Marcello Veneziani
Sapete chi era Beppe Niccolai?
Era un politico ma galantuomo, era un missino ma eretico, che sognava di ricucire la ferita storica tra fascisti e comunisti e di combattere insieme contro la mafia e il potere democristiano, i potentati economici e la servitù americana.
Uno così chi può ricordarlo oggi?
Nessuno, né a destra né a sinistra e nemmeno al centro, tra gli antifascisti o tra i moderati. Non si può ricordare uno spirito trasversale in epoca di bipolarismo marziale.
Ma proprio per questo Beppe merita di essere raccontato, come un limpido marziano che visse nell’era ideologica integrale, il Novecento, assorbendo le sue passioni ma non i suoi livori.
Niccolai morì a Pisa (dove era nato il 26 novembre del ’20) il 31 ottobre di vent’anni fa, ovvero nove giorni prima che cambiasse il mondo, col Muro crollato e poi la caduta del comunismo, e da noi la fine del neofascismo e della Prima Repubblica. Per il ventennale un convegno con molti testimoni non politici è stato dedicato a lui sabato scorso a Montecosaro.
Quando morì, Niccolai lasciò un vuoto, ma era lo stesso vuoto che lo circondava quando era in vita. Beppe dissentiva da Almirante, e spesso era all’opposizione nell’opposizione, distante pure da Rauti. L’avevano sistemato in una teca, con l’etichetta di coscienza critica, amato e accantonato.
Niccolai era pisano e perciò destinato, secondo Dante, al ruolo di vituperio delle genti.
Vituperio forse lo fu sul piano delle idee provocatorie; ma a conoscerlo era amabile e perfino fragile, tutt’altro che un fascistone prepotente con le certezze granitiche, in bianco e nero.
Però fascista lo era stato davvero, volontario in Africa, e poi prigioniero degli americani nel Fascists’ Criminal Camp ad Hereford, per fedeltà al suo fascismo.
Per dirvi del suo spirito eretico ve ne racconto alcune. A Pisa fu l’antagonista storico di Adriano Sofri, che mobilitò Lotta continua per impedire un suo comizio il 5 maggio del ’72. Negli scontri con la polizia morì un anarchico, Serantini, e anche per vendicarlo pochi giorni dopo fu ucciso Calabresi.
Ma Niccolai difese il suo «nemico» Sofri quando fu accusato dell’omicidio del commissario. Oppure, quando era parlamentare fece memorabili interventi in commissione Antimafia contro le collusioni politiche, soprattutto democristiane, e fu elogiato anche da Leonardo Sciascia, allora parlamentare del Pci.
Oppure quando denunciò le stragi e le responsabilità dei servizi segreti; o quando riuscì a scucire la verità ai magistrati veneziani su un aereo Argo 16 della nostra aeronautica militare abbattuto dagli israeliani nel novembre del ’73 a Venezia uccidendo i militari italiani a bordo, perché aveva portato in salvo alcuni terroristi arabi sorpresi a Fiumicino a preparare un attentato a un aereo di linea israeliano. Un’operazione filoaraba condotta dall’allora ministro degli Esteri Aldo Moro.
O ancora, quando fu espulso dal Msi: fu il primo atto compiuto da Fini leader.
Beppe aveva fatto votare nell’88 alla direzione del Msi un ordine del giorno contro i potentati economici che aveva ripreso da un comitato centrale del Pci: Fini aderì convinto con il suo partito. Poi Niccolai raccontò al Corriere della Sera la beffarda verità, e Fini lo cacciò, perché all’epoca aveva orrore delle contaminazioni con la sinistra; fu poi riammesso grazie ai buoni uffici di Tatarella ed altri. Ma il suo scopo non era goliardico, non voleva prendere in giro il suo partito, ma dimostrare che i pregiudizi ideologici impediscono a volte convergenze su temi condivisi.
Conobbi Niccolai perché era in possesso di appunti inediti di Berto Ricci, fascista eretico dalla mente lucida e il cuore puro, che in parte pubblicai con la prefazione di Indro Montanelli.
Ricordo una sera a Pisa, in una scalcagnata «500» guidata da un militante di Cecina, tale Altero Matteoli, ora ministro. Nel sedile posteriore, in condizioni disumane, sedevano Niccolai e Tatarella; mi avevano lasciato, benché ragazzo, il posto davanti, come si usa per cavalleria alle donne, ai disabili e agli intellettuali.
A casa sua Niccolai mi mostrò quei quaderni di Ricci che maneggiava con religiosa devozione. Ci vedemmo altre volte, accomunati dal gusto ardito dell’eresia e dalla rivoluzione conservatrice, da amici comuni come Giano Accame e Gino Benvenuti, dalla passione per i libri forse per contagio paterno, essendo ambedue figli di presidi di liceo, cresciuti con una buona biblioteca in casa.
Quando fui silurato dalla direzione editoriale di Ciarrapico, Niccolai volle incontrarmi per solidarizzare e per raccontarmi di essere stato testimone dell’accaduto a cena con Almirante e Nino Buttafuoco; Almirante fu chiamato al telefono, poi tornò dicendo che, come aveva auspicato, ero stato estromesso perché in odore di revisionismo postfascista, nuova destra e socialismo tricolore.
Negli ultimi anni, quando le sue graffianti rubriche sul Secolo d’Italia erano state interrotte e scriveva solo sul suo foglio, L’Eco della Versilia, gli affidai una rubrica su Pagine Libere, che ribattezzammo «Rosso e Nero». L’ultima rubrica conteneva una sua grande foto e un mio necrologio della sua morte.
Beppe non era un vecchio arnese, nell’Msi era con l’ala modernizzatrice di Mennitti, voleva aprire il ghetto, dialogare con il Craxi tricolore e sognava di ricucire con la sinistra le scissioni del ’14 e del ’21.
Beppe raccontava che l’ultimo Mussolini aveva raccomandato ad alcuni suoi fedelissimi: se crolla il fascismo, aderite ai socialisti di Pietro Nenni. Beppe fu uno spirito critico e appassionato, pensante e romantico, ma impolitico.
Mi accorgo di aver raccontato di un trapassato remoto e di aver ricordato come se fossi un bacucco superstite, un grappolo di amici tutti defunti: Niccolai, Accame, Tatarella, Benvenuti. Di quella destra oggi non resta nulla; eccetto il ricordo frizzante delle eresie.
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