Giuseppe D’Angelo
CASTELLAMMARE BORBONICA
1734 – 1860
PREFAZIONE
Vorrei premettere che in questo studio non vi è alcuna
intenzione di esaltare un periodo della nostra storia o una dinastia reale a
scapito di altri periodi storici e di altre dinastie, reali o politiche che
siano.
Io qui vorrei soltanto ristabilire una verità storica
incontrovertibile. E cioè che durante il periodo che va sotto il nome di
epoca borbonica, la città di Castellammare visse forse la più bella stagione
della sua lunga storia.
Sarà stato un caso, un lungimirante progetto, una conseguenza
del secolo dei lumi? Non sta a me dirlo. Sta di fatto che tutto quello che
accadde nella nostra città dall'epoca di Carlo di Borbone sino all'unità
d'Italia ha qualcosa di irripetibile.
Castellammare fu meta del Grand tour, Castellammare
sede di un Palazzo Reale, Castellammare Capitale del Regno nel periodo estivo,
Castellammare sede di una ventina di consolati stranieri, tra cui l'Austria
Ungheria in via Benedetto Brin n. 15; di Francia e di Gran
Bretagna al Corso Vittorio Emanuele; della Grecia in via Mazzini n.
3; di Spagna alla via I marchese de Turris; di Olanda alla salita
Santa Croce; del Paraguay in via San Matteo; di Turchia (Sublime Porta
Ottomana) in via Alvino n. 8; degli Stati Uniti d'America prima al
Corso Vittorio Emanuele e poi in Piazza Ferrovia; dell'Impero Russo alla
via Coppola; e ancora il consolato di Baviera, di Danimarca, di
Norvegia, dei Paesi Bassi, del Portogallo, di Sardegna,
e Svezia, della città libera di Lubecca, d'Egitto. Come
città internazionale, con la presenza di ben 19 consolati ripeto, direi che non
è poco. Castellammare città turistica quindi, ma anche Castellammare città
industriale.
Certo noi tutti speriamo che la storia possa ripetersi e
crediamo che il merito per il nostro secolo d'oro non possa attribuirsi
esclusivamente alla dinastia borbonica, ma piuttosto ad una serie di circostanze
favorevoli che i nostri antenati seppero sfruttare appieno.
E allora ci auguriamo che anche la nostra generazione possa
inaugurare una nuova stagione di primati positivi e possa assicurare un futuro,
un degno futuro alla nostra città.
Carlo III di Borbone
Con la pace di Vienna del 18 novembre 1738 Carlo VII di
Borbone fu riconosciuto re di Napoli e Sicilia con decorrenza giuridica dal 3
ottobre 1735, mentre di fatto era già re di Napoli e Sicilia dal 15 maggio 1734,
poiché era entrato in Napoli il 10 maggio ed il 25 aveva battuto gli austriaci a
Bitonto.
Inizia così la dinastia dei Borbone di Napoli che doveva
durare più di un secolo.
Carlo di Borbone era nato a Madrid il 20 gennaio 1716 da
Filippo V re di Spagna e da Elisabetta Farnese, figlia di Odoardo, duchessa di
Parma e Piacenza e ultima erede degli Stati Farnesiani.
Questo cognome, Farnese, suscita in noi notevoli ricordi e
lega ancora più intimamente la nostra città alla dinastia farnese borbonica.
Difatti non va dimenticato che Castellammare fu feudo
farnesiano per circa due secoli e mezzo; cioè dal 18 luglio 1541, quando fu
acquistata da Pierluigi Farnese per il figlio Ottavio che sposava Margherita
d'Austria, figlia naturale dell'Imperatore Carlo V, fino alle leggi abolitive
della feudalità emanate da Giuseppe Bonaparte, con la Legge 2 agosto 1806.
Ebbene il nuovo re di Napoli, Carlo III, Farnese per parte di
madre, era, quindi, anche feudatario di Castellammare.
Circostanza questa che spiega anche il motivo per cui tutti i
membri della dinastia borbonica predilessero la nostra città e che addirittura
il re Ferdinando IV, nei suoi viaggi all'estero in forma privata, si firmava
il conte di Castellammare e che prediligeva le nostre gallette intinte nel
vino rosso di Gragnano.
Senza dimenticare che i colori giallo e blu dello stemma di
Castellammare non sono altro che i colori usati nell'antico stemma di Casa
Farnese. (D'oro a sei gigli d'azzurro posti 3, 2 e 1)
E a proposito di "vino di Gragnano", bisogna ricordare che il
re Carlo e la regina Amalia, a differenza dei loro discendenti, furono molto
parchi nel mangiare. La tavola tipica dei Borbone, invece, fu sempre molto
ricca, fornita di cibi e specialità locali.
«Enormi tazze di latte e cioccolato, con biscotti" di
Castellammare "e taralli" di Agerola, "al mattino; per mezzogiorno
pasticci vari, costolette di maiale o di cinghiale, prosciutti di montagna, le
celebri provole di Sorrento, il tutto innaffiato con vino rosso" di Gragnano
o vino "vesuviano o di Solopaca tagliato con acque di Castellammare. Alle
cinque merenda con pasticcini e la sera, verso le nove e mezzo, una cena
abbondante».
Ed ecco come festeggiò l’ascesa al trono di Napoli di re
Carlo III di Borbone la città di Castellammare:
« Napoli 23 agosto 1735: La città di Castellamare di
Stabia, la quale vanta la gloria del suo distinto vassallaggio di Sua Maestà,
come l’ha goduta per due secoli della serenissima Casa Farnese, in testimonianza
della sua divozione e contento per la coronazione e felice ritorno della M. S.
in questo Regno, e prosperità delle sue vittoriose armi, esposto il di lei
ritratto sotto ricco baldacchino, eretto nella chiesa cattedrale, vagamente
apparata, e nella gran piazza del regio Palazzo, presso la medesima chiesa, si
vide innalzata magnifica macchina, vestita di nobili tappezzerie, ed ornata
della statua reale, col corteggio di altre statue, rappresentanti le sue virtù
ed imprese, ed abbellita la piazza di archi trionfali con erudite iscrizioni e
di capricciosa fontana, per tre giorni continui, nella mattina; dopo cantato
solennemente il Te Deum in essa cattedrale, ha fatto esporre il venerabile,
cantare la Messa, e celebrare gran numero di Messe basse in rendimento di grazie
all’Altissimo, per le felicità concedute al nostro Monarca, e per implorargliene
la continuazione, ne11’ultima delle quali mattine fu celebrata pontificalmente
la Messa da Mons. Falcoia vescovo di essa città coll’assistenza del Capitolo,
Clero, Regio Governatore, Magistrato della medesima e nobiltà come han fatto in
tutte le altre funzioni: e recitata erudita orazione panegirica delle glorie di
S. Maestà da uno patrizio della stessa città il P. Filippo d’Avitaia della
Compagnia di Gesù; e nelle sere illuminata tutta la città, la cennata macchina
ed archi e il nome del Re, e li castelli e muraglia di fuochi, se ci accoppiò la
scarica dell’artiglieria così de’ Castelli come de’ bastimenti ancorati in
questo porto; e nell’ultima sera anche un ben concertato fuoco artificiale,
opera del regio ingegniero Francesco Attanasio, quali funzioni ecclesiastiche e
giolive promosse dal zelo e direzione di detto Magistrato, accompagnate da
scelta musica, regolata dal virtuoso Maestro di Cappella Francesco Feo e da
copiosa distribuzione di pane a’ poveri han empito di allegrezza e contento non
solamente ogn’ordine di persone di essa città ma le innumerevoli di tutte le
città circonvicine corsevi ad ammirarle »
Pochi anni dopo essere diventato re di Napoli, Carlo di
Borbone, verso la fine di luglio del 1736, visitò «con sfarzo Castellammare
la Fedelissima e vi ebbe accoglienze trionfali, come narrano le cronache
del tempo. Il vescovo [T. Falcoia] rese omaggio a Sua Maestà insieme col
Capitolo ...».
Solo per dare un'idea della grandezza di Carlo III, della sua
lungimiranza e della sua modernità, vi leggerò le sue motivazioni nell'ordinare
la redazione di un Catasto dei beni immobili per il regno delle Due Sicilie, con
Dispaccio del 4 ottobre 1740 e relative Istruzioni del 17 marzo
1741.
«... considerando con la sua Real mente il cattivo stato
in cui si trovano le Università del Regno, per cagione che il carico de' loro
debiti non viene ripartito secondo le sostanze di ciascun Cittadino, ma la
maggior parte caricato sopra la minuta gente, che non potendo soffrire quel peso
di tasse, di gabelle, o di altri dazi imposti, viene tutto giorno angustiata e
trapazzata dagli Esattori e Gabellieri destinati per l'Università istesse; onde
per rimediare la M[aestà] S[sua] a quest'inconvenienti, ha
stabilito che si formasse il Catasto .. con cui verrà ripartito il peso pro
rata, secondo le sostanze di ciascuno, ed il povero contribuirà volentieri quel
tanto che gli sarà imposto … e la M[aestà] S[sua] godrà della
felicità in cui questi suoi fedelissimi viveranno" e ancora "…
Riflettendo sempre più la Regal mente della Maestà del Re Nostro Signore al
sollievo de' suoi fedelissimi Vassalli … in modo che il Povero venghi a pagare
secondo che le sue forze comportano, ed il Ricco paghi a proporzione de' suoi
averi...»
Ma ritorniamo alla storia, o meglio alla storia della città
di Castellammare.
Scavi archeologici
Il 7 giugno del 1749, "con un uomo e sei ragazzi",
inizia la campagna dello scavo archeologico di Stabiae fortemente voluta
da Carlo III ed affiorano i primi capolavori.
Gli ingegneri borbonici Carlo Weber, svizzero, tenente
colonnello del Genio, e Roque Joaquin de Alcubierre, spagnolo, capo del Genio
Militare e Direttore Generale degli scavi, rilevano con precisione assoluta le
piante delle ville imperiali romane sepolte dall'eruzione vesuviana del 79 d.C.
I nomi di Pompei, Ercolano e Stabiae fanno il giro del
mondo, attirando in questi luoghi i maggiori geni della letteratura e della
pittura, lo stesso Johann Joachim Winckelmann (Stendal 1717-Trieste 1768) fu
nostro ospite.
Vi è la tendenza, oggi, a voler criticare il metodo di scavo
attuato a tal epoca, accusando gli archeologi borbonici di superficialità e
scarsa preparazione, in particolare si tende a biasimare l'Alcubierre, che in
fondo era un ingegnere militare mentre, sulla scia del Winckelmann si lodano le
piante degli scavi redatte dal Weber. Winckelmann addirittura disse di
Alcubierre «non aveva mai avuto a che fare con le antichità più della luna
coi gamberi».
Il che può anche essere vero: Alcubierre era un ingegnere
militare, non un archeologo. Ma io credo che chi accusa non ha tenuto conto di
un fattore indispensabile.
Difatti è noto a tutti che chi scrive o si interessa di
storia, deve porsi con la mente nella cultura dell'epoca, deve cioè ragionare
tenendo conto del modo di pensare e di vivere dell'epoca a cui si riferisce. Non
si può fare seria critica storica con il cosiddetto senno del poi.
In particolare non si può criticare la campagna di scavo
borbonica del XVIII secolo pensando alle attuali tecniche di scavo e di
restauro, sarebbe un non senso.
Quando i Borboni scavavano, a tale epoca non avevano modelli
precedenti a cui riferirsi né tanto meno esistevano, come oggi, moderne scuole
per archeologi e restauratori.
Certo è vero che molte pitture, vasi e suppellettili furono
asportati per arricchire il Museo Nazionale di Napoli, la Villa Reale di
Portici, o andare dispersi in mezza Europa come regali agli ospiti dei Borbone;
ma è altrettanto vero che la diffusione europea di questi reperti richiamò
l'attenzione di scienziati, poeti, pittori, intellettuali sulle nostre zone che
anche per tal motivo furono incluse nelle tappe del Grand tour. Senza
contare che le piante delineate dagli ingegneri borbonici costituiscono ancora
oggi il punto di riferimento e di partenza per ogni intervento archeologico
sulla collina di Varano.
Io penso che senza le piante borboniche non avremmo mai avuto
un preside D'Orsi, con tutto il rispetto che un tal nome merita, né un
antiquarium stabiano né una direzione degli scavi di Stabiae. In
parole povere non avremmo avuto archeologia a Castellammare.
Ammesso che quel poco che oggi si fa possa meritare il nome
di archeologia stabiese.
Contemporaneamente Carlo III e, poi, il di lui figlio
Ferdinando IV, iniziano il restauro e l'ampliamento dell'antica dimora reale
angioina di Quisisana.
Palazzo Reale di Quisisana
Questo luogo, Quisisana, in epoca angioina era appellato domus de loco sano, che con l'italianizzazione di domus in casa divenne Casasana e tale fu la denominazione fino al XVIII secolo.
L'appellativo potrebbe essere stato determinato da una
costruzione -domus- sita in un luogo accogliente per la salubrità del
clima, luogo sano, luogo che probabilmente sanava, restituiva vigore al fisico
debilitato dalle continue pestilenze che anticamente affliggevano l'umanità.
Difatti non è raro il caso di molti sovrani angioini che, in periodi di contagi,
si rifugiavano in questo luogo.
Si era, poi, sempre ritenuto, da parte degli studiosi, che la
costruzione del Palazzo Reale di Quisisana fosse iniziata non prima dell'anno
1280. Sennonché un documento da me ritrovato, dell'anno 1268, attesta che in
tale anno, e forse anche prima, a Quisisana già esisteva la casa del re Carlo I
d'Angiò. E poiché gli Angioini avevano conquistato il Regno di Napoli soltanto
due anni prima (1266) è ipotizzabile che tale costruzione potesse risalire,
quanto meno, agli Svevi (Federico II ?).
Le favorevoli condizioni del luogo suggerirono a Carlo I
d'Angiò la ricostruzione del complesso fortificato ove trascorrere la stagione
estiva.
Per curiosità dirò che nel registro n. 38 della Cancelleria
Angioina dell'anno 1280 è annotato un ordine reale a Matteo Vaccaro, figlio del
giudice stabiese Mazziotto, direttore del Real Palagio di Casasana. Il 31
maggio del 1310 si richiedono per tale costruzione 48 travi di legno, della
lunghezza di 32 palmi; 36 travi lunghe 26 palmi; 8.000 scandulati e 100
tavole di castagno lunghe 12 palmi. Il 30 aprile dello stesso anno la
costruzione è affidata ai giudici Andrea Longobardo e Nicola Vaccaro di
Castellammare; direttore tecnico dei lavori è maestro Francesco da Vico, che il
2 ottobre 1310 invia, a richiesta del re, una relazione informativa sullo stato
dei lavori. Infine nell'agosto del 1316 il re Roberto d'Angiò abita in Casasana,
emanando le leggi nel modo seguente: datum in Casasana prope Castrummaris de
Stabia.
La storia ci ha conservato un documento davvero esemplare,
dal quale si evince che il re Roberto, quando nei periodi estivi risiedeva nel
Palazzo di Quisisana, si recava spesso a cavallo nella chiesa di San Bartolomeo,
che all'epoca si trovava alla via Sanità, lanciando monete d’oro ai poveri che
lungo la strada accorrevano ad ossequiarlo. Infatti il Regio Tesoriere pagò per
elemosina:
«Die XXVII predicti mensis Junij V ind.
[1328] in Casasana prope Castrummaris de Stabia solute sunt eidem helemosinario
regio, quos Dominus Rex erogari mandavit pauperibus occurrentibus in via quum
equitavit ad Ecclesiam Sancte Clare in festo Eucaristie et in secunda vice quum
equitavit ad Castrummaris de Stabia in carolenis argenti tarenos XII. Die V
predicti mensis augusti ibidem solute sunt eidem helemosinario, quos Dominus Rex
erogari mandavit pauperibus occurrentibus in via die XXVIII Julij V ind. quo
equitavit ad Ecclesiam Sancti Bartholomei de Castrummaris de Stabia in carolenis
argenti tarenos VI».
Non dimentichiamo che la 96a novella
del Decamerone di Giovanni Boccaccio è ambientata proprio a Quisisana con
protagonista re Carlo I d'Angiò. A Quisisana è, inoltre, accertata anche la
presenza di Giotto.
Intanto dopo lo splendore conosciuto durante il periodo
angioino (1266-1442) una lunga notte calò su tale complesso.
Sappiamo solo che subentrati gli aragonesi il Real Palagio
non fu del tutto abbandonato.
Difatti con privilegio del 10 settembre 1458 a Goffredo
Scafarto di Castellammare era stata concessa la Castellanìa, ossia la Custodia (in
guardia) di Quisisana e il 7 aprile 1495 il palazzo fu concesso dal re Carlo
VIII al suo medico personale Pietro Morello.
«Magnifico magistro Pietro Morello professor di Medicina
di S.M. se li concede una casa nominata Casasana, sita in Castellammare di
Stabia, che fu di Pietro de Nocera padrone di galera da D. Ferdinando d’Aragona,
giusti suoi fini, per sé et suoi heredi.»
Difatti agli albori del secolo XVI era posseduto dagli
stabiesi de Nocera. Da un documento (atto di notar Nicola de Masso del
30.1.1484), si apprende che Francesco Coppola, conte di Sarno e, dal 19.10.1481,
Castellano e Governatore a vita di Castellammare, il 29.1.1484 aveva scritto a
Giovanni Freapane, allora Capitano della città, così:
«Capitaneo, lo Signore Re me scrive lettera del tenor
seguente videlicet: "Rex Siciliae, Conte, Noi havemo dato Casasana con tutte
sue pertinenze in guardia al diletto nostro Pietro di Nucera, nostro creato, in
quello modo come lo tenea Goffredo Scafarto suo predecessore. Però volemo et vi
comandamo che ad ogni instanza del dicto Pietro, o d’altri per sua parte, li
debiate far dare la possessione di dicta Casasana, che l’habbia da tener nel
modo et forma supradicti. Datum Foggiae die 2 novembris 1483". Sicché voi
havete intesa la voluntà dello Signore Re per dicta lettera, osservate quanto
sua Maestà comanda. Napoli 29 januarii 1484.»
Il re è Ferdinando I d’Aragona, detto il Bastardo. Da altro
documento, ancora, si apprende che, successivamente, il 18.7.1498 il re Federico
d’Aragona aveva confermato Quisisana a Pietro de Nucera.
Frattanto il 18 luglio 1541 Ottavio Farnese, allora duca di
Camerino, per il prezzo di 50.000 ducati, aveva rilevato in feudo la città di
Castellammare di Stabia ed aveva iniziato, sin dal 1566, una lite giudiziaria
con i de Nocera, in relazione alla proprietà del bosco e Palazzo di
Quisisana. Tale lite sfociò in una transazione, effettuata fra Sempronio
Scachino, rappresentante del duca Ranuccio Farnese, nipote del defunto Ottavio,
e Pier Giovanni Nocera, stipulata il 15 aprile del 1598. Con tale atto il Nocera
riceveva la somma di ducati 12.192 tari 4 e grana 15, ed il Farnese la proprietà
della tenuta di Quisisana.
Si estinse la famiglia Farnese in quella dei Borbone come già
detto, e precisamente con Elisabetta, moglie del re di Spagna Filippo V e madre
di Carlo III, che nel 1734 saliva al trono di Napoli e Sicilia ereditando, fra
l'altro, anche la tenuta di Quisisana.
Da tale periodo e fino al 1790 l'Archivio di Casa Reale è
ricco di documentazione che testimonia i continui lavori di ampliamento e
rifazione di detto Palazzo da parte di Carlo III e Ferdinando IV di Borbone.
Anche i napoleonidi Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, re
di Napoli, abitarono con continuità a Quisisana; ed esemplare è a tal proposito
un lungo soggiorno della regina Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone e
moglie del Murat.
Senza contare che la regina Maria Carolina, moglie di
Ferdinando IV, amava soggiornare nel palazzo reale di Quisisana poiché gli erano
graditi «lido e fonti», alludendo quest’ultima espressione al lungomare e alle
acque minerali della città.
Lo stesso Ferdinando IV, qualche anno prima del 1783 aveva «fatto
fare nuovi stradoni per le Delizie di Quisisana».
Ferdinando II di Borbone «tra il 1848 e 1849 vi fece
costruire altri quartini alla Casina, dei grandi porticati di accesso e scuderie
e sopra di essi delle estese logge verso il fronte che guarda la città di uscita
dai Reali Appartamenti, non che una Villa e parterre all’uso inglese,
intrecciato con diverse fontane e viottoli, e smaltato da una svariata famiglia
di erbe odorifere e variopinti fiori da rendere grato piacere all’occhio ed
impregnar l’aria di olezzante odore, e nel mezzo una torretta da belvedere, che
nel cavo delle sue fondazioni vi si rinvenne una moneta d’oro di Carlo 2°
d’Angiò, che ne ricordava l’antichità del sito, la quale venne consegnata al
Sovrano allora regnante, senza nulla trascurare di quanto potesse tale regio
sito rendere dilettevole e gradito nella stagione estiva».
In seguito all'unificazione d'Italia la tenuta passò tra i
Beni Riservati della Corona di Casa Savoia e, con legge 31 maggio 1877 n. 3853,
venne trasferita al demanio dello Stato.
L'interessamento personale del deputato del Collegio di
Castellammare on. Tommaso Sorrentino, di Gragnano, consentirà nel 1879, previo
Regio Decreto di autorizzazione del 29.7.1878, la vendita al Comune di
Castellammare, per il prezzo di lire 300.000.
Da tale periodo e fino alla metà degli anni '60 viene dato in
concessione a privati per uso d'albergo. Oggi, allo stato di rudere, è in
attesa, e nella speranza, di una positiva utilizzazione.
Vorrei solo ricordare che d'estate il re e la Corte si
trasferivano nella verde e fresca Quisisana da dove venivano emanate, come in
epoca angioina, anche le leggi.
Questa predilezione dei sovrani borbonici per Quisisana
costituì il volano per la crescita culturale e turistica della città.
Ben presto la collina si popolò di sontuose ville della
nobiltà napoletana e di ambasciatori stranieri come già detto. Sorgono così le
ville del barone Acton, del marchese Paternò, del marchese Pellicano, del
marchese Salines, del principe Riccardo Caracciolo di Santobono, del ministro
plenipotenziario (ambasciatore) russo principe Alessandro Lieven, del console
russo conte Stackelberg, della principessa Maria Dolgorouky della famiglia
imperiale russa, del principe Gioacchino Ruffo di S. Antimo.
Ed ecco la breve storia di due splendide ville: Villa
Acton e Villa Lieven con un piccolo pensiero a Villa Lucia.
Villa Acton
Questa è la villa più antica, in ordine di tempo e fu
edificata in una proprietà dei marchesi Pellicano nella zona di via Sanità, dal
generale John Acton, ministro di Ferdinando IV, su progetto dell'architetto
stabiese Catello Troiano, nell'anno 1789, si proprio l'anno della Rivoluzione
francese. L'Acton, poi, nel 1790 vi fece migliorare il parco, al "gusto cinese"
ove:
«... vi fece edificare un bellissimo ponte di fabbrica,
con guide in legno sul gusto cinese ... in prosieguo vi fé erigere un foillace
di otto pilastri traforati che reggono la covertura di legno ... e finalmente
nell'intera superficie di essa selva vi fé ricacciare dei viali e piccoli
giardini che lo rendono di singolare delizia».
Fu una Villa bellissima. Così ci viene descritta nel 1796:
«Questo vago Casino, il quale potrebbe essere abitato da
ogni Sovrano, è composto di tre piani...». Spiccano: la «Cappella, la
quale ancora è molto bella sì per gli suoi ornati, finimenti, e figure
designate, ed eseguite dal Pittore Antonio de Dominicis; come per l'Oratorio
Sagro d'ordine Dorico, e colorito sul gusto Bisquì, e fondo celeste con intagli
bianchi, designato dall'Architetto Catiello Troiano di Scanzano. Da questa
stanza si passa finalmente alla gran Galleria, la quale similmente è
sorprendente sì per lo pavimento, e per lo fregio all'intorno tutto di stucco
marmorato, ch'è stato designato, ed eseguito da' Fratelli Gerli Milanesi; come
per le dipinture nelle mura, e nella volta a color celeste, e per lo gran quadro
sotto la stessa volta dipinto da Antonio de Dominicis, che rappresenta il
convito degli Dei».
Questa splendida villa nel 1806, in seguito all'invasione
delle truppe francesi e fuga a Palermo di Ferdinando IV, con tutto il governo,
tra cui John Acton, dopo una lunga controversia giudiziaria, fu restituita ai
Pellicano. Ivi dimorarono lady Hamilton, Orazio Nelson dopo la battaglia di
Abukir e tanti illustri personaggi, non esclusa la poetessa Jeanne Gray, moglie
del Pellicano.
In questa villa era allocato lo splendido monumento funebre,
del III sec. d.C., di Marco Virtio Cerauno di proprietà dei marchesi Pellicano.
Esso fu rubato da ignoti nel 1978 e ritrovato a Lugano, in Svizzera, l'anno
successivo. Ora è conservato presso la Soprintendenza archeologica di Napoli.
Questa Villa, dopo la morte del generale Acton, ritornò alla
famiglia Pellicano che ne smembrò la proprietà cedendola a vari acquirenti.
Oggi è stata invertita, e sottolineo invertita, in un
condominio per civili abitazioni.
Fu anche immortalata in un poderoso quadro ad olio del
pittore della Corte Borbonica Filippo Hackert.
Villa Lieven
Il principe don Alessandro Lieven, Ministro Plenipotenziario
dello Zar di Tutte le Russie, Nicola I Romanow, nel Regno delle Due
Sicilie, d'estate soleva frequentare la reggia di Quisisana, un po' come tutti i
diplomatici accreditati presso la Corte borbonica.
I luoghi, con l'andar del tempo, dovettero piacergli
particolarmente tanto da spingerlo ad edificarvi la propria villa in via Sanità.
A tale scopo, acquistò da Pietro Paolo Coppola un piccolo
fabbricato con poco giardino e dalle Suore di San Bartolomeo, nel 1842, «un
piccol giardino nel luogo detto S. Andrea», ove nel 1845 edificò una
splendida dacia con materiali e manodopera fatti venire espressamente dalla
Russia. Infine per ingrandire il giardino, comprò il 18.6.1845 da Francesco
Grossi una grossa tenuta limitrofa di 3 moggia e due terzi (mq. 12.221) per il
prezzo di 9.161 ducati e grana 66. A questo punto, dopo aver ingrandito la
dacia, realizzò, anche, un vasto ed ameno parco, opera dell'architetto reale
Fioretti.
In questa villa soggiornarono molti personaggi di rilievo,
tra i quali il pittore Scedrin e, nel 1846, vi dimorò la Zarina di Russia
Alessandra Feodorowna moglie dello Zar Nicola I.
Ma nel 1860, con la caduta del Regno delle Due Sicilie, la
presenza di un ambasciatore Russo a Napoli non fu più necessaria, per il
trasferimento della capitale a Torino. Pertanto nel 1868 la Villa fu venduta a
Giuseppe Gallone Pignatelli, principe di Tricase, di Marsiconovo e di Moliterno.
La moglie donna Antonietta Melodia, era, all'epoca dama di Corte della Regina
d'Italia Margherita di Savoia.
Memorabile, secondo le cronache coeve, fu la festa data in
questa villa il 28 marzo del 1870 in onore del principe Umberto di Savoia,
futuro re d'Italia, e della moglie principessa Margherita.
Eccone una breve cronaca:
«Ieri il principe di Moliterno raccoglieva oltre a 150
invitati nella sua amenissima villa a Quisisana. Fra essi notavansi i Reali
Principi che avevano gentilmente accettato di far parte della scelta ed allegra
brigata. La città di Castellammare colse questa occasione per fare le più liete
e cordiali accoglienze all'augusta coppia che visitava per la terza volta quei
luoghi di delizia... Alla villa Antonietta, antica villa Lieven, tutto era
disposto con gusto squisitissimo... Dopo la colazione ... ebbero luogo le danze
sul prato che vennero poscia continuate fin quasi alle 7 nelle sale a
pianterreno della villa. In memoria della giornata fu anche piantato un pino,
secondoché si usa in Inghilterra in simili circostanze. L'albero porterà il nome
di Principessa Margherita... Il giovane maestro Tosti vi cantò una romanza
composta espressamente dal suo amico maestro Denza, che lo accompagnava a
pianoforte».
Il figlio di Giuseppe Gallone, principe Giovan Battista, uomo
di mondo, frequentatore dei migliori salotti d'Europa, animatore, come
riferiscono le cronache, delle estati stabiesi, fondatore nel 1881 del Circolo
Canottieri Stabiani, la trasformò, poi, in albergo, con i nomi di l'Hotel Du
Parc prima e Villa dei Cedri poi. Tra gli anni 1918-20 fu acquistata
dal comm. Gaetano Somma di Pimonte, poi successivamente dal comm. Raffaele
Garzia che nel 1932 la vendette alla famiglia Pagliari ed è oggi di proprietà
della famiglia Petrella.
Nella raccolta del barone Lemmerman vi è uno splendido
acquerello del pittore Consalvo Carelli, rappresentante la Sala del
Cannocchiale di questa Villa.
Villa Lieven è entrata anche nella letteratura ad opera della
poetessa armena Vittoria Aganoor Pompilj che così la descrisse:
VILLA MOLITERNO
(QUISISANA)
Alla Principessa di Tricase
Una dimora che ai convegni eletta
certo avriano le Grazie; e accanto,
i lieti
trionfi delle palme, intorno avvinte
dalla glicine in fiore, e i cedri
insigni
del Libano, e i metallici fulgori
delle magnolie.
Molli prati e vivide
famiglie di verbene in mezzo al
fresco
idillio d'ombre, finché poi non
s'apre
libero a piè della ridente china
il velario magnifico del verde
sulla gloria del mare.
Ali di candide
paranze vanno per l'azzurro, e
insieme
passano con veloce ala i ricordi
passano le veloci ombre dei sogni.
Certo non mai la dolce estasi il
core
mio scorderà, della bellezza eterna
fin che s'accenda.
Minaccioso in fondo
fuma il vulcano, ma da presso io
sento
fremere un lor segreto inno le rose
alla gioia fuggente, e l'aria
intorno
sussurrarmi: "Non vedi? il giorno è
breve;
augurio del domani avida accogli
per entro la rapita anima il vivo
balsamo di quest'ora ".
Ecco si spoglia
una rosa, e laggiù distende i veli
mesti il tramonto per le rive e i
porti;
mentre immutata, del silente golfo
sovra il tremulo specchio, al cielo
incontro,
del Vesuvio l'estrema erta sfavilla.
L. Grilli, Poesie complete di Vittoria Aganoor,
Firenze 1912.
Ma chi era Vittoria Aganoor Pompilj alla quale il Comune di
Castellammare ha dedicato anche una strada?
Vittoria Aganòor Pompilj, poetessa italiana di origine
armena, nacque a Padova il 26.5.1855. Fu allieva dello Zanella e, dopo il
trasferimento a Napoli, di Enrico Nencioni. Nelle sue poesie, di tono eclettico,
rivela familiarità con vari poeti del secondo Ottocento italiano e francese,
specialmente con Musset, Baudelaire, Aleardi, Gnoli, D'Annunzio. La sua prima
raccolta di poesie, Leggenda eterna (1900), in cui canta in modi elegiaci
le vicende di un amore infelice, fu ripubblicata nel 1912 in Poesie complete,
comprendenti anche Nuove liriche (1908), Rime sparse e alcune
prose. collaboratrice delle maggiori riviste letterarie, pubblicò: Leggenda
eterna, Isaia, Esaù, Primavera, Villa Medici,
Trasimeno.
Era tenuta in grande considerazione da tutto il mondo
letterario, tanto che quando nel 1901 l'Aganoor sposò il deputato Guido Pompilj,
giurista e uomo politico umbro, il Carducci così le scrisse:
"Vola l'augurio mio fidente dalla piena anima su di lei,
sull'avvenire. Affronti oramai le lotte della vita appoggiata su un nobile e
forte braccio: ben lo meritava; le Muse serbano pur qualche premio. Ave et
salve, anima dulcissima".
Ebbe a scrivere di lei Benedetto Croce: "Il suo breve
canzoniere d'amore è certamente il più bello che sia stato mai composto da donna
italiana".
Quando si spense a Roma, il 7 maggio del 1910, in seguito ad
un intervento chirurgico, il marito, non potendo resistere al dolore, si tolse
la vita sul suo cadavere, cosa che destò all'epoca profonda commozione.
La poetessa amava trascorrere ampi periodi di riposo a
Castellammare, nella quiete di Quisisana.
Una piccola curiosità.
La celebre canzone napoletana Palomma 'e notte di
Salvatore di Giacomo, con musica di Francesco Buongiovanni, è la fedele
traduzione in napoletano di una poesia in dialetto veneto della Aganoor
intitolata "La Pavegia".
Beh. Anche Di Giacomo ogni tanto copiava.
Ma la Aganoòr potrebbe, a sua volta, aver tradotto in
dialetto veneto una canzone musicata dal nostro Luigi Denza su parole di Rocco
Emanuele Pagliara dal titolo Farfalla di Sera, uscita nel 1887. Questa canzone
fu un vero successo, tanto che fu anche tradotta in inglese nel 1892, con il
titolo: The Moth and the Flame da Mombray Marras.
Villa Lucia (Villa Ruffo)
Questa Villa non ha nulla da vedere con i Borbone, ma va
ricordata poiché di proprietà di un illustre discendente del cardinale Fabrizio
Ruffo, quello delle bande della Santa Fede del 1799.
In particolare vogliamo qui ricordare la nobile figura di
Gioacchino Ruffo, principe di Sant'Antimo e di Motta San Giovanni, duca di
Bagnara e Baranello, illustre botanico.
La sua villa ha ancora oggi una splendida singolarità, ben 24
generi di palme, ripartite in 119 specie, per un totale di 654 piante: un vero e
proprio parco naturale, forse unico in Campania. L'Attuale proprietaria, Maria
Lucia Ruffo di Sant'Antimo, principessa di Motta San Giovanni, ha recentemente
ceduto la maggior parte della villa ad un'impresa privata che ne ha ricavato
degli appartamenti.
Di questa villa così cantò il poeta Fausto Salvadori:
Villa Lucia, serena fra le palme,
Fresca d'abeti verdi in faccia al
mare,
Villa Lucia, con le memorie care
A te ridano i lunghi ozi e le calme
!
Quindi la frequenza di tanti illustri personaggi sulla
collina di Quisisana, portò lavoro e benessere a tutta la città e fece
riscoprire, dopo alcuni secoli, l'efficacia curativa delle acque minerali
stabiesi.
Non è inutile, a tal proposito, ricordare che la presenza di
una classe colta è sempre stata di stimolo in tutte le comunità, migliorando il
modo di pensare della gente e producendo, col tempo, cittadini preparati e
attenti al benessere comune.
Viceversa l'impoverimento culturale, dovuto anche all'assenza
dalla vita cittadina della classe colta, produce, col tempo, ignoranza e
miseria.
Le analisi di Cotugno e Vairo
E a proposito di acque minerali stabiesi vi è da dire che nel
1787 il re Ferdinando IV di Borbone diede incarico ai due più autorevoli medici
dell'epoca, Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo di esaminare l'acqua acidula di
cui tutti facevano largo uso. I risultati cui pervennero i due autorevoli
clinici furono superiori ad ogni aspettativa. Infatti essi dichiararono che
l'acqua acidula di Castellammare era superiore per purezza e efficacia
terapeutica alla celebre acqua di Spa, cittadina belga vicino Liegi, famosa da
vari secoli per le sue acque carboniche ferruginose. Il re allora ordinò di
costruire una mescita pubblica di tale acqua ove fu apposta la seguente lapide:
AQUAE ACIDULAE
CUIUS VIM IN PLURES MORBOS
PLINIUS OLIM COMMENDAVIT
NUNC VERO
COTUMNIO VAIROQUE PROBANTIBUS
STABIENSES
REGIS AC POPULI
COMMODITATI CONSULENTES
P[ECUNIA] S[UA] AEDICULAM HANC
FAC[IENTES] CUR[AVERUNT]
A.D. MDCCLXXXVII
Poi dopo un secolo, nel 1887, la fonte di erogazione fu
spostata, insieme con la lapide settecentesca, e allocata dove si trova tuttora,
su progetto degli architetti Luciano Parisi e Antonio Vitelli.
Raimondo Di Maio e Pio Tommaso Milante
E sempre a proposito di acque minerali, l'8 agosto 1829 il Re
Francesco I, per la prima volta decise di far analizzare tutte le acque minerali
della Città. L'incarico fu conferito dal Ministro dell'Interno marchese Amati a
tre valenti scienziati: il dott. cav. Luigi Sementini, professore di medicina,
direttore e professore di chimica filosofica nella Regia Università degli Studi
di Napoli, il dott. Benedetto Vulpes, professore aggiunto alla clinica medica,
medico dell’ospedale Incurabili e il dott. Filippo Cassola, professore di
chimica, tutti soci della Reale Accademia delle Scienze della Società Reale di
Napoli.
Raimondo de Maio
Ma è dell'anno 1754 il primo trattato scientifico di questo
argomento. Ne è autore lo stabiese dottor Raimondo De Maio, nato a Scanzano nel
1727. Questi già nel 1748 era stato membro della Condotta Medica della stessa
città, e medico della Deputazione della Salute, con funzioni di polizia
sanitaria, morto appena trentaquattrenne nel 1761.
Fu tale il successo che questa pubblicazione ebbe una
ristampa postuma nel 1764, senza alcuna modifica tranne l'assorbimento dell'errata
corrige. Queste pagine, scritte con "candore" - così più volte si
legge nel Trattato -
«sono la testimonianza, interessante anche sotto il
rispetto letterario, di una figura di intellettuale meridionale del Settecento,
poco nota, o affatto ignota, su cui varrà forse la pena di aprire un supplemento
d'indagine».
Pio Tommaso Milante
Il De Maio era stato preceduto quattro anni prima, nel 1750,
da un frate domenicano, vescovo di Castellammare, il dotto Pio Tommaso Milante,
che scrisse una ponderosa e documentata storia dei Vescovi Stabiesi. Questo il
titolo: De Stabiis, Stabiana Ecclesia et Episcopis eius.
Il Milante non era uno sprovveduto, difatti era dottore in
Sacra Teologia, Professore nell'università di Napoli e Consigliere Regio. La sua
opera costituirà una pietra miliare per la storia della chiesa stabiese a cui
attingeranno tutti coloro che si sono, nel tempo, interessati alla storia di
Castellammare, compreso il sottoscritto.
A questo punto mi corre l'obbligo di ricordare anche altri
due "lumi" stabiesi: il dottor Gaetano Martucci e il padre Tommaso de
Rogatis.
Gaetano Martucci e Tommaso De Rogatis
Il Martucci, nato a Castellammare il 26 luglio 1730, dopo
aver studiato nei Seminari di Lettere e Sorrento, all'età di ventuno anni si era
laureato in medicina, e due anni dopo, nel 1753 aveva vinto il concorso per
professore di medicina pratica nell'Università di Napoli. Noi però lo ricordiamo
come attento e documentato autore di studi storici, in particolare dei privilegi
concessi nel tempo dai sovrani angioini, aragonesi e spagnoli alla città di
Castellammare.
Il secondo "lume" da ricordare è il padre Tommaso de
Rogatis, gesuita, autore del primo e fondamentale studio sul Santuario di Santa
Maria di Pozzano.
Come vedete il secolo dei "lumi" toccò anche la nostra
città.
Città che nella prima metà dell'800 vive una grande stagione
di opere pubbliche e private destinate ad abbellirla e a
«...dar maggior comodo a' forestieri di tutte le nazioni
che in tempo d'Està vengono a far uso delle acque Minerali non solo, ma
benanche a villeggiare per più mesi prodigalizzando molte somme, oggetto, che
può dirsi unico di vantaggio alla popolazione ».
E a tal epoca la città scopre la propria vocazione turistica,
investendo in opere pubbliche, facendo così in elemento di propulsione e stimolo
anche alle iniziative dei privati.
E non a caso il Re con due rescritti, uno dell'anno 1822 e
l'altro del 1829 ordinò la costruzione di uno stabilimento termale al largo
Cantiere, su progetto dell'architetto reale Catello Troiano; vengono ampliate,
negli stessi anni, le strade di Pozzano, Fratte e Botteghelle dove stanno
sorgendo le sontuose ville della nobiltà napoletana.
Real Teatro Francesco I
Non desti meraviglia, quindi, che il signor Catello
Gambardella, chiaramente stabiese, pensi in quegli anni di costruire un gran
teatro, che possa ospitare anche la famiglia reale, che ha ripreso l'abitudine
di trasferirsi d'estate nel Real Palazzo di Quisisana.
Compra, allora, il 22.9.1828, dalle figlie del barone D.
Giuseppe Cuomo, mezzo moggio di terra all'inizio della salita Quisisana, nei
pressi della chiesa di San Giacomo Apostolo, per poter edificare il teatro.
Il progetto viene affidato allo stabiese Ottavio D'Avitaya,
lo stesso architetto che nel 1842 realizzerà l'apertura della Nuova strada
Marina, detta in seguito Corso Vittorio Emanuele II.
Il 18.10.1828 il re, Francesco I, previa delibera del
Consiglio di Stato del 9 ottobre precedente, concede l'autorizzazione richiesta.
L'anno successivo l'opera è completata e, su richiesta del Gambardella, il re "permette"
che si imponga il proprio nome (Francesco I) al teatro, concedendo anche cinque
anni di privativa di teatro.
Questo teatro si compone di «...un edificio quadrilatero
perfettamente isolato per tutti i lati, nell'aspetto principale verso oriente
retto da tre archi ed intercolunnio supra e tutto fornito di tre porte,
finestre, serramenti e quanto è necessario. La porta di mezzo mena nella Platea
capace di 176 spettatori, e 36 piazze d'Orchestra con 41 palchi divisi in
tre ordini, oltre la Galleria al di sopra di essi ripartita in quattro scaloni,
con proscenio e camerini, in tutto capace di circa 800 posti».
Vi è al secondo ordine, il palco reale ed altri per la Real
Famiglia, di cui il re ha le chiavi e con entrate separate.
Tra alterne vicende il teatro, funziona sino alla caduta
della dinastia borbonica (1860), ma non ha sempre vita facile.
Già il Parisi, che scrive nel 1842, afferma che, sebbene
abbia una «...nobile architettura nello esterno che rappresenta ...effigie in
basso rilievo decorata dei tre sommi drammatici dell'antica madre delle scienze
e delle arti Aristofane Sofocle Euripide ..., ora è in dispiacevole decadenza
con grave nostro rammarico ... onde noi più favorevole destino gli auguriamo
».
Evidentemente l'assidua presenza di Sua Altezza Reale il
Principe di Capua, l'occasionale presenza del re e l'annuo sussidio di cento
ducati da parte del Comune non furono sufficienti a garantire una buona
copertura finanziaria al teatro.
La presenza della Famiglia Reale è documentata, al dire dello
scrittore stabiese Tommaso De Rosa, da una cronaca pubblicata nel 1835 "in
una vecchia gazzetta" nella quale è riportata una corrispondenza da
Castellammare:
«...in una serata di gala del maggio 1835 data al Real
Teatro Francesco I fu annunziato ufficialmente lo stato interessante della
regina Maria Cristina di Savoia [moglie di Ferdinando II] che poi il 16
gennaio 1836 dette alla luce l'erede al trono ... Oltre la famiglia reale
assistevano alla rappresentazione tutti i principi di Casa Borbone, Ministri,
Generali, ambasciatori, personalità eminenti e nei palchi, in platea, perfino in
piccionaia [galleria] eransi dato convegno quanto di più illustre,
nobile, intellettuale c'era in Castellammare, che in preda ad indicibile
emozione applaudiva freneticamente, mentre la sala elegantemente aparata
[parata] splendea di sparmacete [steariche]».
Fu rappresentata "La Vestale" di Spontini; esecutori ed
orchestra del Teatro San Carlo di Napoli.
Come, poi, non ricordare in questa sede altre due grandi
opere eseguite in questo periodo: il Real Cantiere Navale e le Antiche Terme.
Real Cantiere Navale
Fu fondato dal re Ferdinando IV di Borbone il 20 giugno 1783
nel luogo detto "pontone", sull'area di un antico "cantiere dei
vascelli", vicino al monastero dei Carmelitani al Molo.
La scelta del luogo non fu casuale. A prescindere, infatti,
da motivi di carattere strategico e geografici, si pensò di poter utilizzare al
meglio la manodopera locale.
Difatti la città vantava antiche tradizioni marinare e di
mestieri legati comunque al mare, come i mastrodascia, i calafati, i falegnami
di mare ad altro.
Si pensi che il poeta latino Silio Italico, nel descrivere la
seconda guerra punica contro Cartagine, loda il comportamento delle navi romane
brulicanti della forte gioventù stabiese.
Senza dimenticare che già da epoca angioina (1266) a
Castellammare si costruivano navi per l'armata reale.
I lavori del nuovo cantiere furono diretti dal brigadiere
Giovanni Bompiede e duravano ancora nel 1786 quando furono varate la corvetta
Stabia, il vascello Partenope e la corvetta Flora.
Successivamente, nel 1796, su un terreno limitrofo, sorse la
prima corderia militare del Regno delle Due Sicilie.
Dal Cantiere navale scesero in mare navi all'avanguardia
della tecnica, quali il Delfino e l'Argonauta (1840), primi
piroscafi a vapore; il Monarca (1850), prima nave borbonica con
propulsione ad elica; l'Ettore Fieramosca (1850), una delle prime
navi con apparato motore di costruzione italiana. Il varo, nel 1860, della
fregata Borbone, per ironia della sorte, chiuse il ciclo borbonico.
Ma anche dopo l'unità d'Italia questo cantiere restò
all'avanguardia nelle costruzioni navali.
Difatti nel 1864 si varava il Messina, prima corazzata
costruita a Castellammare; nel 1871 l'Audace, prima nave completamente in
ferro; e finalmente, nel 1876, su progetto di Benedetto Brin, prendeva il mare
la Duilio, la più grande corazzata del mondo che, da sola, come affermò
il senatore statunitense Bonjean presente al varo, "avrebbe potuto
distruggere tutta la flotta americana ".
Ancora oggi da questi Cantieri prendono il mare navi sempre
più efficienti e tecnicamente d'avanguardia.
Aggiungiamo che la difesa di questo cantiere navale, in epoca
borbonica, era assicurata da una modernissima "batteria casamattata", costruita
nel 1795, la prima e più antica di tutto il mediterraneo. Il porto era poi
segnalato di notte da un faro lenticolare, costruito nel 1843, ed era costituito
«da una macchina lenticolare di IV ordine a rotazione costruita dal sig.
Leponte -mastro orologiaio di Parigi- costata al Comune 1800 ducati
». Una vera meraviglia della tecnica.
Le Antiche Terme
Dopo anni di discussione, nel 1827, su progetto
dell'architetto Catello Troiano, di Scanzano, iniziarono i lavori per la
costruzione delle Terme Comunali, lavori che terminarono nel 1836.
Nel corso degli anni vi si aggiunsero altri corpi di fabbrica
e, specialmente nel 1893, su progetto dell'arch. Filosa il celebre Padiglione
Moresco, e nel 1900 la Vasca d'erogazione, in ferro battuto, su disegni
dell'ing. Eugenio Cosenza.
Tra la fine dell'800 e fino agli anni '50 del nostro secolo
questo complesso ospitò celebrità provenienti da mezza Europa, complessi
musicali celebri, mostre di pittura, manifestazioni mondane e culturali.
Sennonché nel 1956 sull'ondata di modernismo che tanti danni
irreparabili ha arrecato alla nostra città, fu decisa la demolizione dell'antica
struttura neoclassica e liberty, per far posto all'attuale costruzione, su
progetto dell'arch. Marcello Canino.
E così il 26 febbraio 1956 iniziò la demolizione dell'antica
struttura.
La Città
Come dicevo, alla fine del settecento lo Stato del Regno
delle due Sicilie si presentava ordinato e florido, dopo le riforme operate
mezzo secolo prima dal re Carlo III di Borbone, fiorente di traffici e commerci,
in pace con il resto dell'Europa, non più soggetto alle invasioni barbaresche e
turche in particolare.
Come tutte le città costiere, anche Castellammare iniziò ad
operare la demolizione delle mura difensive, oramai inutili, che la circondavano
e, l'aumento della popolazione, dovuta principalmente al suo porto mercantile e
militare -non dimentichiamo che nel 1783 era stato costruito il Real Cantiere
Navale, uno dei più importanti del Mediterraneo- crearono la necessità di un
rapido ed ordinato sviluppo urbanistico che dovette, per forza di cose, iniziare
fuori la porta del Quartuccio, creando quell'asse di sviluppo verso nord-est che
continua ancora oggi.
A questo punto l'Amministrazione di Castellammare dell'epoca
si pose il problema dell'ordinato sviluppo della città e, per evitare che ogni
privato potesse costruire come più ritenesse opportuno, incaricò l'architetto
stabiese Ottavio d'Avitaya di progettarne un'armonica espansione.
Quest'architetto, il cui nome oggi giace, purtroppo,
dimenticato in polverosi archivi ed ingiallite carte, destino questo di molti
illustri stabiesi, concepì il seguente piano. Poiché il Comune era proprietario
di tutte le arene che si trovavano fuori il Quartuccio, propose che la Città le
desse in enfiteusi ai privati, tracciando nel contempo due strade ove i
fabbricati potessero essere ordinatamente allineati, creando anche ad ogni
centinaio di metri dei vicoli per il deflusso delle acque piovane.
Nacquero, così, nel 1842, la Strada Spiaggia,
intitolata poi a Vittorio Emanuele II con delibera comunale del 6 novembre 1863
e, nel 1847, la Strada sul Lido, intitolata a Giuseppe Garibaldi sempre
con la stessa delibera del 1863.
In queste strade vengono costruiti il grandioso palazzo
Benucci, dal nome del facoltoso proprietario, cav. don Domenico Benucci,
titolare del monopolio dei tabacchi del Regno delle due Sicilie, oggi
impropriamente detto palazzo Vanvitelli, mentre l'autore fu il celebre Errico
Alvino, noto architetto e urbanista napoletano dell'ottocento, l'ideatore del
Corso Vittorio Emanuele e di Piazza dei Martiri a Napoli.
Questo palazzo per buona parte del secolo XIX fu sede dell'Hotel
Royal.
Pochi sanno, poi, che l'odierno palazzo di corso Vittorio
Emanuele n. 45 era all'epoca la casina di delizie di don Salvatore Auros
barone di Saint Caprais, celebre nobile dallo spiccato spirito repubblicano,
coinvolto addirittura nella rivoluzione napoletana del 1799. Sempre al Corso vi
era l’austero Albergo Imperiale, meta di illustri ospiti italiani e
stranieri e l'antico ed attuale Hotel Stabia.
In fondo al Corso vi era il Rione Spiaggia.
Rione Spiaggia
Il 31 luglio del 1842 viene inaugurato il tratto ferroviario
Napoli-Castellammare.
Questo avvenimento favorì e determinò il primo vero sviluppo
industriale e urbanistico della zona del rione Spiaggia.
In origine questo luogo era abitato da sparse casette di
pescatori che operavano tra la foce del Sarno e la costa.
Con l'apertura della linea ferroviaria questa divenne il
punto di carico e scarico di tutte le merci provenienti dall'interno, sin dalla
Calabria e la Puglia, Difatti all'epoca esistevano solo reti stradali, poco
comode e mal tenute, al cui confronto la moderna linea ferroviaria
Napoli-Castellammare dovette sembrare quanto di più comodo, moderno e veloce il
secolo scorso potesse offrire.
Su questo luogo, così, sorsero molti depositi e varie
industrie, mentre le famiglie di pescatori, che qui abitavano, ben presto si
trasformarono in famiglie di operai.
Fino al 1876, poi, al posto dell'attuale Piazza della
Ferrovia vi esisteva una piccola strada, poiché tutta l'area di fronte alla
Stazione era di proprietà della Fabbrica di Cuoi del francese Francesco Bonnet,
poi della famiglia Jammy, fabbrica istituita in Castellammare sin dal 30 agosto
1809.
Il suolo di proprietà comunale, nel 1809 come detto, fu dato
in enfiteusi a Francesco Bonnet, che diede origine ad una fabbrica di concia di
cuoi all'uso di Francia celebre in tutta Europa. Nel 1879, però, la fabbrica,
nel frattempo ereditata dai fratelli Jammy, fu costretta alla chiusura, in
seguito alla crisi industriale abbattutasi sull'ex Regno delle due Sicilie dopo
l'Unità d'Italia, ed il fabbricato, acquistato nel frattempo, nel 1880, da
Francesco Saverio Garofalo di Gragnano fu trasformato in palazzo per civili
abitazioni. Tenne per breve tempo il nome di Palazzo Buonocunto ove, al
secondo piano, era ubicato il Consolato degli Stati Uniti a Castellammare. Oggi
è conosciuto come Palazzo Arienzo.
La zona era, però, ricca di molte altre fabbriche, tra le
quali vanno segnalate quelle di manifattura di cuoi di Girolamo Restoin e del
tedesco Corrado Haller, sorta nel 1811, nella quale lavoravano un maestro
forestiero e undici del Regno, tra cui molti stabiesi; altra fabbrica di cuoi
del sig. Lemaire, fondata nel 1815, nella quale lavoravano tre maestri
forestieri, 65 "travagliatori" stabiesi e circa dieci donne.
Queste due ultime industrie avevano iniziato la lavorazione
dei castori all'uso di Louviex e la rara tintura della seta celeste, turchina e
bianca, uniche in Italia.
Nel 1826 sorse la prima vera fabbrica tutta stabiese, quella
dei sigg. Giuseppe e Costantino De Rosa, fabbricanti di tessuti di cotone,
fazzoletti ed altro. I loro opifici occupavano il suolo ove si trovava fino a
pochi anni fa la sede del Comune, ex Banca d'Italia.
Inoltre dove è ora lo stabilimento dell'AVIS, vi era
l'opificio meccanico del cav. Catello Coppola, l'industria da dove nel 1911 fu
fusa l'attuale Cassa Armonica della Villa Comunale.
La Carrozzella
Nel 1840, nel vico Minicocchia, attuale vico del Carmine, il
cav. Catello Scala istituì la fabbrica delle carrozzelle di Castellammare, che
ben presto divennero celebri in tutta Europa, tanto che un esemplare è oggi
esposto al Museo d'Arte Moderna di Parigi.
La prima carrozzella di Castellammare fu creata per la
baronessa Isabella Acton moglie di Errico Dachanhausen che abitava l’omonima
villa alle Fratte dai fratelli Catello e Ignazio Scala.
Per soddisfare anche la curiosità di chi legge ricorderò che
una carrozzella del cav. Scala si trovava nella stiva del transatlantico
Andrea Doria quando affondò, per essere consegnata ad un magnate texano.
Viaggiatori stranieri
Il 13 marzo del 1832 Ferdinando II, su suggerimento di «S.
E. il Cav. di Gran Croce Niccola Santangelo, Ministro Segretario di Stato degli
Affari Interni», comandò che si costruisse una strada carrozzabile da
Castellammare a Sorrento. Difatti prima di allora la penisola era raggiungibile
per mare o a dorso di mulo. Solo per dare un piccolo assaggio dell'efficienza
borbonica basterà dire che dopo appena due mesi l'ing. Luigi Giordano già
presentava il progetto, come diremmo oggi, cantierabile. Il mese successivo:
«s'era già aperta una traccia cavalcabile sino a Meta»
che «la Regina madre percorse in portantina, sorpresa dalle superate
difficoltà, specialmente a Scutolo, dove sembrolle di trovarsi come per
incantesimo, sulle nude rocce delle Elvetiche Alpi».
Finalmente il 14 giugno dell'anno successivo la strada fu
inaugurata dal principe di Capua che la percorse:
«con coraggiosa intrepidezza, sopra un legnetto a quattro
ruote ch'egli stesso guidava, con intenso giubilo e stupore delle popolazioni
accorse in folla ad ammirare la gradevole novità».
Si badi bene non fu ampliato l'antico sentiero che si
inerpicava tra i monti, ma fu tracciata ex novo una nuova strada che fu
volutamente panoramica.
Per assicurare la frescura nei mesi estivi a chi la
percorreva in carrozza, furono piantate due file di alberi, cioè le robinie e
gli elci; e per imbrigliare il terreno franoso furono gettati abbondanti semi di
ginestre e carrube «i quali mentrechè ricuopron di verde la costa formano
colle folte radici un tessuto capace di tener ferma la fragil terra». Come
vedete si teneva conto anche di quello che oggi prende il nome di "impatto
ambientale".
Nel 1878 così la descrive Renato Fucini:
«Questa via per me è quella che contribuisce
essenzialmente alla grandissima e giustificata fama delle bellezze di Sorrento …».
E così si esprime nel 1984 Arturo Fratta:
«… chi vede Sorrento per la prima volta, dai tornanti di
Punta Scutolo come da una balconata, resta preso dall'immagine indistinta e
quasi fiabesca della costa alta. Quell'effetto di luce è provocato, nelle ore
antimeridiane, dalla posizione del sole che rende imprecisi i contorni. Dopo
mezzogiorno la scena muta. Un senso di pace viene dal piano verde inondato di
case, isolato a mezz'aria, distante e quasi protetto dal mare che si frange
molti metri più sotto, lungo una linea che sembra tracciata armoniosamente a
delimitare piccole marine e pareti di tufo a picco sull'acqua».
La costruzione di questa strada oltre ad incrementare il
commercio, contribuì, e non poco, ad un grande afflusso di viaggiatori,
stranieri in particolare, che giungevano in treno fino a Castellammare e poi
raggiungevano la costiera sorrentina con l'ausilio di carrozze.
Nel 1845 lo scrittore Francesco Alvino, nel suo volume
Viaggio da Napoli a Castellammare, così ci descrive la città:
«Questa città è fabbricata a riva di mare, ha larghe e
pulite strade, fra le quali quella della marina si particolarizza per essere la
più amena e ricercata... Nell'està offre Castellammare un rifugio benefico e
pieno di molli delizie, allora ha l'aspetto d'una gran città popolatissima. Gli
stranieri in folla vi accorrono; ed i nobili napoletani che, o per fuggire
l'ardore della capitale, o pel bisogno delle acque minerali e de' bagni, la
maggior parte ci passano dei mesi. Sorgente di ricchezze è per la popolazione».
E, quindi la città di Castellammare, in periodo borbonico, fu
meta, solo per ricordare i maggiori, di personaggi del calibro di
J. Wolfang Goethe, Walter Scott e Xavier de Maistre,
John Ruskin e Alphonse de Lamartine, Charles Farlane e Herman Melville,
Alessandro Dumas e John Fenimore Cooper, Theophile Gautier e Longfellow, Ibsen e
Flaubert.
Ecco cosa scrisse, nel 1787, Goethe, di ritorno da una delle
sue gite a Pompei e al Vesuvio, scrisse:
«Abbiamo fatto colazione a Torre Annunziata, mangiando
proprio in riva al mare. Era una giornata incantevole; la vista di Castellammare
e di Sorrento, che parevano a due passi, deliziosa. I napoletani poi si trovano
come a casa loro: alcuni dicevano che, senza vedere il mare, non è possibile
vivere. Quanto a me, mi basta di averne impressa l'immagine nell'anima e sono
ormai disposto a ritornare tra le nostre montagne.
»
E ci colpisce in modo particolare la citazione della nostra
città nel Madame Bovary di Gustave Flaubert:
« ..a pochi passi da Emma (Bovary), un gentiluomo
in abito blu parlava dell'Italia con una giovane fanciulla pallida ingioiellata
di perle. Magnificavano l'imponenza del colonnato di San Pietro, Tivoli, il
Vesuvio, Castellammare e le casine, le rose di Genova e il Colosseo al chiaro di
luna ».
Senza dimenticare anche celebri pittori stranieri, che
immortalarono la città sulle loro tele: Ducros, Dahl, Turpin de Crisse,
Michallon, De Mercey, Coignet, Scedrin, Ivanof, Solizev, Duclere, solo per
ricordare i maggiori.
Certo, oggi sembra incredibile sentir citata la nostra città
insieme con la basilica di San Pietro, il Colosseo, Tivoli, il Vesuvio e San
Remo, come le cose che più avevano colpito un grande scrittore come Flaubert.
All'epoca, invece, era un fatto normale.
E, per concludere, la nostra città vista da Charles Dickens
nel febbraio del 1845: [giunse in ferrovia a Rovigliano, tempo da Napoli:
1 ora]
«(...) Passiamo piacevolmente con la ferrovia (...)
davanti a Castellammare col suo castello diroccato, oggi abitato da pescatori,
che si erge su un ammasso di scogli in mezzo al mare. Qui la ferrovia si
arresta, ma è possibile proseguire in carrozza, in un ininterrotto
succedersi di golfi incantati e di splendidi panorami che degradano dalla più
alta sommità di Monte Sant'Angelo (la più alta montagna della zona) fino alla
riva del mare, in mezzo ai vigneti, alberi di ulivo, giardini d'aranci e limoni,
frutteti, ammassi di rocce e gole qua e là verdeggianti fra le colline. Si
costeggiano i pendii di cime innevate, si attraversano cittadine con belle donne
brune sulle porte, si passa davanti a deliziose ville di campagna, finché‚ si
raggiunge Sorrento, dove il poeta Tasso s'ispirò alla bellezza che lo
circondava.
Al ritorno, possiamo salire su per le alture che dominano
Castellammare e, guardando giù fra rami e foglie, vedere l'acqua increspata che
scintilla al sole e grappoli di bianche case della lontana Napoli, che la grande
distanza fa apparire minuscole come dadi. Al tramonto si ritorna in città,
costeggiando nuovamente la spiaggia: con il sole che splende da un lato, e
dall'altro la montagna che s'abbruna col suo fuoco e il suo fumo, è un modo
sublime per chiudere una giornata memorabile ».
(Questo studio, letto per la prima volta ed in forma ridotta,
alla conviviale del Rotary Club di Castellammare di Stabia (Hotel Stabia) la
sera del 21 maggio 1999, é stato
pubblicato, nell'attuale forma e con note, in «Domus de loco sano», Città
di Castellammare di Stabia edit. 2002.
© Giuseppe D'Angelo
1999-2007
NOTA PER I LETTORI
Riproduzione
vietata senza il consenso dell'autore.
(Ma se lo copiate, almeno, citate la fonte.)
I N D I C E
PREFAZIONECARLO III
SCAVI ARCHEOLOGICI
PALAZZO REALE DI QUISISANA
VILLA ACTON
VILLA LIEVEN - MOLITERNO
VILLA LUCIA
ANALISI ACQUE MINERALI (COTUGNO E VAIRO)
PIO TOMMASO MILANTE
REAL TEATRO FRANCESCO I
REAL CANTIERE NAVALE
LE ANTICHE TERME
SVILUPPO DELLA CITTA’ – RIONE SPIAGGIA E INDUSTRIE
LA CARROZZELLA
VIAGGIATORI STRANIERI
tratto da:
http://www.liberoricercatore.it/Storia/lostorico/giuseppedangelo.htm
Nessun commento:
Posta un commento