di Emma Moriconi
Troppe verità sono rimaste nascoste: è necessario fare chiarezza sulle responsabilità di ciascuno
Sul sangue
versato a Marzabotto molto si è detto e scritto. È una pagina orribile
della storia del Paese, una pagina fatta di vittime innocenti
massacrate. Ma la storia bisogna conoscerla tutta ed è necessario che
ciascuno si assuma le proprie responsabilità. Per conoscere la storia è
indispensabile fondare ciò che si racconta su dati inoppugnabili,
concentrandosi sulla realtà dei fatti. Anche su Marzabotto, come già
abbiamo fatto in passato in merito ad altre brutte vicende patrie, è il
caso dunque di fare chiarezza.
A dare un contributo essenziale alla
ricostruzione della verità storica dei fatti del 29 settembre 1944 a
Marzabotto è ancora una volta Giorgio Pisanò. Il prezioso lavoro del
giornalista è unico, per molti aspetti. Su Marzabotto scrive:
“precisiamo subito, data la gravità dei fatti che ora racconteremo, che
la nostra documentazione poggia su decine e decine di testimonianze da
noi raccolte sui luoghi stessi del grande dramma: testimonianze di
superstiti, di familiari di caduti, di sacerdoti, di molte persone che
poterono seguire con i loro occhi lo svolgersi degli avvenimenti”.
Testimonianze, quelle che cita Pisanò, che gli sono state rese alla
presenza di un altro giornalista, Antonio De Caro e di un maresciallo
dei carabinieri, e delle quali possiede dichiarazioni firmate.
Questa premessa è necessaria, come pure è
indispensabile sottolineare come nessuno mai ha smentito o corretto ciò
che Pisanò ha scritto in merito.
Detto questo, passiamo ad analizzare i
fatti. Cosa è stato scritto sui libri e sulle riviste, “specializzate” e
non, è cosa nota, tuttavia vale la pena riferirlo ancora, almeno per
sommi capi: secondo i corposi volumi che sono stati stampati lungo lo
Stivale nel corso degli ultimi 70 anni, Marzabotto fu teatro di
un’orribile rappresaglia operata dalle SS tedesche contro la popolazione
civile innocente ed inerme; gli “eroici” partigiani della Stella Rossa –
scrivono sempre gli stessi libri – combatterono eroicamente contro
l’invasore non riuscendo a vincerlo e cadendo “gloriosamente” sul campo
di battaglia dopo una strenua quanto purtroppo inutile “difesa della
popolazione”. Punto.
Non basta. E non è neppure esatto. Ricominciamo da capo, dunque.
Nel dicembre 1943, nel territorio di
Marzabotto – circa venti km a sud di Bologna – si costituì il primo
nucleo della Brigata Partigiana Stella Rossa. A comandarla c’era un
certo Mario Musolesi, detto “Lupo”. Il lettore attento ricorderà che di
questo personaggio abbiamo parlato recentemente. Musolesi, lo abbiamo
già detto, non era un comunista, anche se come tale venne celebrato dai
suoi “compagni”, gli stessi che lo fredderanno senza pensarci troppo
proprio in quel 29 settembre del ’44. Sorvolando dunque sulla figura di
Musolesi (ma il lettore può facilmente trovarne un approfondimento sul
portale del Giornale d’Italia), bisogna però precisare che, se pure il
Lupo comunista non era, ad inquadrare la Stella Rossa erano elementi del
partito comunista. Cominciamo dunque a conoscere questa “Stella Rossa”
attraverso le testimonianze raccolte da Pisanò: “L’attività principale
dei comunisti della ‘Stella Rossa’ – scrive il giornalista in un
virgolettato, riportando testualmente una serie di testimonianze dirette
– consistette nella sistematica spoliazione dei civili. Casa per casa, i
partigiani comunisti rastrellarono gioielli, oro, argento, danaro
liquido. E guai a chi si ribellava. Guai a chi tentava di opporsi”. Gli
episodi di questo genere furono moltissimi, Pisanò ne riferisce alcuni:
persona anziane maltrattate e minacciate per ottenere denaro, furti e
percosse per chi non pagava le somme pretese, volantini minacciosi
affissi per le strade secondo i quali, per esempio, “se entro il 24
giugno la milizia fascista non avrà abbandonato Monzuno, il paese verrà
raso al suolo” al fine di far evacuare il borgo per depredare più
comodamente le abitazioni vuote. Un sacerdote riferisce al giornalista,
con dovizia di particolari, di come i comunisti entravano nelle case
della povera gente per rubare ogni cosa gli capitasse per le mani, e
riferisce che “coloro che si lamentarono o che si ribellarono
chiamandoli ladri, furono subito prelevati, bastonati a sangue e
uccisi”. I casi riferiti da Pisanò sono tantissimi, impossibile
riportarli tutti in questa sede. Chi volesse approfondire può tentare di
reperire il volume “Sangue chiama sangue”: naturalmente si tratta di un
libro difficile da trovare ormai, ma che ebbe negli anni Sessanta una
vasta eco per le verità – scomode – che riportava, al punto che al 1965
ne erano state già stampate nove edizioni.
Con il tempo, i partigiani della Stella
Rossa, dopo aver seminato adeguatamente il panico nel territorio in cui
imperversano, cominciarono con gli agguati ad automezzi isolati tedeschi
e ad un camion della Milizia. Le rappresaglie arrivarono, a scapito di
civili innocenti. Altro che “eroiche resistenze” … Rappresaglie
provocate dai partigiani, i quali lasciarono che altri, senza colpe,
morissero al loro posto, per crimini commessi da loro.
Le bande sulle montagne cominciarono
presto a diventare più consistenti di numero, anche perché gli
angloamericani provvedevano a fornire loro armi e munizioni. Dalle
numerose testimonianze recuperate da Pisanò, risulta anche che i
partigiani comunisti penetravano nelle caserme dei carabinieri
travestiti con divise tedesche e fasciste e uccidevano i militari che
avevano aperto le porte ignari di chi avevano di fronte. Gli episodi
orribili perpetrati dai partigiani della Stella Rossa furono tantissimi,
tutti contrassegnati dalla stessa meccanica: colpire mezzi nemici
isolati, scappare, lasciare la popolazione innocente alle inevitabili (e
comunque ingiustificate) rappresaglie. Mai una battaglia diretta, mai
il coraggio di affrontare il nemico e di combattere. Altro che “eroici
scontri per difendere la popolazione”. Persone uccise per ragioni
economiche o per violenza gratuita, fatte passare per “fascisti
giustiziati” … “giustiziati”: strano termine per indicare degli omicidi.
Il dissidio tra il Lupo e la Stella Rossa e le menzogne che vengono sbugiardate
La parola d’ordine è: “Provocare la rappresaglia”
“I comunisti avevano un solo scopo: fare dilagare l’incendio per atteggiarsi poi a unici vendicatori degli innocenti massacrati”
La lunga premessa di cui sopra è
indispensabile per raccontare la strage di Marzabotto. Dei fatti del 29
settembre ‘44 parleremo domani, ora occorre fornire un quadro esatto
della situazione, ed è necessaria ancora qualche precisazione.
Nei giorni antecedenti l’eccidio, le
truppe alleate erano ormai a ridosso del territorio in questione. Questo
rendeva baldanzosi i partigiani della Stella Rossa, che ormai facevano
il bello e il cattivo tempo.
Con il trascorrere dei mesi, intanto, il
dissidio tra i comunisti e il Lupo si faceva sempre più aspro. Ed ecco
la testimonianza di un ex partigiano non comunista, raccolta ancora una
volta da Pisanò: “L’urto tra Lupo e i comunisti irritò ancora di più i
capi dell’organizzazione rossa, che già da tempo sopportavano a
malincuore la presenza, in una zona ritenuta nevralgica, di un capo
partigiano tutt’altro che ligio alle loro direttive [però all’inizio il
Lupo era stato molto utile, essendo un personaggio dotato di un certo
carisma e di un certo seguito, ndr]. Fu così – continua la testimonianza
– che impartirono ordini precisi, ai loro seguaci che militavano nella
Stella Rossa, affinché nella zona di Marzabotto la guerriglia si
scatenasse con maggiore violenza. I comunisti avevano un solo scopo:
fare dilagare l’incendio; provocare a tutti i costi le rappresaglie per
atteggiarsi poi a unici vendicatori degli innocenti massacrati. Con i
tedeschi esasperati, resi ancora più feroci dalle sconfitte, il
giochetto sarebbe riuscito perfettamente”. Un giochetto che,
effettivamente, ha funzionato sin troppo, e per troppo tempo: lo
dimostrano le targhe apposte in giro per il Bel Paese celebranti spesso
comportamenti vili scambiati per eroici.
Non solo: “I comunisti – continua -
giunsero a trasportare nella zona di Marzabotto o di Vergato o di
Rioveggio, i cadaveri di soldati tedeschi uccisi in altre località
affinché i comandi germanici si convincessero che quelli della Stella
Rossa rappresentavano un pericolo gravissimo per le retrovie tedesche e
si decidessero a scatenare la rappresaglia”.
Un fatto, che i libri non riferiscono, è
cruciale nello svolgersi delle vicende subito precedenti l’eccidio del
29 settembre: i tedeschi sapevano che gli alleati si stavano
avvicinando, era diventato urgente fermarli per impedire che giungessero
a Bologna. Per questa ragione pensarono di proporre ai partigiani una
tregua: “Se vi impegnate a restare tranquilli nei vostri accantonamenti –
dissero loro, riferisce ancora Pisanò – se vi impegnate a sospendere
gli attacchi alle nostre linee di comunicazione, noi vi garantiamo la
cessazione di ogni rappresaglia”. E mentre al Lupo sembrò una buona
occasione per far cessare lo spargimento di sangue innocente, per i
comunisti era proprio ciò che non volevano: quel sangue innocente a loro
serviva, invece, proprio allo scopo di spacciarsi per eroi e di
addossare ogni possibile colpa sul nemico. Fu così che all’interno della
Stella Rossa la spaccatura si fece ancor più profonda. “Allorché i
parlamentari tedeschi tornarono nella zona e si avvicinarono a Cadotto,
una località sui monti di Rioveggio dove si era sistemato il comando del
Lupo – scrive ancora Pisanò – vennero attirati in un’imboscata e
massacrati. Quest’imboscata, contraria a tutte le norme di guerra,
imbestialì i tedeschi che decisero di agire”. I fatti del 29 settembre
sono l’oggetto della puntata di domani di questo piccolo speciale
dedicato a quell’eccidio, a quelle vittime innocenti.
emoriconi@ilgiornaleditalia.org
Emma Moriconi
Ottocento tedeschi e millecinquecento partigiani, che si defilarono in fretta abbandonando i civili al loro terribile destino
Dopo l’imboscata
ai danni dei tedeschi, quella che – dicevamo due giorni fa – Pisanò
definisce “contraria a tutte le norme di guerra”, i tedeschi reagirono
con forza: come previsto, come era facilmente intuibile. Le premesse di
cui abbiamo parlato a lungo nella prima parte di questo piccolo speciale
sono fondamentali per comprendere gli sviluppi della vicenda che
intrise di sangue la terra di Marzabotto. I tedeschi, dicevamo,
reagirono: “Il 17 settembre – scrive Pisanò – sul quotidiano bolognese
Il Resto del Carlino, apparve il seguente comunicato che venne affisso
anche in tutta la zona di Marzabotto: “Ultimo monito ai sabotatori.
Italiani: i sistemi di lotta dei banditi hanno assunto il carattere
bolscevico […] Tutti i colpevoli saranno puniti con la massima severità.
In caso di nuovo attacco a persone, mezzi di comunicazione, pneumatici
di automezzi, ferrovie, tram, telegrafo, telefono eccetera, le località
dove si saranno verificati tali attentati saranno incendiate e
distrutte. Gli autori dei delitti e i loro favoreggiatori saranno
impiccati sulla pubblica piazza. Questo è l’ultimo avviso agli
indecisi”.
La rappresaglia, insomma, non giunse
all’improvviso. Tutti sapevano che i tedeschi avevano cattive intenzioni
in caso di provocazioni, lo sapevano - meglio di tutti - i partigiani
della Stella Rossa, e molte testimonianze raccolte da Pisanò convergono
in questa direzione. I partigiani, però, non si preoccuparono certo di
mettere in salvo la popolazione, che rischiava di essere massacrata per
le provocazioni contro i tedeschi messe in atto proprio da loro, anzi:
la sera del 28 settembre, il giorno prima dell’orrenda strage,
organizzarono una festa a Cadotto. “Le sentinelle facevano baldoria –
racconta un testimone diretto a Pisanò – Si ballava, si cantava, si
beveva […] quello che accadde dopo mi ha sempre fatto pensare che molti
tra i capi, quella notte, non si ubriacarono affatto, visto e
considerato che furono straordinariamente lesti, al momento opportuno, a
tagliare la corda”.
Fu così che in quel 29 settembre la
furia tedesca si abbatté sulla popolazione, secondo modalità che – al
solito – sono state descritte dagli stessi partigiani – glorificatori di
se stessi – in maniera diversa da come andarono realmente le cose.
Alcune fonti partigiane hanno parlato di ventimila tedeschi contro
ottocento partigiani, altre parlano di cannoni, carri armati, mortai,
lanciafiamme, roba da film americano insomma, in cui i “pochi contro
molti” sono eroici martiri che gettano la loro vita nel fuoco di una
battaglia impari, senza paura …
Dice Pisanò: “I tedeschi non erano
ventimila, non erano nemmeno mille; e non ci fu una ‘difesa eroica’ da
parte dei comunisti della Stella Rossa: ci fu, salvo rarissime eccezioni
di elementi rimasti isolati, una fuga generale verso le linee alleate.
Non solo: i comunisti, ben nascosti nella boscaglia, assistettero spesso
al massacro degli innocenti senza mai intervenire in difesa di quei
poveretti che morivano per colpa loro. Racconta don Alfredo Carboni: ‘I
partigiani che non furono subito uccisi, fuggirono: ma nessuno pensò di
difendersi con le armi o di difendere i civili che abbandonarono in
balia dei tedeschi’”.
Pisanò, per ricostruire la verità
storica di quella orribile giornata, analizza gli atti del processo
celebrato a Bologna nell’ottobre del 1951 nei confronti del maggiore
Reder, che ordinò la rappresaglia. Ciò che emerge è che i tedeschi non
erano ventimila ma ottocento. Che non avevano artiglieria, carri armati,
aviazione e roba del genere. Inoltre, che nessun fascista partecipò
alla strage. Il solo italiano presente insieme ai tedeschi (e, dice
Pisanò, “lo riveliamo con un senso di orrore e vergogna”) era un ex
partigiano della Stella Rossa che si era venduto alle SS. Continua il
giornalista: “Il nome di questo Caino preferiamo non scriverlo: diremo
solo che era noto nella zona con lo pseudonimo di ‘Cacao’. Fu ‘Cacao’ a
guidare i tedeschi; fu lui ad indicare con precisione i casolari e le
fattorie dove si erano alloggiati i principali comandi della brigata; fu
lui ad indicare alle SS molti dei civili che avevano ospitato ed
aiutato i partigiani”. Il resoconto che fa Pisanò, le testimonianze
raccolte, le parole dei superstiti fanno rabbrividire.
Occorre ora riferire che i civili
presenti nel territorio di Marzabotto poco prima dell’inizio
dell’orrenda rappresaglia erano più di un migliaio, i partigiani circa
millecinquecento. I civili massacrati furono circa settecento, i
partigiani uccisi solo una decina: lo accertò il processo Reder. Tutti i
capi, naturalmente, si salvarono. L’unico a rimetterci la pelle fu
proprio il Lupo. Di lui e della sua sorte abbiamo già parlato di
recente, giova qui ripetere che la sua non fu una morte sopraggiunta in
battaglia, ma che fu freddato dai suoi stessi compagni, per i quali era
diventato un personaggio scomodo, in quanto non allineato con i
comunisti.
Il volumetto dell’ex partigiano
Arroccati su Monte Sole: altro che “eroici combattimenti ingaggiati contro il nemico”
“In quel camerone morirono sotto la
mitraglia delle SS ottantun innocenti: dov’erano – si chiede Pisanò – i
partigiani della Stella Rossa mentre si compiva la strage? E dov’erano
mente i tedeschi trucidavano 148 innocenti a Casaglia; 38 a Casa
Benuzzi; 107 a Caprara di Marzabotto; 47 a San Giovanni; 145 tra
Cadotto, Prunaro e Steccola; 49 a Cerpiano; 19 a Sperticano; 48 a Pioppe
di Salvaro?”. È strano, eppure, in settant’anni di celebrazioni dei
caduti di Marzabotto, nessun membro dell’Anpi ne ha mai parlato. In
compenso sono sempre pronti, medaglie d’oro alla mano, a strillare di
improbabili “rigurgiti fascisti” ogni volta che scatta un saluto romano,
magari in occasione di cerimonie per la commemorazione di giovani,
caduti spesso per mano della violenza politica. Dunque bisognerà che
qualcuno lo dica, e la responsabilità della verità se la assume ancora
una volta quel giornalista, fascista, amante della verità e della
giustizia, che risponde al nome di Giorgio Pisanò: “I comunisti della
Stella Rossa, mentre centinaia di donne e bambini morivano per colpa
loro – scrive senza peli sulla lingua – stavano fuggendo verso le
ospitali linee angloamericane. È ora di chiarire, infatti, che la
brigata Stella Rossa non combatté ‘strenuamente’ sulle montagne di
Marzabotto per difendere il ‘suo territorio’ dall’attacco nazista; è ora
di specificare che non uno dei millecinquecento partigiani comunisti
della Stella Rossa morì per difendere l’esistenza di quella povera gente
presa nella morsa di ferro e di fuoco delle SS”.
Lo dimostra, dice ancora Pisanò, il
resoconto di un ex partigiano, Renato Giorgi, che nel suo “Marzabotto
parla” racconta per viva voce dei pochi superstiti quelle vicende. Nel
volumetto non c’è alcun accenno a “strenui combattimenti”, sebbene tenti
di tessere le lodi della brigata. È lo stesso Giorgi a pubblicare la
testimonianza di tal Augusto Grani, superstite dell’orrenda strage, il
quale dichiara testualmente di aver avvisato una settantina di
partigiani che i tedeschi stavano sopraggiungendo: “Decisero di
ritirarsi più in alto – racconta Grani – verso il Monte Sole in una zona
lontana dalle abitazioni, e lì schierarsi per affrontare i nemici.
Infatti, al sopraggiungere dei nazisti, da noi non vi era più un solo
partigiano e neppure segno alcuno della loro presenza”.
Occorre aggiungere che sul Monte Sole
nessun partigiano oppose alcuna resistenza, di alcun tipo: gli unici a
combattere lassù furono alcuni russi, prigionieri di guerra dei
tedeschi. Ma il volumetto di Giorgi fa di più: riferisce i dettagli di
un episodio che vale la pena riferire testualmente: “Prima dell’alba del
29 settembre – scrive Giorgi – assalita da soverchianti forze nemiche
[ricordiamo che le ‘soverchianti forze nemiche erano – come accertato in
sede processuale – ottocento uomini in tutto contro millecinquecento
partigiani …], la nostra brigata si trovò stretta in una morsa di fuoco.
Dopo alterne vicende una parte di noi fu asserragliata sulla cime
scoperta di Monte Sole, chiusa in una trappola impossibile da infrangere
date le nostre scarse forze [!] in confronto al numero [!] e
all’armamento [!!] del nemico […] Dalla cima del monte, col binocolo
seguivo i movimenti dei nazifascisti [occorre ribadire ciò che abbiamo
già scritto sopra: il Processo accertò che nessun fascista partecipò
alla rappresaglia]. Appena giorno avevo contato 54 grandi falò, di case
isolate o a gruppi, bruciare intorno vicini e lontani. Dal mio posto di
osservazione vidi quanto i nazisti facevano nel cimitero di Casaglia, la
gente ammucchiata tra le tombe e loro che preparavano le mitraglie.
Provammo a sparare [!], ma la distanza era troppa per un tiro efficace.
Più tardi, sempre stretti in quel cerchio inesorabile, potei col
binocolo seguire i nazifascisti [!!] nella loro opera di distruzione di
Caprara. Vidi cinque nazisti trascinarsi dietro sedici donne legate una
all’altra con un grosso cavo; una stringeva al petto un bimbo di pochi
mesi. Anche in questo caso provammo a intervenire e sparare [!!] ma
senza possibilità di portare un valido aiuto. Era per noi straziante
assistere a fatti simili, impotenti a intervenire, e tale visione
terribile era più debilitante che il fuoco nemico”. Qualche domanda:
dunque ci fu o non ci fu questa “strenua resistenza contro il nemico”?
Combatterono – come dicono – o “osservarono da Monte Sole con il
cannocchiale, impotenti ad intervenire”? Cosa significa “provammo a
intervenire, provammo a sparare”? Cosa c’è di “eroico” nel racconto
dell’ex partigiano Giorgi? Siamo costretti, per ovvie ragioni di spazio,
a chiudere qui questo piccolo speciale dedicato alle innocenti vittime
di Marzabotto, alla memoria delle quali però, bisogna dirlo, spetta
almeno il diritto alla verità.
emoriconi@ilgiornaleditalia.org
Emma Moriconi
http://www.ilgiornaleditalia.org/news/la-nostra-storia/858733/Marzabotto--il-sangue-innocente-e.html
http://www.ilgiornaleditalia.org/news/la-nostra-storia/858733/Marzabotto--il-sangue-innocente-e.html
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