SE ANCHE DAVIS,
RIFERIMENTO DELLA CULTURA UFFICIALE,
SMANTELLA LA CULTURA UFFICIALE…
Gennaro De Crescenzo
Regno delle Due Sicilie, Nord e Sud, industrie, primati, 1799, 1848, Croce: avevano ragione i Neoborbonici.
“Quoque tu, Davis? Anche tu,
Davis?
Proprio John Davis (Storia
italiana ed europea all’Università
del Connecticut), uno degli storici più accreditati nel mondo accademico
italiano e tra gli intellettuali “ufficiali”, ha fatto quello che dovrebbero
fare tutti gli storici veri e cioè ha continuato e aggiornato le sue vecchie
ricerche, ha rivisto molte delle sue posizioni e ha scritto.
Solo che tutto questo avviene
in un libro ("Naples and Napoleon: Southern Italy and the European
Revolutions, 1780-1860") del 2006 tradotto “solo” dopo 8 anni e appena
pubblicato dalla Rubbettino (Napoli e Napoleone, L'Italia meridionale e le rivoluzioni
europee 1780-1860).
Nel frattempo solo silenzio,
un lungo silenzio da parte dei colleghi italiani di Davis e dei media fino a
quando Gigi Di Fiore, autore di controstorie numerose e di grande successo
sempre a proposito di “risorgimento” (1) su Il Mattino del 2/9/14 ha rotto
questo silenzio con una puntuale e chiarissima recensione del testo.
Nessuno di noi ha mai
ipotizzato complotti degli accademici riuniti nelle caverne alla luce di fumose
candele ma il complotto esiste di fatto quando gli stessi accademici evitano di
pubblicare o di tradurre certi libri, evitano i dibattiti che certi libri
provocano ed evitano magari pure di pubblicizzarli sui media locali e nazionali
presso i quali sono spesso essi stessi recensori e/o opinionisti.
E’, in fondo, quello che è
capitato ai vari Daniele, Malanima Ciccarelli, Fenoaltea, Tanzi, Collet (2) o
al prof. Eugenio Di Rienzo (La Sapienza di Roma) con il suo documentatissimo
libro sugli interessi inglesi verso le Due Sicilie (3) o al prof. Luigi De Matteo (Istituto Universitario Orientale di Napoli) con i suoi
numerosi saggi e il suo ultimo libro (4) in cui si evidenziano i danni derivati
dall’unificazione e si dimostra che l’economia del Sud preunitario seguiva un
suo coerente e spesso efficace progetto di sviluppo.
Più facile, allora, rifugiarsi
nell’attacco ai Neoborbonici o magari a Pino Aprile e al suo best-seller
“Terroni”, punto di riferimento del neo-meridionalismo e bersaglio preferito
negli ultimi anni: tutti “storici senza patente” che però hanno avuto il merito
oggettivo di costringere quegli accademici a dibattiti, a ricerche e
pubblicazioni che non avevano e non avrebbero mai concesso, come dimostrano gli
ultimi (appena appena) 130-140 anni di storiografia piatta e omologata.
Qualche esempio? Il medievista
Barbero prestato alla storia risorgimentale che avrebbe voluto smantellare il
mito negativo di Fenestrelle e della deportazione dei soldati delle Due Sicilie
al Nord (5) o la prof.ssa Renata De Lorenzo che avrebbe voluto smantellare i
miti Neoborbonici (6), entrambi smentiti, documenti alla mano -se mi fate
passare questo piccola auto-recensione- nel mio ultimo libro (senza repliche,
finora), Il Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle (7).
Pronti, invece, gli stessi
accademici, ad amplificare oltre ogni misura e oltre ogni merito oggettivo, le
ricerche di chi, senza alcun contributo innovativo e smentito da molte delle
sue stesse fonti, si omologava alla vulgata ufficiale (su tutti il testo di E.
Felice sulle motivazioni per le quali il Sud sarebbe arretrato (8), le stesse
che Davis smentisce categoricamente).
E via con paginate intere e
senza diritto di replica e, come ricorda Di Fiore sul Mattino, con migliaia di
righe spese a polemizzare su “sudisti”, borbonici o antiborbonici…
La stessa postfazione del
testo di Davis appena pubblicato, polemizzando proprio contro “revisionisti” o
“nostalgici”, dimostra essa stessa l’importanza di quella pubblicistica così
superficialmente condannata dai soliti censori.
Curioso, poi, che l’autore
della postfazione sia lo stesso traduttore esperto, oltre che di lingua
inglese, di religiosità e di santi: una post-fazione molto “post-faziosa”,
carica di molti spunti contro le stesse tesi di Davis e di una polemica del
tutto fuori contesto (Davis l’avrà letta?) contro le “farsesche” diatribe tra
“sudismi e nordismi”, contro i “revisionismi inventati” (altro che inventati:
bastava leggere meglio il testo tradotto…).
“Chiunque scriva su
questo periodo -afferma giustamente, invece, Davis- deve molto ai sempre più
numerosi dibattiti e ricerche che si sono sviluppati intorno al Mezzogiorno preunitario negli ultimi decenni”.
Ma quali sono le tesi al
centro del libro e che dovrebbero costringere molti storici (e ammiratori di
Davis) a fare parecchi passi indietro?
Prima di tutto la tesi
dell’arretratezza delle Due Sicilie, una tesi infondata, per Davis, e inventata
ad arte da chi fu artefice (Benedetto Croce in primis) del processo unitario
per giustificare prima di tutto se stesso dei fallimenti di quel progetto e le
sue conseguenze più drammatiche, in testa i massacri dei cosiddetti “briganti”
(che “briganti” non erano neanche per Davis), l’emigrazione inarrestabile, le
questioni meridionali sempre più drammatiche…
“A Sud negli anni
immediatamente seguenti all’unificazione c’erano state pesanti tensioni che le
autorità avevano tentato di minimizzare definendoli meri atti di brigantaggio.
In ogni caso, per sopprimere
il fenomeno, fu necessaria un’azione militare nella quale persero la vita più
uomini di quanti ne erano caduti durante tutte le guerre di Indipendenza.
Negli anni Novanta […] le
disparità tra le due Italie demolivano apertamente l’idea del Risorgimento come
momento di coesione per la popolazione italiana: la successiva emigrazione di
massa che riguardò in un primo momento migliaia e poi milioni di meridionali
costretti ad abbandonare le loro case in cerca di un lavoro e di vita migliori
al di là dell’Atlantico suscitò timori ancora più consistenti […]
Per contrastare questi funesti
presentimenti era necessario trovare nuove vie per difendere il Risorgimento e
riaffermare l’unità nazionale senza imputare alla nuova Italia soprattutto a loro stessi che ne erano stati e ne erano gli artefici e
[così come gli intellettuali ufficiali -loro eredi culturali o genetici- continuano
a fare] le responsabilità delle condizioni del Sud.
Si cominciò a riscrivere la
nuova storia andando a ritroso e si difese la forza creativa del Risorgimento
sostenendo che la ‘questione meridionale’ era un’eredità del passato.
Il principale artefice di
questo schema interpretativo fu uno dei più accreditati esponenti della cultura
risorgimentale, il filoso e storico napoletano Benedetto Croce.
Croce sostenne che secoli di
malgoverno straniero e spoliazioni avevano trasformato il Sud in un ‘paradiso
abitato da diavoli’”…
Prevale così negli anni
l’immagine di un Sud “premoderno” ma “questa idea -sostiene sempre Davis- ha
portato le ricostruzioni successive ad allontanarsi sempre più della realtà
evidenziando differenze che non avevano riscontri nella realtà”.
Non si spiegherebbe così,
allora, come sia possibile che “i livelli di produttività del Meridione
rimangono tra i più bassi del continente, le infrastrutture economiche e
sociali sono povere” mentre continuano a imperversare criminalità organizzata e
corruzione di classe dirigente… “Non si può neanche sostenere che le condizioni
economiche e sociali del Sud fossero peggiori del resto d’Italia all’epoca
dell’unificazione”: l’Italia tutta, infatti, era più povera di altri Paesi
europei.
Del resto questa è stata da
sempre una tesi “neoborbonica”: ci interessava e ci interessa dimostrare non la
grandezza del Regno delle Due Sicilie -comunque competitivo in molti settori e
potenzialmente in grande crescita- in rapporto all’Europa e al mondo, ma proprio
le condizioni di partenza uguali o superiori a quelle del resto dell’Italia, a
totale differenza di quanto sarebbe accaduto dopo l’unificazione e fino ad
oggi.
E Davis, infatti, aggiunge:
“nel 1860 le differenze economiche tra il Nord e il Sud erano di gran lunga
inferiori a quelle che ci sarebbero state 40 anni più tardi quando lo stato
italiano smantellò le barriere protettive che avevano portato allo sviluppo
delle industrie tessili, di ingegneria e di edilizia navale meridionali… nello
stesso anno 1860 i numeri dell’industria erano migliori al Sud che in qualsiasi
altra parte della penisola” [e alla fine degli anni ’90, uno “storico senza
patente” e anche un po’ neoborbonico, tale De Crescenzo, per uno dei suoi primi
libri editi da una coraggiosa casa editrice locale, aveva contato tra i
documenti dell’Archivio di Stato di Napoli oltre 5000 fabbriche solo nel Sud
continentale…] (9).
“Astratta, antistorica e di
stampo ottocentesco”, allora, la dicotomia sistematicamente evidenziata da
Croce in poi tra arretratezza del Sud e modernità del Nord, una ideologia che
non tiene conto, per Davis, delle specificità dei territori e che ha fortemente
condizionato la storia di tutta l’Italia.
In quanto al famoso 1848, ai
“liberali” e ai loro difensori, premesso che anche negli altri paesi europei i
moti furono repressi “con le stesse modalità di quelle adottate dai Borbone”,
premesso che in gran parte i “rivoluzionari” erano latifondisti “alla ricerca
di potere politico” (oltre che economico), è chiaro e netto il giudizio sul
famoso Gladstone e la sua (falsa) affermazione in merito alla “negazione di Dio”: l’Inghilterra condizionò il giudizio sui
Borbone per interessi commerciali legati in particolare alla guerra degli zolfi
oltre che politici.
Lo stesso Gladstone era stato
portavoce nella Camera dei Comuni per i mercanti inglesi di zolfo e, tra
l’altro, in precedenza aveva scritto un resoconto più che positivo delle Due
Sicilie…
Facendo un salto indietro nel
tempo, Davis, poi, smantella anche un altro dei miti fondamentali della cultura
ufficiale: le invasioni francesi del 1799 e del 1806 da ricondurre
semplicemente nel piano di espansione imperiale francese: “Il decennio
napoleonico fu una fase critica per il Mezzogiorno ma lo fu anche per la storia
italiana ed europea”.
“Nella ricostruzione proposta
un secolo dopo gli eventi fu Croce a trasformare la Repubblica Napoletana del
1799 in uno dei miti fondativi del nuovo Stato italiano” seguito “passivamente”
(le rivoluzioni “passive”…) e negli anni da numerosi esponenti della
“intellighentia” locale fino a quell’Istituto per gli Studi Filosofici che, con
consistenti e trentennali finanziamenti pubblici, ne ha fatto la sua unilaterale bandiera e che, paradossalmente, ha
finanziato la stessa traduzione di cui stiamo parlando forse senza entrare nel
dettaglio dei contenuti.
Da un lato, allora, “i primi
martiri della nuova Italia”, dall’altro le “masse brute e ignoranti”, da un
lato il clero e la corte dall’altro una “minoranza progressista” in un’altra
dannosa dicotomia di stampo quasi razzista che ancora oggi si vive nella
società napoletana.
In realtà anche questa fu una
vera e propria invenzione storiografica perché “il Sud pagò un conto
salatissimo alla causa imperiale non solo in termini di tributi finanziari e
vite umane ma anche sopportando il peso di persistenti agitazioni e disordini”.
Da anni i Neoborbonici si
battono per ridimensionare i periodi francesi a Napoli evidenziandone, tra
l’altro, uno degli aspetti evidenziati da Davis e del tutto trascurato dalla
storiografia e cioè il costo di vite umane: oltre 60.000 nel 1799 e oltre
50.000 nel 1806 le vittime di parte napoletana-cristiana-borbonica, come
riportano le cronache dei generali francesi (10).
Le stesse (celebratissime)
riforme francesi, per Davis, “partirono dal basso” e non furono il frutto di
chi (semplicemente “esperto di annessioni”) era stato inviato al Sud:
l’immagine di un Regno “immobile e resistente al cambiamento” in periodo
pre-napoleonico, allora, “comincia a disintegrarsi e scopriamo, invece, una
società, una economia, un sistema politico pienamente coinvolti nel processo di
trasformazione che stava cominciando a minare le basi dell’antico regime negli
altri stati europei… La complessità di questo panorama non è facilmente
conciliabile con l’immagine di rivoluzione passiva che si affermò più tardi ma
lascia piuttosto pensare ad un Sud che aveva intrapreso un itinerario di
sviluppo simile e per certi addirittura avanzato rispetto a quello negli altri
stati italiani”.
E questo è confermato dalla politica
di integrazione da parte dei Borbone delle riforme francesi anche più che negli
altri stati.
In conclusione “i problemi del
Sud odierno sembrano, in definitiva, direttamente riconducibili alle
conseguenze del problematico inserimento di quest’area dello Stato italiano, piuttosto che ad una vaga e talvolta indefinibile
nozione di arretratezza”.
Il tutto, aggiungiamo noi, con
buona pace di storici ufficiali più o meno giovani con due esempi: Felice per
la prima categoria e Galasso per la seconda, entrambi estimatori del Davis.
Se qualche nostro lettore
volesse aggiornarli, lo preghiamo di farlo con calma e senza esagerare nei
toni… soprattutto quando ricorderete al prof. Galasso, simbolo vivente della
cultura (e della politica) ufficiale napoletana, pluri-citatore del “vecchio”
Davis (11), questa
sua affermazione ripresa in blocco dai suoi seguaci anche più giovani e
ciclicamente pubblicizzata come un grande e nuovo scoop: “Il minore sviluppo
del Mezzogiorno dopo l’unificazione ha avuto le sue radici nelle condizioni
preunitarie del Mezzogiorno stesso e in un suo già sussistente divario rispetto
al Nord” (12).
Consentiteci, però, di
chiudere queste riflessioni con una riflessione pubblicata diversi anni fa sia
perché alcune delle tesi in essa riassunte sono molto simili a quelle che
Davis, anche senza aver letto i miei libri, riporta nel suo testo, sia perché
sintetizzano i veri obiettivi Neoborbonici, obiettivi del tutto diversi da
quelli che censori di parte e superficiali ogni tanto ci attribuiscono…
“Tutti colpevoli, allora, gli
storici, meridionalisti di ieri e di oggi, che per decenni hanno inseguito
questa o quella tesi, questa o quella interpretazione quasi sempre legata ad
una subalternità culturale che li portava a criminalizzare o ignorare la storia
del Sud pre-unitario dei Borbone fino addirittura a riferire i problemi dello
stesso Sud all’epoca medioevale o a epoche quasi preistoriche.
Meglio, per loro, accettare la
tesi dei meridionali inferiori magari geneticamente piuttosto che dare le colpe
dei problemi meridionali a quella che fu una pura e semplice colonizzazione. Le
classi dirigenti meridionali, del resto, non potevano che essere subalterne
alle scelte politiche centro-settentrionali per restare classi dirigenti e
tramandarsi cariche politiche, cattedre universitarie o ruoli di intellettuali
‘ufficiali’. Subito dopo il 1860 furono licenziati gli impiegati delle ferrovie
giudicati dalla Polizia del tempo ‘reazionari’ o ‘borbonici’.
Inutile dire come furono
scelti i docenti, i giornalisti o gli stessi politici e che possibilità avevano
di affermare la verità storica e rivendicare le proprie ragioni.
Tutti colpevoli di non
scrivere, dire o gridare la verità di migliaia di meridionali massacrati,
chiamati ‘briganti’ e cancellati dalla storia proprio in quegli anni.
Tutti colpevoli di non aver
fatto nulla o addirittura (spesso) di avere indicato l’emigrazione come unico
rimedio possibile per risolvere ‘gli atavici problemi del Sud’ negli stessi
anni, dall’alto delle loro cattedre o dei balconi delle ville a Posillipo.
Impegnati in dibattiti sereni
e distaccati e nell’elaborazione delle loro astratte tesi, lontani dal popolo
che avrebbero dovuto rappresentare, contro quello stesso popolo, ignoravano
colpevolmente le due più grandi tragedie che la storia d’Italia possa
ricordare: quella del ‘brigantaggio’ e quella ancora attuale dell’emigrazione.
L’unica strada che possiamo
percorrere ‘risarcire’
i nostri antenati morti o partiti in questo secolo e mezzo è proprio quella
della verità storica.
Nell’attesa di classi
dirigenti finalmente fiere e orgogliose e degne di rappresentare il Sud di
domani”(13).
Gennaro De Crescenzo
NOTE
1) Tra gli altri: Gigi Di
Fiore, I vinti del Risorgimento, UTET, Torino, 2004; La camorra e le sue storie, UTET, Torino, 2005; Controstoria dell’Unità
d’Italia. Fatti e
misfatti del Risorgimento, Rizzoli, Milano, 2010]
2) Cfr. in particolare Carlo
Ciccarelli e Stefano Fenoaltea, “Attraverso la lente d’ingrandimento: aspetti
provinciali della crescita industriale nell’Italia postunitaria”, in Quaderni
di Storia Economica (Economic History Working Papers), n.4, luglio 2010, Banca
d’Italia, Roma, 2010; Stephanie Collet, A Unified Italy? - Sovereign Debt and
Investor Scepticism, Université Libre de Bruxelles (ULB), March 15, 2012;
Vittorio Daniele, Paolo Malanima, “Il prodotto delle regioni e il divario
Nord-Sud in Italia (1861-2004)”, in Rivista di Politica Economica,
Marzo-Aprile, UMG, Catanzaro 2007; Vito Tanzi, Italica. Costi e conseguenze
dell’unificazione italiana, Grantorino Libri, Torino, 2012]
3) Eugenio Di Rienzo, Il Regno
delle Due Sicilie e le potenze europee, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012
4) Luigi De Matteo, Una
''economia alle strette'' nel Mediterraneo - Modelli di sviluppo, imprese e
imprenditori a Napoli e nel Mezzogiorno nell'Ottocento, ESI, Napoli, 2014. Tra
i numerosi saggi di cui De Matteo è autore si segnala, in particolare, a
proposito del significativo successo mediologico attribuito al recente libro di
E. Felice “Il ritardo del Mezzogiorno dai Borbone a oggi. Un recente volume, i
rituali politico-cultural-mediatici del nostro tempo”; in Storia Economica
2/2013, ESI, Napoli
5) Alessandro Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della
congiura di Fenestrelle, Laterza, Bari, 2012
6) Renata De Lorenzo, Borbonia
felix. Il Regno delle Due Sicilie alla vigilia del crollo, Editori Salerno,
prefazione di Alessandro Barbero, Roma, 2013
7) Gennaro De Crescenzo, Il
Sud dalla Borbonia felix al carcere di Fenestrelle. Perché non sempre la storia
è come ce la raccontano, Magenese, Milano, 2014
8) Emanuele Felice, Perché il
Sud è rimasto indietro, Il Mulino, Bologna, 2013
9) Gennaro De Crescenzo, Le
industrie del Regno di Napoli, Grimaldi, Napoli, 2002
10) ) Cfr. Memoires de General
P. Thiebault par F. Calmettes, VI ed., Villette, Paris, 1894; G. De Crescenzo,
L’altro 1799. I fatti, Tempo Lungo, Napoli, 1999; A. Boccia, Massaco a Lauria.
La resistenza antigiacobina in Basilicata (1799-1806), Il Giglio, Napoli, 2006
11) Il testo senza dubbio più
citato di Davis (con le tesi vecchie ormai superate dalle sue nuove tesi) è
Società e imprenditori nel regno borbonico, Laterza, Roma-Bari, 1979
12) Giuseppe Galasso, Storia
del Regno di
Napoli (volumi 5), Utet, Torino, 2007, vol. VI, pp. 597-598
13) Gennaro De Crescenzo,
Ferdinando II di Borbone, Editoriale Il Giglio, Napoli, 2009
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