A seconda della convenienza la marcia su Roma viene presentata come un
colpo di stato incruento o come un tentativo di insurrezione armata. Tesi
inverosimile la prima in quanto i golpe li fanno i militari e in totale
segretezza, l’esatto contrario della marcia su Roma che fu una manifestazione
pubblica e ampiamente propagandata; versione fantasiosa la seconda: non fu
sparato un solo colpo e versata una sola goccia di sangue. In quei giorni la
vita a Roma, come nel resto d’Italia, proseguì nella totale normalità e
indifferenza. Le fabbriche, le scuole, i negozi e gli uffici pubblici rimasero
aperti. L’occupazione fascista di alcune Prefetture furono dei semplici atti
simbolici che non impedirono al personale di proseguire nella loro attività,
inoltre sarebbero bastate quattro
fucilate dell’esercito (la capitale era difesa da 28.000 soldati) per disperdere
i pericolosi sovversivi “armati” di manganelli e qualche schioppo residuato
bellico.
In realtà, nonostante la sua successiva mitizzazione, la “marcia” fu
essenzialmente una parata che, come vedremo, non influì minimamente sulle sorti
politiche dell’Italia.
Con questa prova di forza Mussolini voleva semplicemente accelerare i
tempi per ottenere la guida del Paese. Mentre organizzava le due grandi
manifestazioni di piazza, quella di Napoli del 24 ottobre e quella che sarebbe
passata alla storia come la Marcia su Roma del successivo 28 ottobre, il futuro
Duce trattava con i partiti dell’area governativa per costituire un governo di
coalizione. Quando due giorni dopo, il 30 ottobre del 1922, il Re gli conferì
l’incarico la lista dei Ministri era già pronta, di questa compagine i fascisti erano solo tre.
Vi erano rappresentate tutte le forze parlamentari, eccetto socialisti e
comunisti. In pratica fu un governo che oggi definiremmo di larghe
intese.
Senza il sostegno dei partiti cattolici e liberaldemocratici, da quello
popolare vicino al Vaticano a quello liberale di Giolitti e Salandra, con appena
35 deputati, Mussolini non sarebbe mai andato al potere. Il 16 Novembre si
presentò al Parlamento dove ottenne alla Camera una larghissima maggioranza (306
voti favorevoli, 116 contrari e 7 astenuti). Schiacciante fu la fiducia ottenuta
al Senato dove i voti contrarti furono solo 19.
In Parlamento Mussolini incassò la piena fiducia di personalità politiche
di grande rilievo come i futuri presidenti della Repubblica Enrico De Nicola e
Giovanni Gronchi (che entrò nel governo come sottosegretario all’industria e al
commercio). Figuravano anche nomi importanti del panorama politico italiano come
quello di Alcide De Gasperi,
futuro Presidente del Consiglio nell’immediato dopoguerra, e dei precedenti capi
del Governo Giolitti, Salandra, Facta, Bonomi e Orlando. La sua nomina fu salutata con
soddisfazione da personalità del mondo culturale e accademico come Luigi
Pirandello, Guglielmo Marconi e Giuseppe Ungaretti.
Mussolini, a soli 38 anni, ottenne quindi l’incarico di formare il suo
governo non in virtù di una manifestazione di piazza, seppur massiccia e ben
organizzata, bensì in forza delle sue capacità di mediazione politica e di
coinvolgimento sociale che lo indicavano come l’unico in grado di reggere le
sorti del paese in quel difficile momento storico.
Quando Mussolini assunse il potere l’Italia era in totale disfacimento
istituzionale. I governi cadevano uno dopo l’altro per l’incapacità della classe
dirigente liberale di affrontare gli enormi problemi sociali ed economici che
affliggevano il paese. I partiti di sinistra, comunista e socialista, e le
organizzazioni sindacali sapevano solo proporre soluzioni demagogiche che
miravano a fare dell’Italia uno Stato totalitario sul modello sovietico
(“bisogna fare come in Russia”, erano soliti
dire).
Una guerra vittoriosa, ma disastrosa nelle conseguenze con i suoi 600
mila morti e 900 mila feriti e mutilati, aveva creato un voragine nei conti
dello stato, distrutto l’agricoltura e frenato l’economia ancora imperniata su
un’industria bellica che stentava a riconvertirsi.
I soldati che tornavano dal fronte, una grande massa di uomini provati
fisicamente e distrutti moralmente, senza lavoro e prospettive, venivano accolti
con ostilità e sbeffeggiati da sinistre e pacifisti.
Il drammatico contrasto fra le precarie condizioni del proletariato e dei
contadini che avevano pagato un tributo di sangue e sofferenze in trincea e il
lusso esibito dai "pescicani", i nuovi ricchi che avevano tratto enormi profitti
dalla guerra, acuì le tensioni sociali e contribuì, con l’aumento vertiginoso
del costo della vita e il ritmo galoppante dell’inflazione, a creare una miscela
esplosiva.
Il malcontento popolare infine scoppiò in forme violente che portarono
alla formazioni di vere e proprie strutture paramilitari che affiancavano
l’azione politica dei partiti, come quella comunista degli “Arditi del Popolo”.
I sindacati proclamavano scioperi e occupazioni di fabbriche a cui gli
industriali rispondevano con serrate e licenziamenti. Nelle campagne le leghe
bianche e rosse si fronteggiavano tra loro e contro gli agrari. Le
manifestazioni di piazza si concludevano spesso con scontri a fuoco con le forze
di polizia che lasciavano sul selciato decine di morti e feriti.
Le violenze fasciste, su cui la storiografia ufficiale pone grande
enfasi, vanno inquadrate in questo
contesto di guerra civile di tutti contro tutti a cui la politica del palazzo
non sapeva dare risposta. Le
manganellate e l’olio di ricino dei fascisti furono la conseguenza delle
violenze ben più sanguinose di comunisti, socialisti e repubblicani che misero a
ferro e fuoco l’Italia e alle prevaricazioni e imposizioni dei sindacati
leninisti nelle fabbriche che caratterizzarono il tristemente noto biennio rosso
(1919-1920).
L’Italia, stanca e sfiduciata, era a un passo dal baratro. Anche l’Europa
e l’America guardavano con grande apprensione al nostro paese. L’Italia era
considerata una Nazione a rischio, pericolosamente vicina ad una svolta di
stampo sovietico che avrebbe potuto estendersi al resto del Continente dove già
si stavano affermando i partiti comunisti legati a Mosca attraverso la Terza
Internazionale (Komintern). Di conseguenza quando Mussolini fu chiamato a
reggere le sorti del paese molti tirarono un sospiro di sollievo, in Italia e
all’estero.
Mussolini inoltre, elemento non trascurabile, godeva di un ampio consenso
popolare senza il quale, mai e poi mai, avrebbe potuto raggiungere il potere (se
fosse bastata una grande manifestazione di piazza condita con un po’ di violenza
per conquistare il potere chiunque l’avrebbe
fatto).
Gli storici marxisti insistono ancora oggi a presentare il Fascismo come
braccio armato del capitalismo, composto quasi esclusivamente da una minoranza
facinorosa di piccoli borghesi ed ex militari ambiziosi e frustrati. Le ricerche
di Renzo De Felice, Arrigo Petacco e Indro Montanelli, tra i più autorevoli e profondi conoscitori
del Fascismo, dimostrano invece il contrario. Quello mussoliniano fu un grande
movimento di massa nel quale affluì con entusiasmo gran parte della classe
lavoratrice attratta dal programma socialmente avanzato del movimento
mussoliniano e stanca della litigiosità dei partiti tradizionali e
dell’inconcludente sindacalismo, come dimostrato dal fatto che, in occasione
della marcia su Roma, la social comunista CGL neppure si azzardò a proclamare
uno sciopero generale certa che si sarebbe concluso con un
flop.
Ottenuto l’incarico il nuovo governo si mise subito al lavoro per
risanare i conti pubblici, riassorbire la disoccupazione, rilanciare l’economia
e gettare le basi dello Stato Sociale.
Il 1° Aprile del 1924, dopo soli
18 mesi di governo, senza imporre nuove tasse o incrementare quelle esistenti,
il Ministro delle Finanze De Stefani poté annunciare il raggiungimento del
pareggio di bilancio.
Questo importante traguardo fu raggiunto grazie ad un accorta gestione
dei conti pubblici, alla riorganizzazione dell’amministrazione statale e a un
grande piano di opere pubbliche che diede slancio all’economia con conseguente
aumento del gettito fiscale. Il controllo del governo sul sistema bancario,
posto finalmente al servizio dell’economia nazionale, e lo sganciamento dalle
perverse logiche del mercato finanziario internazionale crearono i presupposti
per quello che sarebbe diventato il boom economico degli anni trenta realizzato
esclusivamente con risorse italiane (a differenza del boom degli anni 60
avvenuto con capitali stranieri).
il 1° Ottobre del 1923, dopo appena un anno dalla sua nomina a Ministro
dell’Istruzione, il filosofo Giovanni Gentile varò la più grande, e a tutt’oggi
unica, riforma organica della scuola italiana aperta a tutti i ceti sociali
(all’epoca la scuola era esclusivamente privata o confessionale).
Il Ministro Stefano Cavazzoni del Partito Popolare predispose la riforma
sanitaria per garantire a tutti gli italiani un’assistenza pubblica e gratuita,
seguita da un vasto piano di costruzione di ospedali, ambulatori e una vasta
rete di colonie elioterapiche che permisero di sconfiggere malattie croniche
come la tubercolosi e la TBC, allora molto diffuse.
L’abolizione del lavoro minorile fu uno dei primi atti del governo
Mussolini che in pochi mesi gettò le basi di quello Stato Sociale creato negli
anni successivi (INPS, INAIL, TFR, settimana lavorativa di 40 ore, contratti
collettivi, ferie pagate, Magistratura del Lavoro, Statuto dei lavoratori,
ammortizzatori sociali, assegni famigliari, case popolari, asili nido, ecc.) per
dare dignità e sicurezza al mondo del lavoro,
una pensione a tutti gli italiani e che consentì di abbassare il costo della vita per
assorbire la riduzione dei salari a seguito della drammatica crisi economica
mondiale del ’29 che mandò in miseria tutte economie occidentali, America in
testa (lo stesso presidente Roosevelt ammise, per tentare con il suo New Deal di
superare la “grande depressione”, di essersi ispirato all’esperienza
fascista).
Con queste credenziali Mussolini e i suoi alleati di governo si
presentarono nuovamente al corpo elettorale. Alle elezione del 6 aprile del 1924
le liste sostenute dal Partito Nazionale Fascista ottennero il 66,3 per cento
dei voti validi. Il successo fu amplificato dalla nuova legge elettorale (legge
Acerbo) che diede alla coalizione governativa la maggioranza assoluta dei seggi:
374 deputati su un totale di 535.
Durante la campagna elettorale pressioni e intimidazioni da parte
fascista sicuramente ci furono, ma l’incidenza che ebbero sul risultato
elettorale, vista l’ampiezza del successo ottenuto, fu del tutto marginale. Lo
stesso Matteotti, nel suo celebre discorso alla Camera in cui si scagliò con
veemenza contro il governo, non poté citare e documentare che pochi episodi. Lo
storico Arrigo Petacco afferma al riguardo: “...in realtà, di casi di
violenza certamente ve ne furono, ma in generale tutto si era svolto nella
normalità, d’altra parte, con i brogli e le violenza non si raggiunge un
risultato così clamoroso”.
Con la sua violenza verbale, Matteotti si proponeva in realtà di scavare
un fossato incolmabile tra governo e opposizione per ostacolare un eventuale
accordo tra le parti.
Matteotti infatti non ignorava che Mussolini stava lavorando per spostare
l’asse del suo governo a sinistra. Già circolavano i nomi per un rimpasto con
ministri di area socialista: Bruno Buozzi, segretario della FIOM, ministro
tecnico; Ludovico D’Aragona della GGL al ministero del lavoro; Emilio Caldara,
ex sindaco di Milano alle Finanze; Rinaldo Rigola, altro sindacalista
socialista, ministro senza portafoglio. Numerosi socialisti, fra cui il
direttore del giornale “Lavoro” di Genova Giuseppe Canepa, erano indicati come
sottosegretari (Renzo De Felice, “Storia del Fascismo” pag. 28/29 e Arrigo
Petacco “l’Uomo della Provvidenza” pag. 70/71). Questa svolta politica era vista
come il fumo negli occhi non solo da Matteotti, ma anche dai ras fascisti più
oltranzisti come il cremonese Roberto Farinacci.
A capo di una solida e compatta maggioranza parlamentare e forte
dell’enorme consenso popolare e del prestigio internazionale di cui godeva,
Mussolini non aveva nessun interesse a far riesplodere tensioni e violenze tra
fazioni che avrebbero rigettato l’Italia nel caos, al contrario aveva tutto
l’interesse a stabilizzare e tranquillizzare il paese. I maggiori problemi non
gli venivano da una opposizione divisa e demoralizzata che ritirandosi
sull’Aventino aveva rinunciato a combattere, ma dall’interno, da quei fascisti
“puri e duri” che spingevano per la cosiddetta “seconda ondata” al fine di
abbattere la monarchia e ridimensionare il peso politico della borghesia e del
ceto industriale. Il sequestro ed il
successivo assassinio di Matteotti fu infatti opera di un terzetto squinternato
di loschi individui legati alle frange più fanatiche del fascismo estremo
guidati da Amerigo Dumini, un membro della polizia politica.
Una violentissima campagna di stampa sostenuta da una opposizione
ringalluzzita additava il Capo del Governo quale ispiratore del sequestro
Matteotti. Dopo giorni di angoscia, incerto tra l’apertura della crisi, il cui
sbocco sarebbe stato imprevedibile, e la svolta autoritaria, il 3 gennaio 1925 con il suo celebre discorso
alla Camera Mussolini, pur non essendone stato né il mandante né tanto meno
l’ispiratore (la stessa vedova Matteotti, Velia Ruffo, ne era convinta, come
pure il suo principale accusatore il giornalista Carlo Silvestri dopo aver
acquisito nuove prove e testimonianze), si assunse la responsabilità politica
dell’assassinio. Liquidata definitivamente l’opposizione rimasta spiazzata dagli
eventi, Mussolini si avviò verso il regime.
Un regime comunque blando (i crimini, su cui si pone grande risalto,
avvennero durante la guerra civile e da entrambe le parti) e basato sul consenso
popolare in virtù degli enormi successi ottenuti in campo economico, sociale e
internazionale.
Le sciagurate leggi razziali, una guerra mondiale più subita che voluta,
una tragica guerra fratricida (che ha permesso a molti ex-fascisti di
ricostruirsi una verginità politica saltando sul carro del vincitore), hanno poi
- in parte – vanificato e offuscato
quanto di buono fu realizzato in quegli anni.
Se ancora oggi, a 90 anni dalla Marcia su Roma e a dispetto della storia,
si insiste a criminalizzare il Fascismo e a sminuire i suoi meriti è perché –
diciamoci la verità - si ha paura del confronto tra i fatti del regime e le
chiacchiere dei partiti.
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