ebrei Abramov, Levin, Fried e Eikenvolts. “Medicinski
Rabotnik” pubblicò un lungo elenco di ebrei che lavoravano alla Clinica
centrale di psichiatria legale. I medici di quella clinica avevano anche
propagato le teorie di Bergson e di Freud e avevano rifiutato di
applicare ai pazienti la psichiatria russa, optando per i metodi di
derivazione psicanalitica. Il quotidiano della Lituania metteva in
guardia contro gli «elementi nemici, nazionalisti borghesi e sionisti
ebrei» che svolgevano mansioni importanti nel ministero della carne e
del latte e che potevano avvelenare tali alimenti. “Krokodil”, la
rivista satirica, scriveva: «Il nero odio per il nostro paese ha unito
in un solo campo i banchieri americani e inglesi, i colonialisti, i re
degli armamenti, i generali di Hitler che sognano la rivincita, i
rappresentanti del Vaticano e i fedeli membri del Kahal sionista». I
medici ebrei, «personificazione della bassezza e dell’abominio, come
Giuda Iscariota», avevano tutti quanti frequentato una nota scuola:
quella «diretta dall’ipocrita Mikhoels, per il quale nulla era sacro e
che aveva venduto l’anima per trenta denari».
Secondo
le “Izvestija”, i processi contro i sionisti che venivano celebrati in
Ungheria, Bulgaria, Polonia e Albania costituivano la prova
dell’esistenza di un piano spionistico americano di ampia portata, un
piano che vedeva sionisti e americani collaborare in maniera solidale.
In
Ucraina, a Zitomir, furono arrestati venti medici ebrei, definiti dai
giornali ucraini «assassini di bambini». La “Pravda Ukrainij” dedicò a
tre sabotatori giustiziati a Kiev un editoriale in cui si leggeva:
«Tutti questi Kohain e Jarosecki e Grinstein […], i Kaplan e i Poljakov
[…] suscitano l’odio profondo del popolo».
Quattro
informatori degli americani nella Germania occidentale dissero che le
accuse contro i medici erano il segnale di una purga imminente.
L’economista Konstantin Krylov diceva da anni che Stalin si sarebbe
servito dell’antisemitismo per una purga su vasta scala. Vjaceslav
Artem’ev, ex poliziotto della polizia segreta, disse che forse il 25%
dell’MGB erano ebrei e che certamente sarebbero stati radiati; questo
comunque sarebbe stato solo l’inizio di una vasta epurazione.
Effettivamente gli ebrei dell’MGB furono epurati e alcuni di loro, come
ad esempio il tenente generale Raichman, furono arrestati. Frattanto Berija mandò i suoi uomini ad arrestare il medico di Mao Tse Tung, che era un ebreo proveniente dall’URSS.
S.
Eliashiv, diplomatico israeliano a Mosca, in un messaggio del 10
febbraio 1953 disse: «L’elemento principale comune a tutti questi
articoli e discorsi è l’accerchiamento da parte di potenti nemici
stranieri e la costruzione di una quinta colonna all’interno»; tuttavia
«lo Stato d’Israele non è ancora un bersaglio primario, diretto», come
lo era stato nelle «esplicite accuse della Cecoslovacchia e della
Polonia. […] Ciononostante, esiste una collera grave e violenta contro i
sionisti e il sionismo». Eliashiv esprimeva inoltre una grave
preoccupazione per il proliferare di denunce contro criminali ebrei,
specialmente in Ucraina, Bielorussia e Moldavia, dove vivevano numerose
comunità ebraiche.
In
Israele, quando la notizia del complotto dei medici giunse via radio,
il rabbino Jacob Kolmess, che aveva lasciato Mosca nel 1933, si portò la
mano al petto e morì per una crisi cardiaca. Il 19 gennaio, il ministro
degli Esteri Moshe Sharett denunciò come calunniosa la campagna
sovietica. I sovietologi israeliani indicavano, tra i fattori della
campagna antiebraica, il tentativo dell’URSS di avvicinarsi al mondo
islamico.
Intanto
in Unione Sovietica la campagna di stampa dava i suoi frutti:
Uljanovsk, ventisei insegnanti, per lo più ebrei, furono espulsi dalla
scuola magistrale in cui insegnava la vedova di Mandel’stam. Duecento
ebrei furono licenziati dall’università di Odessa; tutti i laureati
ebrei della facoltà di medicina furono mandati nelle zone orientali più
remote della Siberia, come la Kamcatka e la Jacutia.
Fuori
dall’URSS, è da notare che nella Repubblica Democratica Tedesca i capi
delle comunità ebraiche furono sottoposti ad interrogatorio da parte
delle forze di sicurezza. A Berlino Est, mille ebrei chiesero il visto
per gli Stati Uniti. Il 15 gennaio, quattro esponenti di primo piano
della comunità ebraica tedesco-orientale, tra cui Julius Meyer,
fuggirono a Berlino Ovest.
In
Ungheria, “Szabad Nép” scrisse, il 15 gennaio, che il Joint era solito
«nascondere veleno e pugnali» tra i «vestiti usati» che spediva agli
ebrei.
In Cecoslovacchia, il 16 gennaio “Rude Pravo” affermò che i «doni inviati dal Joint» erano in realtà «ordini di uccidere».
Dmitrij
I. Cesnokov, da poco condirettore del “Bolshevik”, capo di una nuova
sezione del Comitato Centrale e nuovo membro del Presidium, redasse un
opuscolo per spiegare perché gli ebrei dovevano essere deportati.
L’opuscolo, stampato dalla casa editrice del MVD in un milione di
esemplari, era intitolato “Perché gli ebrei devono essere trasferiti
dalle regioni industriali del paese”.
Contemporaneamente
veniva stilato il testo di una “Dichiarazione Ebraica”, destinata a
essere pubblicata sulla prima pagina della “Pravda” dopo la celebrazione
del processo contro i medici e la loro esecuzione sulla Piazza Rossa.
La “Dichiarazione Ebraica”, che avrebbe recato in calce le firme di
qualche decina di ebrei “leali”, sarebbe stata adoperata, se Stalin non
fosse provvidenzialmente morto nel frattempo, per giustificare la
deportazione di quasi tutti gli ebrei sovietici nel Kazakhstan e nel
Birobidzan. La “Dichiarazione”, secondo la ricostruzione che ne è stata
fatta in base alle testimonianze di Ilja Erenburg, sarebbe stata
formulata più o meno nei termini seguenti: «ci appelliamo al governo
dell’URSS, e al compagno Stalin personalmente, perché salvino la
popolazione ebraica da possibili violenze conseguenti alle rivelazioni
sui medici-avvelenatori e sul coinvolgimento di cittadini sovietici
rinnegati di origine ebraica, colti in flagrante a partecipare a un
complotto americano-sionista per destabilizzare il governo sovietico. Ci
uniamo al plauso di tutti i popoli sovietici per la punizione dei
medici assassini, i cui crimini esigevano la pena capitale. I sovietici
sono naturalmente indignati di fronte al continuo ampliarsi delle trame
del tradimento e al fatto che, e ciò ci addolora, molti ebrei hanno
aiutato i nostri nemici a costituire in mezzo a noi una quinta colonna.
Cittadini semplici, fuorviati, possono essere spinti a reagire colpendo
indiscriminatamente gli ebrei. Per questa ragione, vi imploriamo di
proteggere il popolo ebraico mandandolo nei territori orientali in via
di sviluppo, dove sarà impiegato in un lavoro di utilità nazionale e
sfuggirà alla comprensibile collera suscitata dai medici-traditori. Noi,
in quanto personalità di spicco tra gli ebrei fedeli all’Unione
Sovietica, respingiamo totalmente la propaganda americana e sionista che
afferma che in questo paese c’è antisemitismo. Si tratta soltanto di
una cortina fumogena per nascondere il loro tentativo fallito di
assassinare dirigenti sovietici e deviare le critiche del mondo dalla
questione dell’antisemitismo americano del caso Rosenberg e degli
intenti genocidi americani contro la popolazione nera statunitense.
Nell’Unione Sovietica, invece, il razzismo è vietato dalla costituzione e
non esiste affatto».
Tra
i firmatari della “Dichiarazione Ebraica” vi furono il già citato lo
scrittore Grossman, l’accademico Isaac Mints (1896 – 1991), il fisico
Lev Davidovic Landau (1908 – 1968) Premio Nobel nel 1962), il violinista
David Ojstrach (1908 – 1974), il compositore Matveij Blanter (1903 –
1990) e altri ebrei di una certa fama.
A
quanto si è detto, il piano di Stalin prevedeva che i medici dovevano
essere giustiziati subito dopo l’emissione della condanna. Sarebbero
stati impiccati nella Piazza Rossa, sulla Lobnoe mesto, una piattaforma
di pietra circolare accanto al Cremlino, adoperata nel Medioevo per le
esecuzioni. Poi sarebbero scoppiati degli incidenti: violenze contro
ebrei, pubblicazione della “Dichiarazione Ebraica”, pubblicazione di
lettere che chiedevano l’adozione di provvedimenti. Allora gli ebrei
dell’URSS (l’87% dei quali era concentrato nelle grandi città: Mosca,
Leningrado, Kiev, Odessa, Riga, Kharkov) sarebbero stati trasferiti in
campi a est degli Urali.
Nel
periodo di sei settimane intercorso tra l’annuncio del 13 gennaio e la
morte di Stalin, si diffuse la notizia che si stavano approntando mezzi
di trasporto sufficienti a spostare intere masse di persone. Tra i pochi
ebrei che rimanevano nei gradi elevati degli organi di polizia, dei
ministeri e dell’esercito, alcuni erano a conoscenza di particolari
specifici relativi a vagoni merci vuoti che restavano fermi, in attesa,
sui binari di raccordo. Un medico di rango elevato, che durante la
deportazione delle otto nazionalità sovietiche era stato responsabile
del controllo delle condizioni sanitarie sui treni utilizzati per le
evacuazioni, nel 1952 venne a conoscenza dei piani per la deportazione
degli ebrei. Il trasporto sarebbe stato organizzato con gli stessi
criteri seguiti per le deportazioni del periodo bellico. Comunque, lo
stesso sistema dei trasporti sarebbe stato ben presto depurato dalla
presenza ebraica. Si dice che Stalin avesse ordinato di preparare nei
maggiori nodi ferroviari per il febbraio 1953 un grande numero di carri
bestiame; in realtà, data la complessità dell’operazione, le
deportazioni non potevano avere inizio prima di aprile o maggio. Tra
l’altro, erano state mobilitate squadre di funzionari dell’MGB per
inventariare i beni che gli ebrei avrebbero abbandonato.
Secondo
gli ebrei che videro i campi dopo il periodo di Stalin, erano stati
costruiti baraccamenti appositi, puliti e nuovi. Vladimir Lifshitz, un
tecnico ebreo che lavorò per la marina russa nella Siberia occidentale
dieci anni dopo il complotto dei medici, il 9 novembre 1987 raccontò a
Louis Rapoport di aver visto un campo mai utilizzato con file e file di
baracche. Questo campo si trovava sugli altipiani non lontani da
Barnaul, una cittadina nella regione del Kuzbass, a nordest del
Kazakhstan e a sud di Novosibirsk e della zona petrolifera della Siberia
occidentale. Quest’area, il doppio dell’Italia, era costellata da
centinaia di campi di concentramento. Il campo che il tecnico e i suoi
uomini avrebbero visitato era una città fantasma di baracche fatiscenti,
che si estendeva su un paio di chilometri quadrati.
Nel
1956 furono trovati nel Birobidžan altri due campi simili a questo;
altri baraccamenti, situati sull’isola di Novaja Zemlja, a nordest di
Arcangelo, erano stati costruiti per diretto ordine di Stalin.
Si
parlò anche di un grandioso piano di sviluppo per trasformare la
Siberia in un impero industriale. Alle schiere di lavoratori in
condizioni di schiavitù si sarebbero aggiunti circa due milioni di ebrei
e altri due o tre milioni di nuovi prigionieri politici.
Tra
le centinaia di migliaia di ebrei che già si trovavano nel Gulag c’era
anche Iosif Berger (1904 – 1978), uno dei fondatori del partito
comunista in Palestina, che all’inizio degli anni Trenta era tornato
nell’Unione Sovietica dove era incappato nei rigori della Grande Purga.
Berger si convinse che si stava progettando la liquidazione degli ebrei.
In
ogni caso, erano già cominciati gli arresti e le retate. Alcuni ebrei,
come il dottor Jakov Rapoport (1898 – 1996), che era stato arrestato a
metà gennaio 1953, venivano coinvolti direttamente nel caso dei medici
del Cremlino. Altri, come il dottor Solomon Nezlin, arrestato verso la
fine di gennaio, furono collegati indirettamente al complotto attraverso
un parente: il fratello era uno dei medici che avevano visto nel 1948
le cartelle cliniche di Zdanov. Anche i familiari di ebrei giustiziati,
come Perec D. Markis (1895 – 1952, il letterato che aveva eseguito la
lamentazione funebre ai funerali di Mikhoels), furono arrestati in
seguito all’annuncio del 13 gennaio. La polizia segreta arrestò tutta
quanta la famiglia Markish: David, la madre Esther, la sorella Olga, il
fratello Simon, il cugino Juri. Condannati a dieci anni di confino,
furono spediti nel Kazakhstan settentrionale su un vagone piombato. Sul
medesimo vagone viaggiava anche Marija Iusefovic, moglie di un
funzionario sindacale che aveva svolto attività nel Comitato
Antifascista Ebraico. Il 30 e il 31 gennaio furono arrestati i familiari
di altre personalità del Comitato Antifascista Ebraico: l’attore e
condirettore del Teatro Yiddish di Mosca Benjamin Zuskin, sua moglie
(l’attrice Eda) e la loro figlia; la famiglia di Leib Kvitko (1890 –
1952), scrittore ebreo, già membro del Comitato Antifascista Ebraico; la
famiglia di David Bergelson (1884 – 1952), il poeta yiddish che era
stato membro del Comitato Antifascista Ebraico. Furono arrestate anche
le mogli dei medici del Cremlino.
Secondo
Roy Medvedev (1925), Stalin progettava di deportare la maggior parte
degli ebrei non in Siberia o nel Birobidžan , ma nelle regioni
settentrionali del Kazakhstan, dove lo spazio per i due milioni di ebrei
sovietici era più che sufficiente. Il solo campo di Karaganda, che si
estendeva per più di 450 chilometri, poteva accoglierne una gran parte.
Nella
zona intorno al villaggio di Karmacij, dove arrivò la famiglia Markis,
c’erano già molti altri ebrei. Oltre a un’intera colonia di ebrei della
Bessarabia, deportati dopo l’annessione della Bessarabia all’URSS,
c’erano ebrei provenienti da Bukhara, da Kiev, da Odessa e da altre
città.
Dopo
l’annuncio del 13 febbraio, la campagna della stampa e della radio
contro i “medici stranieri” e i “cani arrabbiati di Tel Aviv” proseguì
ininterrotta. Un lungo saggio di Ladislao Carbajal, intitolato “La
questione ebraica non esiste nella società socialista”, accusava il
primo ministro israeliano Ben Gurion (1886 – 1973), il ministro degli
esteri Moshe Sharett (1894 – 1965) e l’ambasciatore all’ONU Abba Eban
(1915 – 2002) di essere ispiratori di un’attività spionistica che veniva
sviluppata per conto degli USA e dell’Inghilterra.
La
“Pravda” del 6 febbraio diede la notizia dell’arresto degli ebrei S.D.
Gurevic e J.A. Taratuta. Fu arrestato anche il direttore del Teatro
dell’Arte di Mosca, Igor Neznij, un vecchio amico di Mikhoels accusato
di far parte del centro sionista diretto dal pianista Grigorij Ginzburg
(1904 – 1961).
Tutto
ciò indusse l’ebraismo statunitense a mobilitarsi in difesa degli ebrei
dell’URSS. I dirigenti del B’nai B’rith (Nota 2) andarono al
Dipartimento di Stato a esprimere i loro timori per la situazione
dell’ebraismo sovietico. Un gruppo di quarantanove personalità
ebreo-americane di grande rilievo il 12 febbraio rivolse un appello a
Eisenhower affinché parlasse pubblicamente dei milioni di ebrei del
blocco sovietico che si trovavano esposti a «una nuova epidemia di
pogrom, ad aggressioni istigate dai comunisti»; il presidente americano
veniva invitato a pronunciare una «solenne condanna pubblica e
l’avvertimento che questo attacco contro il popolo ebraico costituisce
un incitamento al massacro». Il 16 febbraio il senatore Robert C.
Hendrickson (1898 – 1964) presentò la risoluzione numero 71 del Senato,
firmata da lui e da altri due senatori, che paragonava “l’antisionismo”
comunista all’antisemitismo nazista.
Alle
parole si accompagnarono i fatti. Il 9 febbraio una violenta esplosione
scosse il centro di Tel Aviv: un attentato distrusse la legazione
dell’URSS, sicché rimasero feriti tre cittadini sovietici. L’attentato
terroristico era opera della vecchia Banda Stern di Yitzhak Shamir. Tre
giorni dopo, l’URSS ruppe le relazioni diplomatiche con Israele. Ben
Gurion dichiarò alla Knesset che la rottura diplomatica faceva parte di
una massiccia campagna diffamatoria sovietica, nuovo atto di una storia
di quattromila anni di odio, calunnie, torture, distruzioni e massacri
subiti dal popolo eletto.
Il
14 febbraio le “Izvestija” spiegavano che il funzionario del
Dipartimento di Stato americano William Draper, aiutato dal Joint e
dagli istituti bancari Dillon, Read e Harriman Bros., stava realizzando
il piano segreto dell’ex ministro del tesoro Henry Morgenthau, del
deputato Emanuel Celler e del senatore Jacob Javits, che consisteva nel
fare di Israele la principale base antisovietica del Vicino Oriente. Tra
gli uomini del Joint e Tel Aviv, diceva l’articolo, c’era «la feccia
della società, trotzkisti, nazionalisti borghesi e cosmopoliti sradicati
d’ogni sorta, che per un pugno di dollari hanno venduto il loro onore,
il loro popolo e il loro paese».
«Ciò
che provocò la collera di Stalin contro Israele – scrive François Fejtö
(1909 – 2008) – non fu tanto il naturale filo-americanismo d’Israele,
quanto le tumultuose simpatie filoisraeliane della popolazione ebraica
dell’Unione Sovietica, quella passione per Israele che si espresse in
maniera così significativa nell’accoglienza trionfale tributata al primo
inviato del nuovo stato, la signora Golda Meir. Questo stato d’Israele,
non era forse il coronamento dei lunghi e pazienti sforzi dei pionieri
di Sion, tra i quali gli ebrei russi avevano avuto un ruolo di primo
piano? Il giudaismo russo poteva giustamente considerare Israele come la
realizzazione dei propri sogni, come una creatura del suo spirito e
della sua carne. Agli occhi di Stalin, invece, questo entusiasmo, questa
solidarietà senza riserve erano una sfida intollerabile al sovietismo,
incompatibile sia con l’internazionalismo dottrinale che con la ragione
di stato dell’Unione Sovietica, tesa da quel momento allo sfruttamento
delle animosità arabe contro l’occidente, protettore d’Israele».
Il
30 febbraio il “Manchester Guardian” riferì che il ministro degli
esteri sovietico Visinskij aveva invitato a Mosca uno dei peggiori
nemici d’Israele, il Gran Muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseyni
(1895 – 1974), che si era rifugiato al Cairo dopo essere stato
condannato per crimini contro l’umanità. L’invito venne formulato
proprio il primo giorno della festa ebraica dei Purim.
Il
regime di Tito organizzò il 27 febbraio a Belgrado una grande
manifestazione di protesta contro l’antisemitismo sovietico. Gli oratori
condannarono i sovietici perché calpestavano i diritti dell’uomo e
accusarono il Cremlino di far incombere sugli ebrei dell’Europa
orientale le «identiche possibili conseguenze estreme» già verificatesi
sotto il dominio nazista.
A
parte Lazar Moiseevic Kaganovic (1893 – 1991), che era l’ebreo
sovietico di rango più elevato, il generale dell’NKVD (Nota 3) Lev
Zacharovic Mechlis (1889 – 1953) era l’ultimo dirigente sovietico di
origine ebraica che ancora fosse presente nelle gerarchie del regime.
Mechlis aveva arrestato il proprio padre, un impiegato ebreo di Odessa, e
aveva testimoniato contro di lui davanti ad un tribunale della polizia
segreta. Secondo le memorie di Nikita Sergeyevich Khrushchev (1894 –
1971) assieme a Kaganovic aveva organizzato la morte di centinaia di
migliaia, forse milioni di persone. In particolare, aveva epurato il
corpo ufficiali. Nell’ottobre del 1950 era stato sollevato dal suo
ultimo incarico, quello di ministro del controllo statale. Nell’ottobre
del 1952, al XIX Congresso del PCUS (Nota 4), fu eletto nel comitato
centrale. Dopo l’annuncio del complotto dei medici, Mechlis si allontanò
di soppiatto da Mosca e andò a Saratov, dove si ammalò. Portato a Mosca
per essere curato nell’infermeria dell’MVD (Nota 5) nel carcere di
Lefortovo, vi morì, stando alla “Pravda”, venerdì 13 febbraio, per un
attacco di cuore conseguente alla degenerazione del cervello e dei vasi
del cuore e del sistema nervoso. Il cadavere di Mechlis venne cremato e
le sue ceneri furono collocate nel muro del Cremlino.
Nel
periodo del complotto dei medici, tutti i funzionari sovietici di alto
rango che erano sposati con donne ebree furono sottoposti a pressione
affinché divorziassero. Vi furono anche casi di divorzi fittizi, attuati
allo scopo di passare indenni attraverso la tempesta.
Il
maresciallo Kliment Efremovic Vorosilov (1881 – 1969, già nel 1940
sollevato dall’incarico di commissario per la difesa), che era sposato
anche lui con un’ebrea, Ekaterina, si rifiutò di divorziare. Nel
febbraio 1953 scacciò con la pistola alla mano quattro agenti dell’MGB
che si erano presentati a casa sua (la più imponente e sontuosa tra le
dacie dei grandi della Rivoluzione) per arrestare Ekaterina.
Alla
fine di febbraio, Vorosilov fu invitato a una riunione del Presidium in
cui si sarebbe dovuto discutere del trasferimento degli ebrei. Alla
riunione, Stalin rivelò i particolari del suo piano per combattere il
“complotto imperialista e sionista” contro l’Unione Sovietica e disse
che si rendeva necessaria l’immediata deportazione in massa nell’Asia
centrale e nel Birobidžan. Quando ebbe terminato di parlare, tra la
ventina di persone sedute intorno al tavolo delle riunioni cadde un
silenzio totale. A un certo punto Kaganovic domandò con voce esitante se
sarebbero stati deportati tutti gli ebrei sovietici senza eccezioni.
Stalin rispose: «Un certo settore». Kaganovic non replicò. Molotov, la
cui moglie era già scomparsa in territori lontani, osò dire che il
trasferimento degli ebrei avrebbe avuto un impatto negativo
sull’opinione pubblica mondiale; Mikojan annuiva. Intervenne allora
Vorosilov, il quale affermò che un’azione del genere avrebbe destato nel
mondo la medesima reazione che già c’era stata contro Hitler. Poi, con
gesto teatrale, gettò la tessera del PCUS sul tavolo, dicendo che il
piano di trasferimento violava l’onore del Partito e che lui non voleva
appartenere a un’organizzazione come quella. Stalin gli gridò: «Compagno
Kliment, deciderò io quando non sarai più autorizzato a tenere la
tessera del Partito»! E si infuriò a tal punto, che ebbe una crisi e
crollò al suolo.
Il
22 e il 23 febbraio la campagna contro i nemici del sistema sovietico
rallentò improvvisamente. Dopo il 25 febbraio non si ebbero più notizie
di arresti di elementi ebraici. La campagna si interruppe il 1 marzo; il
2 marzo, per la prima volta dal 13 gennaio, la “Pravda” non parlava più
dei medici avvelenatori.
Non
meno di trentasei ore dopo che il cuore di Stalin aveva cessato di
battere, alle 7 del mattino del 4 marzo Radio Mosca annunciò al mondo
che il Padre dei popoli dell’URSS era gravemente malato. «Il Comitato
Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e il Consiglio dei
ministri dell’Unione Sovietica annunciano la disgrazia che ha colpito il
nostro Partito e il nostro popolo: la grave malattia del compagno Iosif
Visarionovic Stalin».
La guerra di Stalin contro gli ebrei era finita.
Note:
1:
La prima moglie di Poskrebysev era un’ebrea e nel 1949 Stalin lo aveva
invitato a divorziare. Una notte, tornato a casa, non trovò più la
moglie. Si rivolse a Stalin, il quale gli disse: «Hai bisogno di una
moglie? Ne avrai una nuova». Rientrato a casa quella sera, Poskrebysev
aveva trovato ad attenderlo quella che sarebbe diventata la sua seconda
moglie, una russa autentica.
2:
L’Ordine Indipendente B’nai B’rith (in ebraico: בני ברית, “figli
dell’alleanza”) è una loggia ebraica nata nel 1843 durante la presidenza
di John Tyler ed ancora esistente ed attiva. La sua missione è quella
di fare beneficenza verso i poveri.
3:
Il Commissariato del popolo per gli affari interni, noto anche con
l’acronimo NKVD fu un dicastero attivo nella Russa sovietica dal 1917 al
1930 e poi, riorganizzato a livello centrale, in Unione Sovietica dal
1934 al 1946.
4:
Il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, noto anche con l’acronimo
PCUS è stato un partito politico di orientamento marxista.
5:
Il Ministero degli Affari Interni era un ministero del governo
nell’Unione Sovietica. La MVD, un’agenzia succeduta al NKVD, fu
istituita nel marzo 1946. A differenza del NKVD, ad eccezione di un
periodo di circa 12 mesi, da metà marzo 1953 fino a metà marzo 1954, il
MVD non includeva le unità (agenzie) interessate attività segreta
(politica), quella funzione assegnata al Ministero della Sicurezza dello
Stato (MGB), dal marzo 1954 al KGB.
Per approfondimenti:
_Soviet Jewry: A new Estimate, “Jewish Chronicle”, 23 ottobre;
_David Dallin e Boris Nikolaevskij, Il lavoro forzato nella Russia sovietica, Sapi, Roma, 1949;
_Roy A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972;
_Svetlana Alliluyeva, Soltanto un anno, Mondadori, Milano 1969;
_Ariè Eliav, Tra il martello e la falce, Barulli, Roma 1970;
_Robert Conquest, Power and Policy in the USSR. The Study of Soviet Dynastics, Phaeton, New York 1975;
_Meir Cotic, The Prague Trial: The First Anti-Zionist Show Trial in the Communist Bloc, Herzl Press, New York 1987;
_Camil Ring, Stalin le aveva detto, ma…, Mondadori, Milano 1953;
_B. Z. Goldberg, The Jewish Problem in the Soviet Union: Analysis and Solution, Crown, New York 1961;
_Louis Rapoport, Stalin’s War against the Jews, The Free Press, New York 1990;
_J. Berger, Shipwreck of a Generation, Harvill Press, London 1971;
_François Fejtö, Gli ebrei e l’antisemitismo nei paesi comunisti, Sugar, Milano 1962;
_Arthur Koestler, Lo yogi e il commissario, Liberal Libri, 2002.
TRATTO DA:
https://dasandere.it/stalin-e-lebraismo-il-grande-eccidio/?fbclid=IwAR3ttELnbFK-zM41TXINchpnloZrXBJCCI5GXyqEdhTYOPdQY5eQ68gRIU8
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