martedì 24 novembre 2015

Quel medico antifascista che fu vittima dei partigiani




"Dopo il 25 aprile 1945 iniziarono in tutto il Savonese le vendette, spesso personali, seguite da ruberie ed esecuzioni sommarie a danno di presunti fascisti, effettuate da partigiani comunisti i quali con l’uso delle armi avevano creato un nuovo status quo, sanguinario e terroristico.
Non tutti gli antifascisti, erano d’accordo con questo tipo di comportamenti che ben poco avevano a che fare con la Resistenza e che al contrario avevano molto del criminale. Uno di questi era un medico, di fede socialista, contrario ad ogni violenza e molto amato dalla gente, personaggio autorevole presso il C.N.L.: Francesco Negro, quarantaseienne, nativo di Quiliano, Presidente della Croce Rossa.
Negro persona per bene, onesto e corretto, in qualità di Ufficiale Sanitario presso il Comune di Savona stilava i certificati di morte delle persone decedute, per qualsiasi motivo, nel territorio di Savona.
Il Dottor Negro, si era accorto dell’impennata del numero dei morti, uccisi da arma da fuoco o per altra causa violenta, avvenuta a partire dalla data della “Liberazione”. La cosa l’aveva constatata di persona e molto da vicino poiché, egli come funzionario sanitario, si recava in tutti i luoghi dove venivano rinvenuti corpi crivellati di proiettili per constarne il decesso e stilarne il certificato di morte.
Il piazzale antistante il Cimitero Savonese ogni notte ospitava decine di corpi risultato di esecuzioni sommarie, abbandonati per essere seppelliti in quel luogo, dagli squadroni rossi della morte che lavoravano a pieno ritmo. I prigionieri, per lo più civili, benestanti e abbienti, erano prelevati nei campi di prigionia di Segno e Legino, trasportati al Cimitero e passati per le armi. Per comodità, venivano giustiziati con un colpo alla nuca, senza perdere tempo in inutili cerimonie. Poi gli assassini passavano all’incasso nelle abitazioni dei morti e si appropriavano di tutto.
Ogni luogo, un po’ defilato dalla vista di scomodi testimoni, era utilizzato dalle squadre di fucilatori rossi come poligono di tiro, dove i bersagli erano inermi prigionieri, accusati a torto o a ragione di essere fascisti, i quali venivano ammazzati senza alcun tipo di processo. Anzi molti di questi assassinati erano già stati giudicati innocenti e quindi rimessi in libertà dalla C.A.S. (la Corte di Assise Speciale), ma la macchina della morte doveva macinare le sue vittime inermi, per un crudele senso di vendetta che comunque si realizzava su persone, donne, vecchi e adulti che nulla avevano da rimproverarsi. Il Dottor Negro aveva ben presente la situazione e incominciò a fare delle riflessioni.
La cosa che impressionò molto il Dottor Negro fu la crudeltà e la ferocia che veniva usata in queste situazioni dai partigiani comunisti, egli infatti, nel corso di molte autopsie rilevò segni evidenti di sevizie e torture efferate sui corpi degli uccisi, che comunque nessun tribunale aveva condannato a morte. Inoltre molte delle salme, erano nude a testimoniare che erano state spogliate di ogni avere: abiti, monili, orologi e addirittura la fede nuziale e le scarpe. Un altro fatto che colpì il medico fu la negazione della memoria cristiana che veniva praticata dai boia rossi, i quali dopo aver giustiziato le vittime, ne facevano sparire i corpi per impedire ai famigliari di pregare sulla loro tomba.
La goccia che fece traboccare il vaso all’interno della coscienza pulita ed onesta di Francesco Negro fu l’omicidio, anch’esso abbietto e ingiustificato, di una insegnante elementare di Quiliano, sua concittadina, Dora Cosmin, la quale aveva come unica colpa quella di essere la sorella di un esponente della Repubblica Sociale Italiana.
La poveretta, fu sequestrata a Quiliano da due partigiani comunisti, pare suoi ex allievi, trascinata in un bosco poco fuori dall’abitato di Segno, da cui lei non fece più ritorno. Il suo corpo non venne mai più ritrovato. I suoi due assassini, agirono in preda a delirio di onnipotenza contando su una impunità incredibile e sfacciata e soprattutto sulla omertà della gente che li avevano visti agire alla luce del sole, essi attraversarono la piazza principale, sotto gli occhi terrorizzati dei passanti, tenendo strettamente afferrata per le braccia la povera maestra che con voce alterata dallo sgomento chiedeva ai due dove la portassero. I due assassini, uno alto e l’altro con i capelli ravviati all’indietro, fecero quello che volevano fare e poi tornarono a casa loro, sereni e tranquilli.
Questi massacri continuarono a lungo, almeno sino alla fine del 1950, senza che la giustizia potesse agire in modo efficace, infatti gli autori degli omicidi e dei massacri erano noti a tutti ma agivano coperti dal silenzio impaurito della popolazione. Il Dottor Francesco Negro non era un vile, e indignato per tutto ciò, iniziò a deprecare con forza anche in pubblico queste atrocità affermando che non avevano nulla a che fare con la Resistenza. A più riprese Francesco Negro, uomo forte e dal portamento nobile che incuteva rispetto, affrontò all’interno di una Società Operaia di Quiliano, le persone che sospettava fossero responsabili di questi delitti, il suo invito a tornare nella legalità era perentorio e fu oggetto di odio da chi sotto il paravento della Resistenza continuava a rubare ed a uccidere. Con il suo comportamento coraggioso e sincero senza peli sulla lingua, si mise al centro del mirino. I due personaggi che avevano assassinato la Maestra Dora Cosmin e che temevano di essere additati dal Negro all’opinione pubblica per quello che erano e cioè per dei volgari assassini, decisero di chiudere la bocca al medico, cosa che accadde inesorabilmente.
Il dottor Francesco Negro, la sera del 10 novembre 1945, si recò ad una vista domiciliare presso l’abitazione di un imprenditore savonese residente in Corso Ricci, una lunga strada che corre parallela al torrente Letimbro. Non sapeva che andava incontro alla morte. Negro intorno alle 21,30 uscì dalla casa del suo mutuato, era in sella ad un bicicletta e prima di salire sul sellino, si rimboccò il fondo dei pantaloni con una pinza, la bici era scura con i freni a bacchetta, imboccò Corso Agostino Ricci in direzione di Savona per tornare a casa sua.
Quello che accadde dopo lo raccontò lo stesso Negro prima di morire: all’altezza del ponte delle ferrovie che valica la strada, due uomini uscirono dall’ombra e lo fermarono. Chiesero se egli era il dottor Negro, e alla sua risposta positiva, gli ordinarono di scendere con loro sul greto del torrente Letimbro, perché volevano discutere di alcune cose con lui. Negro rifiutò ovviamente e da subito ebbe un atteggiamento coraggioso rifiutandosi di obbedire, scambiando i due per rapinatori, offrì loro il suo portafogli ma loro rifiutarono affermando che avevano altri conti da regolare con lui. Compreso il pericolo, il medico cercò di allontanarsi in bicicletta ma uno dei due gli esplose contro tre colpi di pistola, quindi i due criminali fuggirono.
Negro colpito ad un braccio e all’addome, riuscì a raggiungere una casa vicina e a chiedere aiuto. L’arma usata era una pistola automatica, una beretta cal. 7.65, una famigerata arma munita di silenziatore, la stessa che uccise dodici persone a Savona, senza essere mai ritrovata.
Trasportato all’Ospedale morì alla mattina successiva, per le gravi ferite riportate. senza perdere conoscenza, ma senza poter dare utili indicazioni sulla identità degli assassini. Nessuno vide nulla e i criminali, anche in questo caso, la passarono liscia anche se tutti intuivano chi aveva sparato e perchè, ma nessuno apriva bocca per indicarli, per paura di fare la stessa fine di Negro e di tantissimi altri. I banditi rossi spadroneggiavano a Savona con la violenza e con l’uso delle armi.
Essendo Negro un antifascista militante, il 13 novembre 1945, ebbe dei funerali imponenti a Savona, con la partecipazione di tutti gli appartenenti alle formazioni partigiane che sfilarono per la via centrale, le autorità dell’epoca presenziarono al funerale, vi furono discorsi di suffragio che comunque erano un campionario di ipocrisia e di falsità, molto probabilmente, fra la folla presente c’erano anche i suoi assassini che non vennero mai disturbati. I discorsi delle autorità, primo fra tutti il cosiddetto “Prefetto della Liberazione”, tutte facenti parte dalle truppe partigiane, non toccarono la vera essenza del delitto Negro come di tanti altri delitti, anzi evitarono accuratamente di avvicinarsi al problema e cioè che: una banda o più gruppi di partigiani comunisti, agivano a Savona, rubando ed uccidendo, tollerati anzi protetti dai vertici politici comunisti che tutto sapevano.
Le uniche indagini su questo delitto, le condusse un coraggioso commissario di polizia, Amilcare Salemi arrivato apposta da Como per indagare sul clima incandescente di Savona. Egli giunse molto vicino ad arrestare i colpevoli ma qualcuno, con i soliti metodi terroristici, lo uccise mentre cenava e qualcun altro in questura faceva sparire le carte delle indagini sull’omicidio Negro. L’arma era la stessa usata per liquidare Negro.
Savona dal 1945 al 1950, era tutta una serie cronologica di omicidi, legati e connessi strettamente fra di loro, come una serie lunghissima di scatole cinesi: si uccideva per coprire gli autori di un altro omicidio e così via, sino all’infinito."

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