di
Fernando Ricci
18
settembre 1944: in una Roma controllata dagli anglo-americani inizia, dopo una
serie infinita di rinvii, il processo contro Pietro Caruso, già questore
capitolino durante il periodo dell’occupazione tedesca. Il dibattimento si tiene
nell’aula magna della Corte di cassazione, all’interno del Palazzo di Giustizia,
il cosiddetto “Palazzaccio”, in pieno centro cittadino.
Fin dalle prime
ore della mattina una folla agitata e tumultuante staziona numerosa nei pressi
dell’edificio covando sentimenti di vendetta e di rabbia, a stento tenuta a
freno da un servizio d’ordine precario ed insufficiente.
L’attesa è
spasmodica. Quello contro Caruso è il primo dei processi politici che si tengono
a Roma dopo la liberazione. Tra i testimoni che ci accingono a rilasciare la
loro deposizione c’è anche Donato Carretta, già direttore delle carceri romane
di regina Coeli prima dell’arrivo degli alleati, che l’accusa ha chiamato a
deporre contro l’ex questore.
All’improvviso la
gente assiepata nei pressi dell’edificio, dopo aver rotto l’esile cordone delle
forze dell’ordine, entra inarrestabile nel palazzo di giustizia, sciama per i
corridoi fino a giungere nell’aula dove deve svolgersi il processo. Nella stanza
si trova Donato Carretta che, tranquillo, sta aspettando di rilasciare la sua
dichiarazione.
In un batter
d’occhio la turba scalmanata si avventa su di lui, lo afferra brutalmente e lo
sommerge con una impressionante gragnuola di calci, schiaffi, pugni, sputi ed
insulti.
Un ufficiale americano tenta di sottrarre il malcapitato dalle mani della folla
ma ben presto, travolto dall’impeto, deve desistere.
Il poveretto, spogliato dai vestiti, è trascinato fuori dal palazzo, in strada,
dove viene pestato a sangue.
Alcuni carabinieri cercano di intervenire e ad un certo momento l’operazione
sembra andare a buon fine. Dopo sforzi titanici riescono a caricarlo di peso su
di un’automobile che, però, non si mette in moto e resta così alla mercé della
folla inferocita.
Per il povero Carretta non c’è più scampo. Un ultimo tentativo lo compie il
colonnello Pollock, comandante del corpo di polizia alleata a Roma.
Egli cerca di impedire il compimento del misfatto ma le sue parole rimangono
inascoltate.
Le forze dell’ordine, del resto, già esigue ed impreparate, si erano
letteralmente volatilizzate.
La folla sempre più padrona del campo afferra Carretta ormai stravolto e
tumefatto e lo colloca sulle rotaie del tram mentre sta per sopraggiungere il
mezzo.
L’autista prontamente aziona il freno per non investire il corpo.
Alcuni scalmanati salgono sul tram e minacciano il conducente intimandogli di
proseguire la corsa.
L’autista, tale Angelo Salvatori, si rifiuta e, al grido di “morte al fascista”,
viene gonfiato di botte.
I facinorosi sono fermamente intenzionati ad andare avanti e così si mettono
alla guida del mezzo.
Non riuscendo a dirigerlo sull’obiettivo cercano di spingere il vagone con la
sola forza delle braccia addosso al Carretta che intanto giaceva inanimato a
terra.
Neanche questa manovra, però, ha buon esito in quanto il coraggioso autista, nel
tentativo di salvare la vita a quell’uomo, aveva bloccato i freni mettendosi in
tasca la manovella.
E in effetti rischia di grosso perché la folla, sempre più imbestialita, rivolge
le sue ire contro di lui.
Riesce a salvarsi dal linciaggio mostrando ai giustizieri la tessera di
iscrizione al partito Comunista.
Fallito il tentativo la gente torna ad impossessarsi di Carretta. Le opinioni
sono discordanti.
C’è chi vuole ucciderlo sul posto, chi vuole farlo letteralmente a pezzi.
Poi prevale la risoluzione di gettarlo nel Tevere che scorre lì nei pressi.
Compiuto il breve tragitto, tra improperi, insulti e manrovesci, salgono su di
un ponte e gettano il Carretta ormai privo di sensi nelle acque limacciose del
fiume.
Il poveretto a contatto con l’acqua fredda si rianima e tenta disperatamente di
aggrapparsi ad uno steccato per non annegare.
La folla, però, insiste perché l’opera venga portata a compimento.
Un paio di persone scendono sul greto e colpendo con violenti calci il Carretta
lo inducono a mollare la presa.
A quel punto la corrente lo trasporta al centro del fiume.
Il pover’uomo che aveva riacquistato una certa lucidità prova a nuotare nel
tentativo di mettersi in salvo.
Non aveva fatto i calcoli, però, con la ferocia della marmaglia capitolina,
degna discendente di quei signori che, affascinati dalla vista del sangue,
affollavano festanti e goduriosi le arene della Roma antica.
Qualcuno salta su una barca, raggiunge il Carretta e lo percuote con una serie
violenta di colpi di remi.
Sfinito dalla fatica e tramortito dalle botte Carretta tenta disperatamente di
aggrapparsi al bordo della barca, implorando pietà.
Il barcaiolo, però, non si fa intenerire e con alcune tremende remate lo
sospinge sott’acqua.
Ormai è finita. Il corpo privo di vita viene trascinato dalla corrente e
recuperato più giù, presso ponte Sant’Angelo.
Ma la folla non è ancora sazia.
Qualcuno grida di portarlo a Regina Coeli.
Il corpo allora viene trascinato lungo il selciato lasciando una copiosa scia di
sangue.
Giunti al carcere al cadavere completamente nudo e irriconoscibile a causa delle
percosse, viene legato un cappio al collo e appeso a testa in giù ad
un’inferriata vicino al portone d’ingresso.
Quindi è preso di mira da una sassaiola che, via via, si fa sempre più fitta,
condita di sputi, calci ed insulti vari.
Qualcuno trova persino il “coraggio” di orinare sul corpo privo di vita.
Il tutto accadeva mentre la moglie del Carretta, che abitava in un appartamento
all’interno di regina Coeli, assisteva alla scena dalla finestra che dava sulla
strada.
Soltanto a questo punto la polizia interviene e provvede a disperdere la folla.
Il cadavere viene recuperato, caricato su di una ambulanza e trasportato
all’istituto di medicina legale.
L’orrore era stato perpetrato e un uomo barbaramente massacrato da una folla
inferocita ed avida di giustizia sommaria.
Né quello di Carretta rimase un caso isolato.
Nel corso dei mesi seguenti tante altre persone, il più delle volte colpevoli
soltanto di non essersi omologate, faranno la stessa fine ad opera e per mano di
chi diceva di lottare per la liberazione del nostro paese.
Ma perché l’odio violento della gente si rivolse proprio contro Donato Carretta?
Ancora oggi, a tal riguardo, permangono molti dubbi.
Alcuni affermano che si trattò di un tragico errore di persona. Carretta
potrebbe essere stato scambiato per il questore Caruso che quel giorno si
trovava nel palazzo di giustizia ma in un’altra stanza.
Altri, invece, collegano il fatto alla sua mansione di direttore del carcere
romano: qualcuno, mosso da risentimento personale, potrebbe aver infiammato la
folla e determinato l’infame linciaggio.
Non a caso il corpo del Carretta venne portato a Regina Coeli e lì pesantemente
oltraggiato.
Chi
non ha dubbi è Giorgio Pisanò che nella sua “Storia della guerra civile in
Italia”, così scrive: “Solo molto tempo dopo si venne a sapere che la donna
in gramaglie non era affatto la vedova di uno dei trucidati delle Ardeatine ma
solo un’attivista del Pci che era stata istruita per provocare l’incidente”.
La donna alla quale fa riferimento Pisanò era quella popolana che, entrata
nell’aula del palazzo di giustizia, con le sue grida rivolte contro Carretta,
accusato di aver consegnato il marito ai tedeschi dopo l’attentato di Via
Rasella, aveva provocato la sollevazione della folla.
E invece non si trattava che di una volgare montatura, di una macchinazione, di
una subdola messa in scena per costringere i giudici romani ad accelerare i
lavori processuali contro l’ex questore Caruso che, secondo l’opinione generale,
procedeva molto a rilento.
Eppure, ironia della sorte, Donato Carretta si era molto adoperato, giovandosi
del suo ruolo, in direzione diametralmente opposta.
Una commissione d’inchiesta stabilirà che lo stesso aveva aiutato la resistenza
partigiana, liberato dalle carceri i detenuti politici nell’imminenza
dell’arrivo delle truppe alleate e collaborato con il Comitato di Liberazione
Nazionale.
Si riconobbe, in parole povere, che la folla, sbagliando clamorosamente
bersaglio, aveva trucidato una persona innocente.
L’evento finì per provocare un feroce dibattito all’interno della sinistra.
I socialisti con Nenni e Pertini in prima fila, presero immediatamente le
distanze esprimendo tutto il loro dolore “per il truce assassinio del
Carretta che era stato sempre favorevole agli incarcerati antifascisti e li
aveva in molti modi aiutati”.
Molto più duro fu Benedetto Croce che riferendosi a quell’evento definì i
comunisti “macchine senza luce intellettuale e senza palpiti di cuore”.
L’unica voce fuori dal coro fu quella di Palmiro Togliatti che, a quel tempo,
era ministro del governo Bonomi. Egli, come suo costume, fece un pubblico e
disgustoso elogio dell’episodio a dimostrazione della bontà del giudizio del
Croce.
Anche Churchill restò molto impressionato “dall’orribile oltraggioso
linciaggio” che, però, le sue forze di polizia non vollero o non seppero
evitare.
Prima di concludere due
parole sulla fine del questore di Roma Pietro Caruso.
Egli doveva essere
assolutamente condannato a morte e così, in effetti, andò a finire.
Il 22 settembre del
1944, appena quattro giorni dopo l’assassinio di Carretta, venne fucilato
all’interno di Forte Bravetta.
Caruso affrontò il
plotone d’esecuzione con grande coraggio e vigorosa forza d’animo.
Morì crivellato dai
proiettili gridando “Viva l’Italia”.
Nelle mani stringeva il
rosario che qualche ora prima aveva ricevuto in dono dal pontefice Pio XII.
Articolo
tratto da STORIA del NOVECENTO Anno VII n. 108
tratto da: http://www.italiasociale.net/storia13/storia-13-03-02.html
tratto da: http://www.italiasociale.net/storia13/storia-13-03-02.html
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