giovedì 20 agosto 2015
Per tre secoli proibito il nome di Cristo
di MARIA LUISA RIZZATTI
La tradizione che fa risalire a Nerone la responsabilità della prima repressione in grande stile è molto antica e molto autorevole: Tacito e Svetonio la confermano nelle loro Storie – in quali termini, vedremo più avanti – e l’apologista Tertulliano esclama in proposito, con enfasi: «È una gloria per noi che Nerone sia stato il nostro primo persecutore, perché chi lo conosce comprende come, da un tale mostro, non poteva essere condannato che un bene sommo». Bellissime parole, ma che lasciano molto perplessi. Non è chiaro su quali basi avrebbe dovuto fondarsi l’intolleranza neroniana, dal momento che, all’epoca di questo imperatore, i Cristiani di Roma erano in numero trascurabile, quasi tutti gente di umile origine, pochissimo conosciuti, e, per lo più, confusi con le comunità giudaiche, di cui molti li credevano una filiazione. Il nome di Cristo suonava ancora ignoto in Roma: alcuni ne avevano una vaga nozione, come di un agitatore o un capo-popolo. Dice Svetonio che l’imperatore Claudio, predecessore e patrigno di Nerone Nerone, intorno all’anno 50 «fece espellere i Giudei, che provocavano tumulti per istigazione di Cresta». Ora, Chrestus era l’abituale errore di pronuncia dei Romani, nel menzionare il nome di Cristo; e il passaggio di Svetonio è interessante in quanto fornisce la prova della confusione e delle falsità che circolavano tra il volgo a proposito dei rapporti fra Giudei e Cristiani. Ma vediamo di attenerci ai fatti. Nella notte fra il 18 e il 19 luglio dell’anno 64, si sviluppò in Roma un violentissimo incendio, che continuando a infuriare per sei giorni, distrusse quasi interamente dieci rioni, dei quattordici in cui si divideva la capitale. Lo storico Cornelio Tacito, riferendo le circostanze del sinistro, circa un quarantennio più tardi, asserisce che la colpa fu attribuita ai cristiani, «i quali per le loro turpitudini erano invisi al popolo». Svetonio a sua volta conferma – ma non a proposito dell’incendio di Roma – che Nerone punì con supplizi i Cristiani, gente dedita «a un nuovo genere di Superstizione funesta e malefica». La notizia è data en passant, fra un elenco di provvedimenti a carattere poliziesco, come il divieto agli osti di vendere cibi cotti che non fossero ortaggi, e la diffida agli aurighi di provocare incidenti girando con le loro quadrighe per la città. Ora, alcuni studiosi moderni sostengono che Tacito e Svetonio sono caduti in una specie di anacronismo. Avrebbero attribuito, cioè, ai Romani del tempo di Nerone la mentalità e i pregiudizi tipici di una età più tarda – la loro – nei confronti dei Cristiani. Nel II secolo infatti, essendosi enormemente accresciuto il numero dei proseliti della nuova religione, non era più possibile ignorarli, e il popolino aveva di loro un timore superstizioso, che spesso dava luogo a episodi di intolleranza. Terremoti, pestilenze, distruzione di raccolti, ogni sorta di calamità pubbliche erano comunemente attribuite ai Cristiani, come oggi alle esplosioni atomiche. Secondo questa mentalità, dunque anche l’incendio di Roma non avrebbe potuto essere imputato che ai Cristiani. Invece, sembra più logico pensare che, in un primo tempo almeno, il volgo tendesse a rovesciare sui Giudei la colpa della catastrofe. Occorre tener presente come, dei quattro rioni scampati alle fiamme, due – Porta Capena e Trastevere – erano per l’appunto quelli dove abitavano le comunità giudaiche. La circostanza non passò certamente inosservata; tanto che alcuni storici arrivarono addirittura a sostenere che la persecuzione neroniana fu diretta in realtà contro gli Ebrei, e che, se dei Cristiani ci incapparono, questo si dovette al fatto che o erano ebrei di nascita o venivano confusi con loro per la comune origine delle due religioni. Dopo l’espulsione ordinata da Claudio, la colonia ebraica doveva essere ritornata abbastanza numerosa e prospera, come era stata fin dai tempi di Cesare e di Augusto. Facevano persino dei proseliti nella società romana: il poeta Orazio, nella famosa Satira IX, ci parla di un suo amico, Aristio Fusco, che osservava il rispetto del sabato e seguiva, per lo meno da “simpatizzante”, i riti del giudaismo. Tuttavia la tesi di una persecuzione diretta espressamente contro gli Ebrei non persuade, anche perché nessun autore dell’epoca ne fa parola. È presumibile, piuttosto, che dopo l’incendio i Giudei di Roma, consapevoli dei sospetti che gravavano su di loro, abbiano pensato di stornarli, indicando essi, per primi, i Cristiani come autori del crimine. Non bisogna dimenticare che proprio in Giudea i discepoli di Gesù avevano subito le prime, feroci persecuzioni. Adesso, i rapporti fra le due comunità erano molto tesi. Inoltre, i Giudei avevano il modo di far giungere le loro accuse direttamente all’Imperatore attraverso la moglie di lui, Poppea, che faceva parte dei simpatizzanti, se non addirittura dei proseliti della Sinagoga. Infine, e questo ci sembra l’argomento di maggior peso, la comunità giudaica era la sola esattamente informata sull’essenza e la fisionomia del Cristianesimo. Lo stesso San Clemente Romano, nella sua lettera ai fedeli di Corinto, scritta verso la fine del secolo, conferma indirettamente questa tesi, perché accennando alla persecuzione neroniana, attribuisce alla “gelosia” le due prove subite dalla chiesa di Roma: il termine suona chiaramente allusivo all’atteggiamento degli Ebrei nei confronti della nuova religione. Sembra dunque di poter affermare che la repressione di Nerone colpì effettivamente i Cristiani, in quell’epoca per la prima volta distinti dai Giudei come una comunità a parte (anche se la distinzione più tardi apparve nuovamente incerta) e che li colpì non come Cristiani, ma come incendiari. È questo il punto in cui l’interpretazione moderna dei fatti contrasta con la storiografia tradizionale. Secondo quest’ultima, Nerone avrebbe promulgato addirittura delle disposizioni speciali, che mettevano fuori legge il movimento: «Christiani non sint, non licet esse Christianos». Di simili provvedimenti non è rimasta traccia, ed è lecito dubitare che siano mai stati emanati, visto che ai tempi di Traiano, mezzo secolo più tardi, permaneva nei funzionari la massima incertezza sulla posizione giuridica dei Cristiani. Tutto ciò non attenua, naturalmente, le responsabilità dell’imperatore e nemmeno il carattere di ferocia che contraddistinse la sua azione contro i presunti incendiari. Ci furono episodi orrendi, come quello delle fiaccole umane, cosparse di pece e lasciate ardere nella notte, o delle giovinette esposte nel Circo alla furia d’animali selvaggi. Davanti a simili spettacoli, Tacito riferisce che il popolo fu preso da pietà e raccapriccio, benché i condannati fossero «colpevoli e degni degli estremi supplizi». Perirono in quest’epoca gli Apostoli Pietro e Paolo, uccisi, secondo la tradizione, il medesimo giorno. Pare invece che il martirio di Pietro, crocifisso con il capo all’ingiù, sia da collocarsi qualche anno dopo l’incendio, nel 67 o nel 68, il luogo esatto fu il Circo Neroniano, dove ora sorge la sua Basilica, mentre quello di Paolo, sulla via Ostiense, lo avrebbe preceduto di qualche tempo. Dopo questa esplosione di ferocia dell’età neroniana, tutto rientrò nella normalità, e bisogna giungere a Domiziano, l’ultimo dei Cesari, per trovare l’evidenza di una nuova persecuzione. Anche a proposito di questa, però, gli interrogativi sono parecchi. Siamo sul crepuscolo del I secolo, e il Cristianesimo incomincia a diffondersi nelle classi elevate. Già in una lettera di San Paolo si nota un accenno ai fedeli «che sono nella casa di Cesare»; ma allora doveva trattarsi di schiavi o di liberti che vivevano nei palazzi imperiali. Poco più tardi, però, la matrona Pomponia Grecina, moglie del console Aulo Plauzio, vincitore dei Britanni, a causa della sua austerità e della sua vita ritirata cade in sospetto di essersi lasciata irretire da «una superstizione di origine forestiera». La frase è di Tacito, e sembra non si possa interpretare altrimenti che come un’accusa di Cristianesimo. Al tempo di Domiziano, poi, delle conversioni devono essere avvenute nella stessa cerchia della famiglia imperiale. Difatti un cugino dell’Imperatore, Flavio Clemente, console nell’anno 95, vien condannato a morte; e la moglie di lui, Flavia Domitilla, è relegata nell’isola di Pandataria. Per entrambi, l’accusa è di ateismo, non di Cristianesimo; ma essa indica chiaramente quel rifiuto di omaggio ai falsi dei della religione di Stato, che era tipico dei nuovi credenti. Altrimenti non si potrebbe spiegare la gravità delle misure prese contro di loro: l’ateo non incorreva nei rigori della legge, finché serbava una adesione esteriore alle pratiche del culto ufficiale. Tutta la società romana evoluta non credeva più nelle divinità dell’Olimpo, fin dai tempi di Cesare e di Cicerone, ed anzi se ne faceva beffe, più o meno apertamente: l’ossequio formale però rimaneva. L’intransigenza dei due Flavii, dunque, non poté essere ispirata che dalla fede in quell’Essere Supremo, che nelle tavole del Decalogo aveva proclamato: «Non avrai altro Dio all’infuori di Me». Ma qui sorge la questione: si trattava di Giudaismo o di Cristianesimo? Sappiamo che Domiziano seguì una politica di particolare durezza contro i Giudei, di cui suo fratello Tito aveva domato la rivolta e distrutto la città santa, Gerusalemme. L’imperatore, in parte per avversione personale, in parte per avidità di denaro, fu implacabile nell’esigere il pagamento della didracma, quel tributo a cui Tito, dopo il Settanta, aveva assoggettato i ribelli sconfitti. La riscossione diede luogo a molte vessazioni, che finirono col colpire tutti quelli che vivevano secondo il costume giudaico. Sembra inoltre che Domiziano vietasse ai Romani la conversione al giudaismo, arrivando a colpire i renitenti con condanne a morte o confische di beni. Dunque le misure drastiche adottate contro i Flavii ed altri membri influenti della società romana potrebbero trovare una spiegazione anche nel quadro dei provvedimenti contro l’Ebraismo, specie in un’epoca in cui persisteva la confusione fra le due religioni. Il I secolo si chiude, pertanto, su un grande punto interrogativo. È soltanto nel II secolo che la questione dei rapporti fra Cristianesimo e autorità romane può essere messa a fuoco, sulla scorta di documenti irrefutabili. Una delle testimonianze più significative è costituita da due lettere: di Plinio il Giovane all’imperatore Traiano, e di Traiano a Plinio, sulla procedura da seguire nei processi contro i Cristiani. Plinio, nipote del famoso naturalista ed egli stesso scrittore e giureconsulto, era in quell’epoca (111-113 d.C.) governatore della Bitinia. Preoccupato della violenza del sentimento popolare contro i Cristiani e delle denunce che si ammucchiavano nel suo ufficio, aveva dovuto consentire a delle misure di emergenza contro i seguaci della nuova fede; poi, perplesso e, si direbbe, sgomento del suo operato, aveva sospeso ogni cosa in attesa di istruzioni da Roma. «Io non ho mai assistito» scrisse all’imperatore «ad alcun processo contro i cristiani, e così non so nemmeno cosa bisogna punire e investigare, né fino a che punto si debba giungere. Per esempio, io non so se debba fare distinzione di età: […] se vi sia perdono per chi si pente, o se chi è stato cristiano non abbia diritto ad alcun riguardo anche se cessa di esserlo; se è la qualifica stessa di cristiano che si colpisce, a prescindere da ogni delitto, o se si puniscono i delitti inseparabili dal nome. In attesa, ecco la regola che ho seguito verso coloro che mi sono stati deferiti come Cristiani. Ho rivolto loro la domanda, se erano Cristiani. Quelli che lo hanno ammesso, li ho interrogati una seconda e una terza volta, minacciandoli di supplizio; quelli che hanno persistito, ho ordinato che fossero giustiziati; poiché è fuori dubbio a mio parere che qualunque, sia la natura, delittuosa o no, del fatto confessato, questa testardaggine, questa inflessibile ostinazione meritano di essere punite. Vi sono stati altri disgraziati, colpiti dalla medesima follia, che, vista la loro qualità di cittadini romani, io ho messi in nota, perché fossero rinviati a giudizio a Roma». Il governatore prosegue, riferendo che alcune delle persone denunciate sono riuscite a scagionarsi compiendo alla sua presenza gli antichissimi gesti propiziatori del paganesimo, come la libagione di vino in onore degli dei, o l’offerta dell’incenso. (Il solerte funzionario fa notare di aver collocato la statua dell’Imperatore in mezzo a quelle divinità, come del resto era di prammatica). Altri se la cavano con l’attestazione di essere stati Cristiani un tempo, ma di avere cessato da un pezzo di frequentare le riunioni dei confratelli. Comunque il governatore è preoccupato «per il numero di quelli che sono in pericolo» e sollecita istruzioni. «Una gran quantità di persone, infatti», precisa Plinio, «d’ogni età, condizione e sesso, sono o saranno giudicate; e non solo le città, ma anche i borghi e le campagne sono invasi dal contagio di questa credenza superstiziosa.» La risposta di Traiano è ispirata a una certa moderazione: «... Dal momento che non è possibile stabilire una norma universale e addirittura invariabile, non devono essere ricercati; ma, se saranno accusati e convinti, è doveroso punirli, fermo restando però, che, se qualcuno sostiene di non essere cristiano, e lo dimostra coi fatti, adorando cioè i nostri dei, anche se sospetto per l’addietro, in forza del suo pentimento ottenga il perdono. Quanto poi ai libelli anonimi, non si deve tenerne conto, poiché ciò è di pessimo esempio e indegno dei nostri tempi.» Da questa corrispondenza, tre constatazioni di fatto emergono chiaramente. La prima: che nonostante l’opinione contraria di alcuni studiosi (ad es. il Boissier) in quest’epoca della storia romana non doveva esistere una legislazione speciale anticristiana, ad onta delle sporadiche violenze di Nerone e di Domiziano; altrimenti l’incertezza di Plinio, che oltre tutto era anche un giurista, non si spiegherebbe. La seconda: che la spinta a perseguitare venne per lo più dal basso, non dall’alto: dal popolo, non dalle autorità. La gragnuola delle lettere anonime, lo zelo implacabile dei delatori testimoniano una animosità pericolosamente vicina all’isterismo di massa. Nel corso del secolo infatti, e in parecchie località dell’Impero, essa doveva dar luogo a veri e propri pogrom. Davanti alle pressioni del furore popolare, i funzionari cercavano di barcamenarsi, procedendo con maggiore o minore severità a seconda delle loro convinzioni personali o delle istruzioni ricevute da Roma. La terza constatazione infine è che, accanto alle figure gloriose dei martiri, che pagarono a prezzo di sangue la loro fedeltà a Cristo, esistettero fin dai primi tempi dei campioni del doppio gioco. Vien fatto ora di chiedersi quali fossero i motivi dell’odio popolare contro i Cristiani e a che cosa alludesse precisamente Plinio il Giovane, parlando di «delitti inseparabili dal nome». Senza dubbio, la cieca animosità delle masse aveva la sua radice in una sorta di terrore superstizioso. La diffidenza atavica verso tutto ciò che appare straniero o peregrino si complicava, nel caso dei Cristiani, di un effettivo timore di vendette soprannaturali. L’alta e serena religione dei filosofi greci non aveva presa sulle masse, ancora prigioniere delle vecchie favole crudeli. Tutte le leggende pagane, l’unica forma di religione che fosse familiare al popolino ignorante, concordavano nel presentare gli dei come invidiosi e vendicativi, e soprattutto estremamente suscettibili. I loro castighi scoccavano, per la minima mancanza di ossequio, con una sproporzionata crudeltà, coinvolgendo tutti, innocenti o colpevoli. L’ostinato rifiuto dei Cristiani di partecipare alle cerimonie del culto ufficiale, la loro preferenza accordata a un Dio “geloso”, che reclamava per sé solo l’adorazione e il servizio, apparivano ai pagani osservanti manifestazioni di una inconcepibile intolleranza, tali da attirare sulla città o sulla regione le peggiori calamità. Tertulliano doveva dire più tardi, nel suo Apologetico: «I pagani attribuiscono ai Cristiani ogni pubblica calamità, ogni flagello. Se il Tevere inonda la città, se il Nilo rifiuta l’irrigazione, se vi è siccità, carestia, peste, terremoto, tutta la colpa è dei Cristiani che disprezzano gli Dei, e sorge subito il grido: i cristiani ai leoni!». L’ostilità generale poi era rinfocolata da leggende che circolavano tra il popolo e accusavano i Cristiani dei vizi più turpi. Si diceva che venerassero un uomo dalla testa d’asino, o un asino crocefisso. Il mistero reverenziale da cui erano circondati il Santo Sacrificio e il sacramento dell’Eucarestia aveva fatto nascere la voce di banchetti cannibaleschi, in cui i convitati si spartivano le membra di un bambino ucciso. Può anche darsi che Plinio e gli altri funzionari del suo stampo alludessero a queste voci, parlando di «delitti connessi con la qualifica di Cristiani»; ma bisogna pure tener presente che, di fronte alla legge romana, se interpretata e applicata alla lettera, i Cristiani erano dei colpevoli. I motivi d’incriminazione, difatti, non mancavano già nelle disposizioni vigenti: non c’era bisogno di ricorrere a leggi speciali. Vi era il divieto di aderire (per i cittadini Romani) a una «religio nova et peregrina»; era proibito del pari far parte di un «collegium illicitum», ossia di una associazione culturale non autorizzata, e Plinio, nella lettera citata, asserisce di avere interdetto le associazioni in seguito a un editto dell’Imperatore. Vi erano poi gli obblighi religiosi, anch’essi tutelati dalla legge, con tutto quel complesso di riti a cui era difficile sottrarsi, specie per i militari, gli impiegati dello Stato e i cittadini più influenti. Praticamente, il culto degli dei aborigeni, come Giove Capitolino e la Dea Roma, e l’ossequio alla divinità dell’imperatore equivalevano, sul piano politico, a un riconoscimento della sovranità romana; perciò i magistrati erano particolarmente sensibili al rifiuto di questi omaggi, fiutando una ribellione là dove non era che la ripugnanza del vero credente davanti all’adorazione di un simulacro. L’imperatore Adriano, succeduto a Traiano, in una lettera al proconsole in Asia, Minucio Fundano, amico di Plinio, conferma più o meno le disposizioni del suo predecessore nei riguardi dei Cristiani, con una più accentuata tendenza alla mitezza: non si perseguiti d’ufficio, non si dia luogo a processi su denunzie generiche, ma siano rinviati a giudizio solo quei Cristiani che risultino rei di veri e propri delitti. Adriano raccomanda inoltre la massima severità contro i falsi accusatori. La medesima linea, sostanzialmente tollerante, seguono gli altri sovrani di quell’età, che a ragione è conosciuta come l’epoca d’oro dell’Impero: Antonino Pio, Marco Aurelio. Con Commodo, che chiuse indegnamente la serie degli Antonini, lasciando di sé la fama di un secondo Nerone, i Cristiani vissero indisturbati persino nella cerchia dei palazzi imperiali. L’amica dell’Imperatore, Marcia Aurelia Celonia, simpatizzava con il movimento, e la tolleranza di Commodo, per altri versi tirannico e crudele, può essere spiegata in parte con l’influsso di lei; ma in fondo l’imperatore non faceva che seguire l’esempio lasciato dai suoi maggiori. Tuttavia – e questo ci sembra un punto importante da stabilire – la relativa larghezza di vedute dei sovrani del II secolo non impedì che si registrassero esplosioni di odio e di violenza. Persecuzione sistematica non vi fu, anzi in generale i funzionari dislocati nelle province seguirono una politica di rispetto delle leggi e di resistenza alle pressioni dei fanatici; però il sangue dei martiri fu sparso in molte città dell’Impero, ed anche nella capitale. Si possono citare, ad esempio, i tumulti di Smirne, dell’anno 156, in cui caddero diverse nobili vittime, fra cui lo stesso vescovo della città, Policarpo, o le violenze a cui furono sottoposte nell’anno 177, le chiese di Lione e di Vienna, nella Gallia, «per il solo nome cristiano». Regnava allora Marco Aurelio, l’imperatore filosofo: un suo rescritto, promulgato in quell’anno, contro la diffusione di culti nuovi, fu interpretato in senso nettamente anticristiano, e tanto bastò perché il furore della plebe, esasperata da recenti pestilenze e da altre calamità, si scatenasse di nuovo. Si ebbero qua e là scoppi di fanatismo, come quello che costò la vita ai primi martiri africani, i sei fedeli di Scili in Numidia, passati a fil di spada nell’anno 180, per ordine del proconsole Saturnino. Situazione analoga si ebbe al tempo di Settimio Severo: l’imperatore, personalmente, era piuttosto favorevole alla nuova religione: teneva in casa un medico cristiano, fece educare il figlio Alessandro da una nutrice cristiana, ebbe persino, pubblicamente, delle parole di elogio per uomini e donne dell’alta società romana, che facevano aperta professione della loro fede. Tuttavia i decreti e le misure di polizia già esistenti seguitavano ad avere corso nelle province, e inoltre bastò che l’imperatore, durante il suo viaggio in Siria e Palestina, emanasse ordini contro una ulteriore propaganda giudaica e cristiana, perché riprendessero le persecuzioni. La pace fu ristabilita sotto i suoi successori: Caracalla, Macrino, Eliogabalo, Alessandro Severo, strani e complessi personaggi, molto più simili a monarchi di tipo orientale che a “primi cittadini” del modello di Augusto o di Traiano. Di Alessandro Severo si dice addirittura che tenesse nel suo ufficio le immagini di Abramo e di Gesù Cristo, insieme a quelle di Orfeo e di Apollonio di Tiana. È intorno alla metà del III secolo che la polemica anticristiana muta aspetto e metodi. Alle occasionali manifestazioni d’intolleranza, originate per lo più da risentimenti popolari o da male inteso zelo di magistrati, si sostituiscono le persecuzioni sistematiche, volute dagli imperatori e codificate in successivi editti. La violenza e il sopruso vengono legalizzati: il «conquirendi non sunt» (non si devono ricercare) di Traiano cede il posto al «conquirendi sunt» di Decio, di Valeriano, di Aureliano; e in determinati periodi la caccia all’uomo si scatena dall’Oriente all’Occidente. Decio (249-251) apre la serie dei sanguinosi editti. È un fanatico della peggiore specie, salito al trono subito dopo la celebrazione dell’anno millesimo di Roma, e deciso a restaurare l’antica religione ufficiale, strettamente connessa alle fortune dello Stato. Un suo detto favorito è che preferirebbe la presenza di un competitore nell’Impero, a quella di un Vescovo in Roma. II suo editto, promulgato nel 249 o all’inizio dell’anno 250, impone a tutti i cittadini il dovere di sacrificare agli dei. Un “libello”, o attestato, viene rilasciato a coloro che accettano di dimostrare così la propria ortodossia: i renitenti sono passibili anche della pena capitale. La questione del libello ci apre uno spiraglio interessante sulla società cristiana dell’epoca. Non tutti coloro che furono messi alla prova si sentirono pronti ad affrontare il martirio. Le testimonianze dell’epoca parlano, con dolore, anche dei lapsi, ossia dei fratelli “caduti” (letteralmente: scivolati, sdrucciolati ). San Cipriano li divide in thurificati e sacrificati, a seconda del genere di omaggio a cui si erano prestati davanti alle autorità: o sacrificio di animali in onore degli dei, o semplice offerta d’incenso. In una categoria a parte stavano i libellatici, veri eroi del doppio giuoco, i quali per moneta sonante riuscivano a procurarsi un falso libello, attestante un sacrificio, che in realtà non avevano mai fatto, e così vivevano tranquilli. Di queste «dichiarazioni» sussistono ancor oggi una quarantina di esemplari, redatti su carta di papiro in lingua greca. Eccone uno: «Alla commissione del villaggio di Alexandro Nesos, eletta per sorvegliare i sacrifici. Istanza di Aurelio Diogene, figlio di Satabo, originario del villaggio di Alexandro Nesos, di circa 72 anni, con una cicatrice sul sopracciglio destro. Io non soltanto sono sempre stato devoto agli dei, ma anche ora in vostra presenza, secondo l’editto, ho incensato l’altare, ho fatto la libazione e ho mangiato la carne sacra; perciò vi prego di darmi la vostra firma». Segue l’autenticazione da parte del magistrato del villaggio: «Io Aurelio Siro ho registrato Diogene come sacrificante con noi. L’anno primo dell’Imperatore Cesare Caio Messio Quinto Traiano Decio Pio Felice Augusto, il due del mese di epifi (26 giugno 250)». L’eventuale riammissione dei lapsi nella società dei fedeli avveniva solo dopo dure penitenze ed era regolata da una comprensibile circospezione. Non si deve pensare, però, che la Chiesa spingesse deliberatamente i suoi membri alla conquista del martirio. Appare singolarmente illuminante a questo proposito la parola di S. Gregorio Nazianzeno: «È una temerità offrirsi, è una viltà rifiutarsi». In altri termini, non era per niente incoraggiata la generosa follia di quanti (per lo più giovani o ragazzi) andavano volontariamente in cerca dei persecutori, quasi per sete di martirio. Comunque, ogni forma di prudenza era ammessa, purché non equivalesse a una sconfessione della propria fede. Si sa di fedeli, che nell’infuriare delle persecuzioni si salvarono dandosi, per così dire, alla macchia: lasciavano le città, sparivano dalla loro cerchia, si ritiravano in luoghi impervi e selvaggi, sui monti, nei deserti. Alcuni sostengono che i primi gruppi di anacoreti nella Tebaide si formarono, per l’appunto, in epoca di feroci repressioni anticristiane. Si poteva ricorrere al denaro per tacitare gli accusatori. Alcune comunità pagavano regolarmente una specie di tassa, per essere lasciate in pace: era un ottimo sistema, vista la venalità di molti funzionari. Si dava anche il caso di magistrati pagani, ai quali ripugnava francamente fare del proprio ufficio l’anticamera del carnefice, e che di loro iniziativa si adoperavano per salvare gli imputati. Rimase celebre il nome del proconsole Cincio Severo, distaccato in Africa ai tempi di Commodo, il quale arrivava a suggerire le risposte ai cittadini tradotti al suo cospetto come rei di cristianesimo.
Anche se simili esempi di clemenza erano ovviamente rari, i rappresentanti di Roma in nessun caso si assumevano la responsabilità di misure contro i cristiani che non fossero motivate da un ordine superiore (gli editti imperiali) o da una denuncia privata, purché non anonima. L’arresto avveniva per mezzo di soldati, che a volte minacciavano i familiari dell’indiziato, o torturavano gli schiavi, per sapere dove si nascondesse. Così avvenne nel caso del vescovo di Smirne, Policarpo, il cui rifugio in campagna fu indicato da uno dei suoi servi per sfuggire ai tormenti. L’arrestato in attesa di processo non sempre era rinchiuso nelle prigioni di Stato: esisteva anche la cosidetta custodia libera, o privata, ossia lo stato di arresto e di sorveglianza in una casa qualsiasi, dove era possibile anche ricevere delle visite. Vi era pure la custodia militaris, che comportava le catene – almeno ai piedi – ed era affidata alla sorveglianza di un soldato. Il processo poteva farsi attendere parecchio tempo (due anni, nel caso di san Paolo) ma normalmente era più sollecito, e talvolta anche immediato. Giudice ordinario, per la città di Roma, era il prefetto; nelle provincie senatoriali (le più interne, e solitamente pacifiche) tenevano questo ufficio i proconsoli; nelle provincie imperiali – territori di frontiera, esposti all’urto dei barbari – esso toccava ai legati, i luogotenenti dell’imperatore. Proconsoli e prefetti – ve ne era uno anche in Egitto – vestivano anche in tribunale la bianca toga, che era l’abito civile del cittadino romano; i legati imperiali invece erano in tenuta militare. Il giudice prendeva posto nel mezzo di un palco di tavole, collocate a semicerchio, con gradini per accedervi: a destra e a sinistra sedevano cancellieri, banditori, notai e soldati. Il pubblico era ammesso a seguire il dibattito, e non di rado interveniva, manifestando rumorosamente la propria opinione. L’accusato, di solito, non aveva difensori, nemmeno d’ufficio. Questa norma ebbe talvolta delle eccezioni: dagli Atti dei martiri di Abitina apprendiamo che un certo Fortunaziano, di professione avvocato, cercò di difendere in tribunale sua sorella Vittoria, accusata di Cristianesimo, facendola passare per malata di mente. Poche domande e sempre le stesse (nome, età, genitori, patria, condizione, mestiere) servivano da introduzione al processo. Poi veniva l’interrogazione decisiva: “Sei cristiano?”. Se l’accusato ammetteva di esserlo, il giudice passava alle solite ingiunzioni che, se obbedite, equivalevano a una rinuncia alle nuove credenze, a un ritorno all’ortodossia pagana: «Sacrifica agli dei. Maledici il nome di Gesù Cristo. Giura per il nostro Augusto Imperatore». Nelle relazioni dell’epoca sul martirio di questo o di quel Santo, imposizioni del genere ricorrono costantemente. Davanti al rifiuto dell’accusato, il giudice, prima di passare alle misure di rigore, tentava il metodo della persuasione. Un altro espediente dei giudici, prima di passare all’applicazione dei rigori della legge, era talvolta quello di accordare una proroga, perché l’accusato avesse tempo di riflettere e modificare la sua decisione. In questo caso veniva ricondotto in carcere. Se invece non veniva accordata una proroga all’accusato, o se questa era già trascorsa senza indurlo a mutare propositi, il giudice dopo l’interrogatorio passava ai tormenti, sempre sperando che, dove le parole fallivano, almeno le battiture servissero a qualcosa. Per i cittadini romani si usavano le verghe: per gli schiavi e gli stranieri i flagelli. La sentenza suonava brevissima: «Ad bestias dari placet», «Gladio animadverti placet», «Suffigi placet»: sia esposto alle belve, sia ucciso con la spada, sia appiccato o crocefisso. Quest’ultimo supplizio, la croce, che Cicerone definisce «crudelissimo e spaventoso», era quello tradizionalmente riservato agli schiavi e ai peggiori malfattori. I Giudei non lo avevano (l’esecuzione di Gesù, giova ricordarlo, fu opera dell’autorità romana); era in uso invece presso i Persiani, gli Egizi, i Cartaginesi. Dopo la ricapitolazione delle accuse e la lettura della sentenza, questa era passata sull’araldo per la proclamazione. Il condannato poi veniva condotto sul luogo del supplizio direttamente, da un gruppo di guardie e di littori, a meno che qualche motivo particolare imponesse di attendere, come avveniva nel caso della gente destinata ad esser data in pasto alle belve. Sant’Ignazio, vescovo di Antiochia, condannato ad bestias ai tempi di Traìano, fu condotto dalla Siria a Roma per essere esposto, con altri compagni, agli animali feroci nell’anfiteatro. Durante il viaggio verso il martirio scrisse ben sette lettere, in cui, con ammirevole fermezza, accennava alla sua fine imminente: «Lasciatemi divenire pasto delle belve, per il cui mezzo mi sarà dato di giungere sino a Dio. Io sono il frumento di Dio, e macinato dai denti delle fiere, perché possa divenire il pane immacolato del Cristo».
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