martedì 31 agosto 2010

Giorgio Pisanò: “Sangue chiama Sangue”, storie della guerra civile


Il documento che segue e’ tratto daSangue chiama sangue di Giorgio Pisanò, C.D.L. EDIZIONI s.r.l. MILANO 1994, ed è una testimonianza certa e priva di argomentazioni pregiudizievoli sulle origini e le cause della guerra civile italiana. Il tutto viene condiviso, nel nostro spazio culturale informativo, nell’opera di contribuire in qualche modo alla pacificazione di questo Paese di cui ne ha patito per decenni le conseguenze sociali in termini di scontri e morti innocenti inutili, nel desiderio vivo che ciò un giorno avvenga. Entriamo nell’intensità dei racconti per comprenderne le ansie e le inquietudini che caratterizzarono quegli eventi, ma soprattutto sottolineare chi fossero allora coloro che intendevano scatenare la guerriglia urbana e chi coscientemente voleva evitare inutili spargimenti di sangue.

wids72

=======================================================================

Chi sparò il primo colpo della guerra civile? Chi saldò i primi anelli della tragica catena di odio e di sangue che doveva trascinare gli italiani nell’orrore della guerra fratricida? La risposta balza viva e immediata dalla cronaca dei giorni e delle settimane che seguirono l’armistizio dell’8 settembre 1943. Si tratta di un periodo che giunge fino alla primavera del 1944 e che può essere considerato il “periodo di incubazione” della guerra civile. Tra la fine ottobre del 1945 e i primi di marzo del 1944 la cronaca registra infatti una lunga e spietata serie di fascisti uccisi dalle squadre terroristiche comuniste: a queste uccisioni fanno eco, di tanto in tanto, le raffiche di mitra delle rappresaglie, altrettanto spietate, compiute dai fascisti. Rappresaglie che, quasi sempre, si abbattono su innocenti ostaggi, rei soprattutto di essere antifascisti.
Così incominciò la guerra civile. Con una massiccia e ben diretta azione terroristica decisa e attuata dai comunisti con uno scopo ben preciso: spezzare il clima di tranquillità e di rassegnato attendismo che si era diffuso ovunque, dopo l’8 settembre, nei territori controllati dal nuovo governo di Mussolini, e che consentiva ai fascisti di procedere indisturbati a una rapida organizzazione del loro apparato statale e delle loro forze armate.
Documenteremo ora la veridicità di questa asserzione.
E lo faremo rievocando nei minimi particolari la storia delle quattro uccisioni più clamorose compiute dai comunisti in quel periodo quella di Igino Ghisellini, federale fascista di Ferrara (14 novembre 1943); di Aldo Resega, federale di Milano (18 dicembre 1943); di Eugenio Facchini, federale di Bologna (25 gennaio 1944); e di Arturo Capanni, federale di Forlì (10 febbraio 1944).
È necessario, però, per potere valutare pienamente che cosa sia costata agli italiani, in lacrime e sangue, l’azione terroristica condotta dai comunisti dopo l’8 settembre, avere davanti agli occhi un quadro preciso della situazione che si era determinata nell’Italia settentrionale e centrale nelle settimane seguite all’armistizio.
I tedeschi avevano bloccato nel Sud l’avanzata angloamericana, deportando in Germania oltre 600 mila soldati italiani e occupato saldamente tutti i gangli vitali del nostro territorio. Attorno a Mussolini si erano radunati oltre un milione di fascisti. Gli italiani del centro e del nord Italia (la RSI, inizialmente, giunse a comprendere 65 province con un totale di circa 50 milioni di abitanti), storditi dal succedersi di tanti drammatici avvenimenti cercavano solo, nella loro assoluta maggioranza, di vivere o di sopravvivere, nella speranza di una rapida soluzione del conflitto ormai in pieno svolgimento sul territorio nazionale.
Quale fu, in questa realtà, l’azione e la funzione dei partiti antifascisti? È una domanda, questa, alla quale è necessario rispondere con cruda sincerità se si vuole comprendere le cause che permisero ai comunisti di prendere l’iniziativa della lotta e di imporre poi la loro volontà a buona parte dello schieramento antifascista durante l’intero periodo della guerra civile. E la risposta è che, nei mesi successivi all’8 settembre, e praticamente per tutto l’inverno 1945-’44, i partiti antifascisti non comunisti manifestarono solo molto di rado la loro presenza attiva. La leggenda che i 600 giorni della RSI siano stati contrassegnati fin dall’inizio da violente, ininterrotte rivolte poplari organizzate e guidate anche dai partiti antifascisti non comunisti, non trova alcuna conferma nella obiettiva analisi della cronaca di quei giorni.
Fatta eccezione per gli infuocati giorni dell’armistizio, durante i quali si verificarono numerosi scontri tra le truppe tedesche e isolati reparti italiani, i mesi dell’autunno e inverno 1944-’45 registrarono solo sporadici episodi di resistenza armata contro i tedeschi e contro i fascisti. Ma nessuno di questi episodi, a quello che risulta anche dalla storiografia partigiana, fu la conseguenza di un piano operativo dovuto alla iniziativa di qualche partito antifascista non comunista. A parte il fatto che di rivolte popolari vere e proprie non se ne verificarono mai e che a questi episodi, in definitiva, non parteciparono complessivamente più di 2.000 persone: e comprendiamo nel numero anche i protagonisti delle “quattro giornate” napoletane.

Non solo: in molte città gli esponenti antifascisti non comunisti, animati dal sincero sentimento di evitare alle popolazioni i lutti e le atrocità di una guerra civile, accolsero di buon grado (nella convinzione tra l’altro che le truppe angloamericane non avrebbero tardato a raggiungere il Brennero) le proposte di tregua avanzate dagli elementi più moderati del fascismo repubblicano.

È quindi lecito avanzare l’ipotesi che se i comunisti non fossero intervenuti con tutto il peso della loro organizzazione terroristica per scardinare questa situazione di tregua, gli italiani, molto probabilmente, non sarebbero mai precipitati nel baratro della lotta fratricida. La tragedia, invece, esplose incontenibile e furono i comunisti a provocarla.
L’armistizio dell’8 settembre aveva trovato i comunisti, unici tra tutti i componenti dello schieramento antifascista, già pronti a sostenere una lunga lotta clandestina contro i tedeschi e i fascisti. Non solo: li aveva trovati pronti a condurre una lotta spietata, all’ultimo sangue, liberi da remore e sentimentalismi di sorta. Il loro obiettivo finale, infatti, non era tanto la restaurazione in Italia delle libertà democratiche e, tanto meno, la vittoria delle truppe alleate. Da fedeli esecutori degli ordini di Mosca, essi intendevano condurre una loro “guerra privata” puntando esclusivamente alla realizzazione dei presupposti necessari perché l’Italia, a guerra finita, potesse diventare una delle tante “repubbliche sovietiche”.
Ottimi conoscitori di quella tecnica della guerra civile da loro perfezionata in decenni di esperienza in tante parti del mondo, i comunisti non esitarono un solo istante ad applicarne ferocemente i dettami, pur di frantumare la situazione di quasi normalità stabilitasi dopo l’8 settembre nei territori della RSI e che non giovava assolutamente ai loro piani. Sarebbe molto interessante illustrare nei particolari questa tecnica della guerra civile, ma il discorso ci porterebbe troppo lontano. Diremo soltanto che il compito di rottura venne affidato a esigue squadrette terroristiche, guidate e composte molto spesso, da elementi slavi, infiltratisi nel nostro territorio durante i 45 giorni del governo Badoglio, o da russi fuggiti dai campi di concentramento nei giorni dell’armistizio. Da queste squadrette presero vita poi i GAP (Gruppi di azione patriottica) che furono l’elemento di punta della “guerra privata” comunista e, in definitiva, di tutta la lotta fratricida. Dei diciannovemila fascisti caduti tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, dodicimila circa furono eliminati dai “gappisti” in azioni individuali.
Gli obiettivi dei rossi furono i seguenti: esasperare i fascisti, spingendoli a reazioni sanguinose e inconsulte che avrebbero indubbiamente coinvolto molti innocenti seminando l’odio attorno al fascismo repubblicano; costringere gli antifascisti non comunisti ad accettare la lotta sul piano dello scontro armato finendo così con l’affiancare l’iniziativa dell’organizzazione rossa. Questa impostazione diede i suoi frutti: i comunisti giunsero a controllare direttamente l’80 per cento di tutto lo schieramento partigiano e, salvo rare eccezioni, a imporre la loro volontà alle altre formazioni sia in campo politico sia in campo militare.
Ed ecco, tornando alla cronaca delle settimane che seguirono l’armistizio, in quale maniera i rossi scatenarono
la loro “guerra privata” spalancando sotto i piedi degli italiani l’abisso della lotta fratricida.

L’UCCISIONE DEL FEDERALE DI FERRARA

Nelle prime ore del mattino del 14 novembre 1945, in un fossato presso Castel d’Argile, al confine tra la provincia di Ferrara e quella di Bologna, venne rinvenuto il cadavere del maggiore Igino Ghisellini che, dopo l’8 settembre, aveva assunto il comando del fascismo repubblicano ferrarese.
Nemmeno ventiquattro ore più tardi, all’alba del 15 novembre, per vendicare la morte di Ghisellini, i fascisti fucilarono undici antifascisti ferraresi. Nove di questi vennero uccisi nel centro della città e due sugli spalti delle antiche mura estensi. L’uccisione di Ghisellini e la rappresaglia che ne seguì segnarono praticamente l’inizio di quella spaventosa pagina di storia che è la guerra civile italiana. Ma proprio per questo motivo l’episodio è stato oggetto per interi decenni di una speculazione, alimentata dai comunisti, tendente a deformare la realtà degli avvenimenti e la verità storica. Si è voluto sostenere infatti (è questa è anche la tesi esposta nel film La lunga notte del ’43) che la rappresaglia fascista del novembre fu doppiamente criminale perché Ghisellini non sarebbe stato ucciso dai partigiani, ma da un fascista per rivalità interne di partito. La verità, invece, è ben diversa. E sono stati gli stessi comunisti, nel 1985, a confessarla: furono loro infatti a uccidere Ghisellini per scatenare la rappresaglia e la guerra civile. Ma ecco i fatti. La caduta del regime fascista e i successivi 45 giorni badogliani non alterarono che in minima parte la situazione politica della provincia di Ferrara la cui popolazione rimase sostanzialmente fedele al fascismo.

Non vi furono infatti manifestazioni di entusiasmo e i pochi antifascisti presenti nella zona restarono isolati quanto prima. Il fatto è che il Ferrarese aveva sempre costituito, fin dal lontano 1920, una delle roccheforti del fascismo: guidato da Italo Balbo il movimento delle camicie nere era dilagato nella provincia e, nell’ottobre del 1922, la città estense e il suo circondario contavano oltre diecimila squadristi e ben sessantamila lavoratori (in gran parte braccianti) inquadrati nei sindacati nazionali dipendenti dal PNF. In altre parole Ferrara già al momento della Marcia su Roma, allineava da sola più fascisti di tutta la Lombardia. Durante il ventennio, poi, il Ferrarese era stato particolarmente curato dal regime: tra l’altro, grandi opere pubbliche e di bonifica avevano trasformato la vasta pianura. La tradizione fascista aveva radici molto profonde nel Ferrarese e il crollo del regime aveva suscitato nella provincia solo un diffuso senso di incertezza e di scontentezza. Si giunse così alla capitolazione dell’8 settembre. La popolazione restò in attesa degli avvenimenti. Non ci furono disordini. Le truppe di stanza nel capoluogo si sbandarono e i tedeschi occuparono la città e i principali centri della provincia tra i 9 e il 10 settembre. Quando però le prime pattuglie tedesche entrarono in Ferrara, trovarono la sede della Federazione fascista, in viale Cavour già riaperta e presidiata da alcune camicie nere. Nei giorni immediatamente successivi, il fascismo ferrarese ritrovò i suoi capi nelle persone del prefetto Giovanni Dolfin (divenuto poi segretario particolare di Mussolini) e del console generale della Milizia, più volte decorato al valore, Olao Gaggioli, già federale di Ferrara ai 25 luglio 1943 e notissimo a tutti i ferraresi per essere stato uno dei fondatori, nel 1919, del fascismo locale.
Tra Dolfin e Gaggioli, però, non correva buon sangue per via di vecchie ruggini maturate prima della caduta del fascismo.
Gaggioli, infatti, quando vide Dolfin rientrare in Prefettura, si dimise da federale, passando le consegne al suo “vice”, il maggiore Igino Ghisellini, anche lui notissimo nel Ferrarese non solo per le capacità professionali (aveva tre lauree) ma anche perché, quale volontario nel primo conflitto mondiale, in Africa, in Spagna e nell’ultima guerra, si era guadagnato, alla testa dei reparti d’assalto, tre medaglie d’argento e tre di bronzo. Ghisellini, inoltre, era stimato per le sue doti di moderazione e di equilibrio. In poche settimane, il fascismo ferrarese divenne uno dei più forti e dei meglio organizzati di tutta la RSI. A differenza di quanto accadde in tutte le altre città d’Italia, nelle quali si assistette allo “squagliamento” di quasi tutti i fascisti del ventennio, a Ferrara i vecchi fascisti aderirono nuovamente al partito. Il fascismo repubblicano ferrarese giunse così a contare circa quindicimila iscritti (solo Roma, Milano, Genova e Bologna ne ebbero di più) e oltre diecimila giovani volontari nelle forze armate della RSI. Tutti i fasci periferici furono riaperti. Questo grosso successo politico fu, sotto molti aspetti, opera di Igino Ghisellini. Egli, infatti, dimostrò subito di perseguire una politica di pacificazione. Chiamò al suo fianco elementi moderati e universalmente stimati per le loro capacità professionali; escluse da ogni carica direttiva gli estremisti; si oppose alle rappresaglie che i più turbolenti tra i fascisti repubblicani volevano compiere nei confronti degli ex camerati del disciolto Partito fascista che non avevano aderito alla RSI.
Pochissime furono le misure repressive messe in atto. Una delle più clamorose fu l’arresto, effettuato dalla Questura, di alcuni esponenti antifascisti che, nel luglio precedente, alla caduta di Mussolini, avevano costituito un “fronte antifascista di unità d’azione”. Tra gli arrestati figurò anche il procuratore del Re, dottor Pasquale Colagrande, un giovane magistrato di indiscusso valore professionale, dirigente del Partito d’Azione.
La provincia di Ferrara trascorse così nella calma più assoluta alcune settimane. Ma tanta tranquillità non poteva essere bene accetta dai comunisti. Questi ultimi, infatti, grazie alla loro esperienza rivoluzionaria, erano in grado di valutare l’importanza strategica del possesso politico di una provincia come quella di Ferrara, “serbatoio umano” di prim’ordine con i suoi 160.000 braccianti agricoli, ed entrarono ben presto in azione. Evitarono, comunque, inizialmente, di apparire per quello che realmente erano, e cioè i meglio preparati e più organizzati tra gli antifascisti. Attraverso il loro rappresentante “ufficiale”, Ermanno Farolfi, riuscirono però a smuovere gli esponenti del restante antifascismo ferrarese. Nella città si ebbe così sentore, anche a causa dell’imprudenza di qualche antifascista, che era entrato in funzione un “Comitato di liberazione nazionale” con il compito di iniziare la lotta contro i fascisti e i tedeschi. La notizia, naturalmente, giunse alla Federazione fascista, sollevando reazioni contrastanti. Gli estremisti intendevano agire immediatamente facendo “piazza pulita”. Ma Ghisellini, che contava sull’appoggio di tutti i suoi più diretti collaboratori, fu di diverso avviso. Il suo scopo era e restava quello di evitare alla città e alla provincia i lutti di una guerra fratricida. Volle così incontrarsi con i componenti del CLN ferrarese. Questi ultimi, dopo lunghe discussioni e nonostante la decisa opposizione del rappresentante comunista, accettarono il colloquio con il federale.
L’incontro avvenne alla fine di ottobre nello studio dell’avvocato Mario Zanatta, del Partito d’Azione, in viale Cavour 5. Vi parteciparono i componenti del CLN fatta eccezione per il rappresentante del Partito comunista. Alla luce di quanto accadde pochi giorni più tardi, si può senz’altro affermare che quella riunione decise la sorte non solo di Ghisellini, ma anche dei componenti non comunisti del CLN. La riunione terminò infatti con un accordo che i dirigenti del PCI non avrebbero mai sottoscritto, poiché escludeva in partenza la possibilità di una lotta armata tra fascisti e antifascisti nella provincia di Ferrara. Si trattò di un incontro tra galantuomini, tra gente responsabile, ancora capace di anteporre all’odio di parte il desiderio di non spargere sangue tra fratelli.
Ghisellini e gli antifascisti non comunisti decisero infatti che le rispettive parti si sarebbero astenute da atti di violenza e di guerriglia. Così facendo, i componenti del CLN ferrarese, accettando di incontrarsi con Ghisellini e impegnandosi a non attaccare con le armi i fascisti, dimostrarono, al pari di questi ultimi, di non volere la guerra civile. L’accordo tra Ghisellini e il CLN garantì altre giornate di tranquillità alla provincia. Una tranquillità senz’altro irreale, carica di tensione, ma che, in ogni caso, non veniva rotta da colpi di rivoltella e da raffiche di mitra.
Giunse così il 15 novembre. A Verona era in preparazione il primo congresso del Partito fascista repubblicano, al quale Ghisellini avrebbe partecipato con i delegati eletti dall’assemblea della federazione ferrarese. Il congresso doveva iniziare la mattina del 14 novembre. La sera del 15, verso le 19, Ghisellini salutò i suoi collaboratori affermando che, il giorno dopo, sarebbe partito per Verona. Poi salì sulla sua automobile, una “1100″, per raggiungere Casumaro, un paese della provincia dove abitava da molti anni e dove l’attendeva la moglie.
Ma a casa non arrivò mai. A questo punto è necessario illustrare brevemente le abitudini di Igino Ghisellini. Il federale di Ferrara si spostava continuamente, in automobile, per tutta la provincia, spesso da solo e sempre in divisa. Tutte le sere, poi, si recava a pernottare a Casumaro. Questo paese è uno dei tanti che sorgono nella vasta pianura ferrarese, a circa venti chilometri dal capoluogo, a nord della strada Ferrara-Cento. Lo si raggiungeva, allora, percorrendo una rotabile che si snodava con moltissime curve lungo argini e canali. Chiunque avrebbe potuto tendere facilmente un’imboscata a Ghisellini. Ma nulla del genere era mai avvenuto. Il federale fascista aveva sempre percorso quella strada mattina e sera, senza scorta e senza che gli fosse mai capitato il minimo incidente. Numerose persone, naturalmente, erano al corrente di queste abitudini di Ghisellini: molti sapevano che il federale si fermava volentieri per caricare chiunque gli chiedeva un passaggio.
Il corpo del maggiore Ghisellini venne ritrovato verso le dieci del mattino del 14 novembre 1943. Era riverso in un fossato, nei pressi di Castel d’Argile, in provincia di Bologna, a breve distanza dall’abitato di Cento e a pochi chilometri dal confine con la provincia di Bologna. Aveva ancora indosso la divisa: mancavano solo gli stivali che erano stati sottratti, nelle tasche furono rinvenuti i documenti che il federale aveva recato con sé lasciando la federazione la sera precedente. Erano state rubate solo le poche decine di lire che portava nel borsellino. Poco lontano dal corpo, abbandonata sulla strada, c’era la “1100″. L’interno dell’automobile portava evidenti i segni di almeno sei pallottole ed era tutto chiazzato di sangue. Fu subito chiaro che Ghisellini aveva preso a bordo qualcuno lungo la strada tra Ferrara e Casumaro: il suo assassino o i suoi assassini. L’ipotesi che l’agguato mortale fosse stato effettuato da più persone era confermato dal particolare che i colpi erano stati esplosi da un esecutore seduto sul sedile posteriore, alle spalle di Ghisellini. Il che lasciava supporre che almeno un’altra persona si fosse seduta al suo fianco. Una conferma che l’attentato era stato portato a termine da più persone e in territorio ferrarese è venuta anche molti anni più tardi, nel 1988, dalla testimonianza, che qui viene resa nota per la prima volta, di un imprenditore di Pieve di Cento, Giuseppe Bonazzi, allora giovane brigadiere della GNR nella zona, che fu il primo a ricevere la segnalazione del rinvenimento del cadavere di Ghisellini nel fossato di Castel d’Argile: “Ci rendemmo conto”, ci ha raccontato Bonazzi “che Ghisellini era stato assassinato in territorio ferrarese da più persone in divisa della milizia fascista. Per scaricare il corpo del federale in territorio bolognese, infatti, l’automobile aveva dovuto superare senza alcun dubbio il confine tra la provincia di Ferrara e quella di Bologna, che correva, allora come oggi, lungo il fiume Reno. E l’unico ponte della zona che scavalcava a quei tempi il Reno, era quello alla immediata periferia di Cento, a meno di cinque chilometri a Nord di Castel d’Argile. Il ponte, in quel periodo, era presidiato costantemente da un posto di blocco della Guardia Nazionale Repubblicana. Ebbene, quella notte a comandare il posto di blocco c’ero io con alcuni legionari. Ricordo benissimo cosa accadde perché transitò una sola automobile in tutta la notte. Ricordo che recava a bordo almeno tre uomini in divisa della Guardia Nazionale Repubblicana, nessuno di noi pensò, e nemmeno sospettò, che quei tre, o quattro, “camerati” fossero in realtà dei terroristi comunisti, una categoria che fino a quel momento, nel Ferrarese, non si era
mai sentita nominare, e che, nell’automobile, magari nel bagagliaio, ci fosse il cadavere del federale di Ferrara. Così li salutammo e li lasciammo passare. Solo la mattina dopo, di fronte ai resti di Ghisellini, e soprattutto davanti alla sua automobile che riconoscemmo per essere quella che avevamo visto sul ponte poche ore prima, ci rendemmo conto di quello che era successo”.
Tre terroristi in divisa fascista, quindi, e un delitto spietatamente eseguito in territorio ferrarese: tre elementi sufficienti per indirizzare le indagini in un senso ben preciso. Invece si scatenò, proprio come i comunisti avevano voluto con fredda e calcolata determinazione, e come poi ammetteranno solo quaranta anni dopo, una rappresaglia che ancora oggi viene ricordata come la “lunga notte” della città estense. La notizia giunse a Ferrara nelle prime ore del pomeriggio del 14 novembre, portata da alcuni dirigenti fascisti della provincia. La Federazione era già piena di iscritti e di militi a conoscenza del fatto che il federale, la sera prima, non era giunto a casa. In un baleno si sparse la voce nella città che Ghisellini era stato assassinato. Un’ondata di sgomento e di paura sommerse Ferrara. Tutti temevano quello che, infatti, sarebbe poi accaduto: e cioè che la scomparsa di Ghisellini avrebbe lasciato campo libero agli estremisti. Cominciò così il secondo atto della tragedia. Indubbiamente il più terribile. Squadre di fascisti cominciarono a percorrere le vie della città procedendo all’arresto degli antifascisti più noti, mentre una delegazione partiva per Verona per dare l’annuncio della morte di Ghisellini al Segretario del partito. È noto cosa accadde allorché i delegati fascisti al primo congresso del PFR, radunati a Castelvecchio, seppero dell’attentato. Tutti i congressisti si alzarono urlando: “A Ferrara! A Ferrara! Vendichiamo Ghisellini!”. Allora Pavolini, segretario del PFR, placò i clamori informando l’assemblea che sarebbero partiti immediatamente per la città estense il delegato regionale per l’Emilia, professor Franz Pagliani, e le squadre federali di Verona e di Padova, agli ordini del console Vezzalini, uno degli uomini più intransigenti del fascismo repubblicano.
Pagliani e Vezzalini giunsero a Ferrara poche ore dopo, nel tardo pomeriggio del 14 novembre. La città sembrava in stato d’assedio. Pochissimi civili per le strade, i portoni delle case sbarrati. Dalla periferia, intanto, confluivano verso il centro migliaia di fascisti, in divisa e in borghese, provenienti anche dalle province limitrofe. Tutti erano armati. L’agitazione era al colmo, “nessuno”, ci ha raccontato un anziano sacerdote che visse intensamente e dolorosamente quelle tragiche ore “ebbe la freddezza e la presenza di spirito di valutare la situazione e di comprendere che le pallottole esplose contro Ghisellini avevano degli obiettivi ben precisi: rompere la tregua esistente e spingere i fascisti a una incontrollata rappresaglia; costringere gli antifascisti non comunisti ad accettare la guerra civile con tutte le sue crudeli conseguenze. Nessuno si rese conto che la vittima e il momento erano stati scelti, per raggiungere questi scopi, con diabolico calcolo. Igino Ghisellini infatti, non era solo il primo gerarca del fascismo repubblicano che veniva ucciso; era anche il segretario federale della città che, per il suo alto numero di iscritti al partito, era considerata la più fascista della RSI; ed era stato colpito proprio alla vigilia del primo congresso”, nessuno si rese conto di tutto ciò. Le squadre agli ordini di Vezzalini si installarono nella sede della federazione. Era già buio, quando venne compilata una lista di oltre duecento antifascisti o ex fascisti prelevati nelle loro abitazioni durante la giornata. Era tutta gente chiaramente estranea all’uccisione del federale: tra questi alcuni noti professionisti assai stimati nella città.
Nelle prime ore della sera, infine si sparse la voce per tutta Ferrara che i fascisti avrebbero vendicato sanguinosamente la morte di Ghisellini, fucilando numerosi ostaggi.
Cominciò così la “lunga notte” di Ferrara, una delle più tragiche che la città abbia vissuto durante tutti i secoli della sua storia. “La tensione”, ci ha raccontato un testimone “aveva raggiunto il suo apice. Sentivamo tutti che, da un momento all’altro, sarebbe successo qualche cosa di spaventoso. Molti di noi temevano che le quadre fasciste procedessero al massacro indiscriminato di tutti gli antifascisti arrestati durante la giornata. Poi si seppe che si era riunito un “tribunale speciale” con il compito di vagliare le posizioni dei singoli arrestati e tutti restarono in attesa degli eventi che ormai precipitavano”. In realtà, un tribunale degno di questo nome non si riunì mai. Le decisioni furono prese dai comandanti delle squadre d’azione e dagli elementi più estremisti. Verso mezzanotte questo “tribunale” emise il suo verdetto: morte per trentasette antifascisti ferraresi. Si profilava un eccidio di proporzioni inaudite. A questo punto, però, intervennero Pagliani e Vezzalini, che, come abbiamo già raccontato, erano stato inviati a Ferrara dal segretario del Partito fascista per assumere il controllo della situazione. Vezzalini, che venne poi fucilato alla fine della guerra e al quale è stata ingiustamente attribuita l’intera responsabilità della rappresaglia, convocò i comandanti delle squadre che avevano emesso le condanne dichiarando che avrebbe impedito il compiersi di una strage indiscriminata. Pagliani, a sua volta, bloccò ogni iniziativa nei confronti di Olao Gaggioli, che alcuni estremisti volevano fucilare immediatamente, accusandolo di essere un “traditore” solo perché, dopo l’8 settembre, si era dimesso da federale a causa del suo vecchio antagonismo con Dolfin.
Ma gli interventi di Pagliani e Vezzalini non riuscirono a placare i fascisti. La drammatica discussione, che aveva per posta la vita o la morte di decine di persone, si concluse con un compromesso: ignorando la realtà in campo antifascista e le vere responsabilità nella morte del federale, fu stabilito che la rappresaglia sarebbe stata eseguita contro gli esponenti del “Comitato antifascista” che avrebbero “ingannato” Ghisellini sottoscrivendo un “patto di pacificazione” violato con la sua morte. Il compromesso fissò anche il numero degli ostaggi che avrebbero dovuto essere fucilati per rappresaglia: dieci. Il “tribunale” tornò quindi a riunirsi per decidere le dieci condanne a morte. “Nella sala dove erano riuniti gli improvvisati giustizieri”, ci ha raccontato un testimone “l’atmosfera si fece ben presto rovente. A ricordarlo oggi, mi sembra di aver vissuto un incubo. C’era chi voleva morto tizio, e chi voleva morto caio. Qualcuno si accorse, a un tratto, che nel “tribunale” erano completamente assenti i dirigenti della Federazione fascista ferrarese. “Mandateli a chiamare”, gridarono allora in molti “debbono essere loro a fare la scelta”. Alcune staffette si mossero subito alla ricerca dei dirigenti”.
“Mi vennero a chiamare a casa”, ci ha raccontato il commendator Marco Calura, uno dei tre fascisti che Ghisellini aveva nominato suoi vice federali. “Era notte alta. Avevo lasciato la Federazione poche ore prima, dopo aver fatto di tutto perché venisse impedita la rappresaglia. Con me si erano allontanati anche gli altri due vice federali, Roberto Ghilardoni e Borellini, e tutti i componenti del direttorio federale. Non volevamo macchiarci le mani con il sangue dei nostri concittadini.
Dovetti comunque lasciare la mia abitazione e raggiungere il Castello Estense dove si stava decidendo la sorte di tanta gente. Contemporaneamente a me, giunse Ghilardoni. La scena fu breve e terribile. Ci ingiunsero di scegliere i dieci ostaggi da fucilare. Sia io che Ghilardoni rifiutammo. Gridammo che quello non era un atto di giustizia, ma un delitto. Ci buttarono fuori dalla sala urlando: “Fate come volete, li sceglieremo noi”". E li scelsero, infatti, estraendone otto dagli appunti trovati tra le carte i Ghisellini dove il federale assassinato aveva annotato i nomi degli esponenti antifascisti, con alcuni dei quali aveva trattato il “patto di pacificazione”, a cominciare dall’avvocato Mario Zanatta, nel cui studio era avvenuto l’incontro a fine ottobre.
Si compiva così, fino in fondo, il diabolico disegno comunista. La ritorsione alla violenza terroristica dei gappisti ricadeva, tramite la reazione dei fascisti all’oscuro dei retroscena nel fronte opposto, sugli antifascisti non comunisti contrari alla guerra civile e coinvolti loro malgrado nella “politica della strage” voluta e attuata solo dal PCI.
Oltre all’avvocato Zanatta vennero condannati a morte: il senatore Emilio Arlotti, il dottor Pasquale Colagrande, il commerciante Vittorio Hanau e suo figlio Mario, l’avvocato Giulio Piazzi, l’avvocato Mario Teglie, il commissionario Alberto Vita Pinzi.
La rappresaglia venne eseguita dalle squadre veronesi e padovane. I condannati ignorarono fino all’ultimo momento la sorte che li attendeva. Verso le quattro del mattino li portarono tutti nel Castello Estense. Nessuno disse loro che stavano per essere fucilati. Poco dopo le cinque gli otto furono invitati a lasciare il Castello: “Dove ci portate?”, domandarono alcuni. “Vi scortiamo fino alla piazza”, fu la risposta “poi vi lasceremo liberi”. Il gruppo, circondato da alcune decine di uomini armati, uscì dal Castello e si incamminò lungo Corso Roma, fiancheggiando il muretto che circonda il fossato, diretto verso la piazza. Dopo alcune decine di metri il gruppo si suddivise: davanti a tutti si trovarono a camminare il senatore Arlotti, i due Hanau e l’avvocato Zanatta; poco più dietro il dottor Colagrande, Piazzi, Teglie e Vita Pinzi. “La città era immersa nella nebbia e nel silenzio più assoluto”, ci ha raccontato un congiunto del senatore Arlotti che riuscì a ricostruire momento per momento la scena dell’uccisione. “Il rumore dei passi di molte persone che si avviavano verso la piazza mise in allarme il custode di una banca che ha la sua sede in Corso Roma, quasi di fronte al luogo dove avvenne l’eccidio. Da lui ho saputo come si svolsero i fatti. Quando il gruppetto di cui faceva parte il senatore Arlotti giunse al termine del muro che circonda il fossato del Castello, vicino alla statua del Savonarola, qualcuno disse: “Adesso potete andare, siete liberi”. Allora risuonò nitida la voce di Arlotti che, rivolto all’avvocato Zanatta, pronunciò in stretto dialetto ferrarese una frase, intraducibile letteralmente, ma che significa: “Togliamoci di mezzo al più presto, che ci è andata ancora bene”. Immediatamente dopo Corso Roma si riempì di raffiche di mitra. La sparatoria durò quasi un minuto. Poi il silenzio scese di nuovo sulla città”.
Otto trucidati sotto il Castello, uno in via Boldini: il cameriere Cinzio Belletti, che, sorpreso da una pattuglia mentre circolava senza rispettare il coprifuoco, si mise a fuggire e venne fulminato da una raffica. Ma quella notte furono uccisi sulle antiche mura estensi altri due ferraresi: l’ingegnere Girolamo Savonuzzi e il ragioniere Arturo Torboli. Non si è mai saputo chi abbia voluto la loro morte. La notizia della rappresaglia si sparse fulminea dovunque sollevando una ondata di sgomento, perché fu chiaro a chiunque che a Ferrara, con la morte di Ghisellini e l’uccisione degli undici antifascisti, era stato gettato il seme della guerra civile. E, di conseguenza, venne subito posta la domanda: a chi risaliva la responsabilità morale della strage? Chi aveva ucciso Ghisellini ben sapendo che l’uccisione di un moderato come il federale di Ferrara, avrebbe lasciato campo libero agli estremisti? A chi giovava, in altre parole, tutto il sangue versato nella città estense? la risposta era una sola: giovava ai comunisti, gli unici, tra l’altro, che non avevano perso uno solo dei loro dirigenti nella rappresaglia, e che avevano visto sparire, travolti dall’odio fratricida, tutti i componenti non comunisti del CLN che avevano accettato la proposta di Ghisellini di evitare a Ferrara gli orrori della guerra civile. Ma i comunisti non avevano interesse, data la violenza della rappresaglia che aveva gettato nel lutto tutto il Ferrarese, ad assumersi la responsabilità morale dell’uccisione di Ghisellini. Fu così che, nei mesi che seguirono la strage e specie alla fine della guerra, essi avallarono la voce secondo la quale il federale era stato assassinato da un fascista per rivalità interne di partito. Il motivo di questa decisione è chiaro: far convergere sui fascisti tutto l’odio e il risentimento popolare. Mon solo: i comunisti fecero anche il nome del presunto assassino: un certo Carlo Govoni. Ma la verità era ben altra, come avrebbero poi testimoniato gli stessi comunisti.
Prima di tutto va precisato che, nel dopoguerra, furono condotte quattro inchieste per giungere a provare che Ghisellini era stato assassinato da un fascista: indagarono la Magistratura, la polizia, i carabinieri e il Comitato di liberazione nazionale. Le indagini non raggiunsero mai un risultato positivo: non emerse mai la prova che Ghisellini fosse stato ucciso da un fascista e tanto meno dal Covoni.
Superfluo aggiungere che nessuna indagine venne compiuta per scoprire se il federale poteva essere stato ucciso dai terroristi del PCI e questo, nonostante i rapporti della GNR di Pieve di Cento sul transito dell’automobile sul ponte del Reno, dai quali emergeva senza ombra di dubbio che a partecipare all’uccisione di Ghisellini erano stati almeno in tre. E così la leggenda di Ghisellini, federale fascista di Ferrara, ucciso dagli stessi fascisti, divenne, già durante la guerra civile, ma soprattutto nei decenni successivi, una realtà indiscutibile, anche perché costantemente sostenuta dall’intero schieramento antifascista con il massiccio appoggio dell’ “intellighentia” resistenzialista. “Leggenda” che raggiunse il suo culmine allorché, come già accennato prima, il regista Florestano Vancini realizzò un suo film dal titolo La lunga notte del ’43, interamente ambientato in una Ferrara dove i fascisti repubblicani ammazzavano il federale Ghisellini, per avere così la possibilità di scatenare la rappresaglia sugli antifascisti innocenti.
Eppure, fin dal tempo della guerra civile, la verità sulla eliminazione “programmata” di Ghisellini era emersa in almeno due occasioni. La prima volta, un mese dopo l’assassinio, sull’edizione clandestina dell’Unità del 15 dicembre 1943, dove in quarta pagina, sotto il titolo Traditori fascisti giustiziati, si leggeva: “Le ultime due o tre settimane sono state dure per i traditori fascisti: a Torino, dopo il console Giardina, sono caduti sotto il piombo giustiziere dei patrioti altri tre traditori: Riva, Chiesa, Tricheri; a Imola è stato giustiziato un console fascista; a Castel d’Argine (Bologna) uguale sorte è toccata al federale fascista di Ferrara; a Sampierdarena (Genova) è stato abbattuto…”, e così via. Il fatto che, nel notiziario comunista, Castel d’Argile fosse divenuto per errore Castel d’Argine (con la n anziché con la I) non significa nulla. Nei Bolognese non esiste, infatti, ne esisteva nel 1945, alcuna località denominata Castel d’Argine. La seconda volta accadde a dieci mesi di distanza, allorché la radio inglese, nel notiziario delle Nazioni Unite dedicato ai partigiani, allo ore 8,20 del 24 settembre 1944 disse testualmente: “Foste proprio voi che nel novembre scorso giustiziaste il federale Ghisellini”. Ma le due ammissioni non suscitarono echi di nessun genere. Non nei fascisti, che non leggevano l’Unità clandestina ne ascoltavano, allora, i notiziari delle reazioni Unite, ne tra i comunisti che non avevano alcun interesse a far sapere che Ghisellini l’avevano ammazzato loro e non i fascisti. Un primo squarcio nel muro di omertà e di complicità che aveva immediatamente nascosto la verità sulla “lunga notte” di Ferrara, si ebbe nel luglio del 1962, vale a dire diciassette anni dopo la fine della guerra civile, quando l’autore di questo libro pubblicò sul settimanale Gente, di cui era redattore, la fotografia dell’articolo apparso sull’Unità clandestina di cui si è parlato prima, e che attribuiva ai partigiani comunisti l’eliminazione di Ghisellini. E a commento della pubblicazione, l’autore raccontò anche come era arrivato a rintracciare quel documento:

“… (ci) siamo arrivati seguendo una debolissima traccia fornitaci da un anziano ex comunista ferrarese che, terminata la guerra civile, preferì abbandonare le file del PCI.
Questo ex comunista ci disse: “I rossi negarono di essere stati loro a eliminare Ghisellini. Hanno buon gioco anche perché l’unico che sapeva molto sulla questione e che, forse, avrebbe parlato, venne poi eliminato dai tedeschi a Fiorenzuola, nel settembre 1944, in seguito a una delazione di cui non si è mai conosciuta l’origine. Intendo parlare del mio vecchio e caro amico Ermanno Farolfi, il comunista che faceva parte del CLN mentre era federale Ghisellini. Ricordo però che, subito dopo l’uccisione di Ghisellini, circolò nelle nostre file la notizia che il “giustiziere” era un gappista bolognese appartenente a una squadra dislocata nel comune di Galliera, in via Cucco. Una prova, comunque, che l’uccisione del federale è stata compiuta dai comunisti esiste ancora. Tutto sta a trovarla. Si tratta di una notizia che mi capitò di leggere pochissimi giorni dopo l’eccidio del Castello Estense, in una pubblicazione clandestina del PCI. Non ricordo ne la data ne il tipo della pubblicazione.
Ma se cercate con cura è probabile che possiate trovare qualche cosa”. Diciamo subito che le indagini sono durate a lungo. Ma, alla fine, trovammo la prova che cercavamo nella biblioteca dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, a Milano, dove era raccolta un’ampia documentazione resistenzialista sulla guerra civile…”
Sul momento queste rivelazioni suscitarono solo delle prese di posizione negative da parte delle associazioni partigiane e dei soliti “storici della resistenza”. Ma qualcosa cominciò comunque a incrinarsi negli ambienti comunisti già direttamente coinvolti nello scatenamento della guerra civile.
Anche perché i “rossi” si stavano stancando di dover dividere i “meriti partigiani” con altre “forze antifasciste” che alla guerriglia avevano partecipato solo in minima parte. Così accadde che nel 1970 In una pubblicazione di Ezio Antonioni dal titolo Gli inizi della lotta armata: Bologna verso la libertà (quaderno 9/10 de La Lotta) venne pubblicata una prima veritiera ricostruzione dell’assassinio di Ghisellini: “L’uccisione del federale di Ferrara fu, dunque, un’azione di guerriglia partigiana. L’attentato fu deciso a Bologna. Mario Peloni incaricò dell’azione S. al quale aveva dato appuntamento nei pressi di Porta Saragozza, il 15 novembre. S. era un aviere che l’8 settembre si trovava a casa. S. era però già pronto a colpire il nemico vero, da tempo individuato, ed era politicamente consapevole della guerra che bisognava fare. Raggiunse nello stesso giorno Ferrara. A Porta Bologna (probabilmente, vuole dire “Porta Reno”, ossia la porta della cinta muraria da cui parte la strada che conduce a Bologna) ad attenderlo con un giornale in mano, per farsi riconoscere, vi era un ex combattente della repubblica spagnola, il toscano Vasco Mattioli. Con un compagno studiarono il piano e, il giorno seguente, Igino Ghisellini veniva colpito inesorabilmente”. Il muro del silenzio, che aveva resistito per venticinque anni, si era così frantumato.
Nel successivo gennaio del 1976, infatti, un partigiano comunista bolognese, Sonilio Parisini, intervistato da Renato Sitti, dichiarò che nell’inverno 1943-44, tra i gruppi partigiani del Modenese dove egli operava, si diceva apertamente che Igino Ghisellini era stato ucciso da un comunista, e aggiunse che nell’immediato dopoguerra aveva saputo che a uccidere il federale di Ferrara era stato un “compagno di Cento”. Ma la ricostruzione definitiva dell’attentato terroristico che aveva portato all’assassinio di Ghisellini venne nel 1985 da Spero Ghedini (segretario della Federazione ferrarese del PCI nel 1944, commissario unico delle formazioni partigiane locali, rappresentante del PCI nel CLN provinciale, poi sindaco di Ferrara dal 1956 al 1965. In un suo libro dal titolo Uno dei centoventimila (Edizioni La Pietra, Milano), Spero Ghedini raccontò: “II gerarca fu infatti giustiziato dai partigiani e non ucciso dagli stessi fascisti in dissenso con lui, tesi lasciata circolare per diversi anni senza che nessuno intervenisse per smentirla. Io stesso, in una intervista rilasciata qualche anno fa al periodico Vie Nuove, sono stato in grado di confermarlo. L’attentato fu preparato accuratamente da Mario Peloni che poté contare su tre compagni, dopo aver discusso a fondo con loro sulla opportunità e sul significato esemplare dell’azione. Uno dei tre era un ferrarese, di cui però nessuno di noi ricorda il nome. Si trattava di un atto imposto sia dallo stato di lotta aperta che dalla necessità di impedire, con ogni mezzo, la riorganizzazione del Partito fascista e di salvaguardare l’unità recentemente raggiunta dal movimento antifascista, che la falsa e subdola opera “pacificatrice” svolta da uomini come Ghisellini tendeva a minare”. Spero Ghedini non ammetteva quindi solo l’uccisione del federale da parte dei comunisti ma ne rivendicava gli autentici scopi: vanificare ogni sorta di pacificazione (perseguita dai fascisti e dall’antifascismo non comunista) e scatenare la guerra civile.
Sempre in un’intervista rilasciata nel novembre del 1985, Spero Ghedini tornò sull’argomento con precisazioni ancora più significative sui motivi strategici che avevano spinto i comunisti a uccidere il federale di Ferrara e sul perché avevano deciso solo dopo tanti anni di dire la verità:

Come si svolse l’azione?”
“Il federale Ghisellini era stato seguito più volte quando la sera tornava a Casumaro per conoscerne orari e abitudini. Quella notte i compagni bloccarono l’auto lungo la strada, uno solo sparò e uccise Ghisellini. Poi auto e cadavere furono portati a Castel d’Argile per sviare le indagini e l’attentato avvenne alla periferia della città, si può dire a poche centinaia di metri dalla federazione fascista”. (Ricostruzione dell’episodio pienamente aderente a quanto raccontato da Giuseppe Bonazzi, N.d.A.)”
“Lei ha scritto di non ricordare il nome del comunista ferrarese che partecipo all’agguato. È un’affermazione poco convincente, nel numero del 28 luglio scorso “Candido nuovo” indica proprio in lei uno degli autori dell’attentato”.

“Il nome non lo ricordo proprio, ma se lo ricordassi non lo direi. Candido si sbaglia, io non partecipai all’azione. A quel tempo il partito mi aveva affidato compiti organizzativi, non operativi”.
Come prese consistenza la voce che Ghisellini era stato ucciso da un fascista per dissensi politici interni?”.
“Era una versione che faceva comodo a tutti. Consentiva ai fascisti di nascondere all’opinione pubblica che anche in provincia di Ferrara era iniziata la resistenza attiva contro il regime, e ai comunisti di defilarsi e di agire più liberamente nella clandestinità. Molta gente ne è ancora convinta.”
“Perché ora i comunisti rivendicano la paternità dell’attentato?”
“Perché oggi sono cadute le motivazioni che consigliavano di mantenere il riserbo e perché s’impone l’esigenza di ristabilire la verità storica”.

Questa la verità, raccontata da chi ricopriva un ruolo di primissimo piano nell’applicazione della strategia comunista per scatenare la guerra civile in Italia: una strategia che, come confermato dall’assassinio di Ghisellini già nel novembre 1945, doveva portare all’applicazione spietata di quella “politica della strage” che, subito dopo l’8 settembre, aveva costituito l’elemento principale dell’azione comunista nel nostro Paese per inserirlo, con il terrorismo, nell’orbita dell’Unione Sovietica. Una strategia spietata e criminale, ribadita e magnificata senza mezzi termini nel commento scritto da R. Sitti al libro di Luigi Sandri dal titolo Ferrara: agosto 1944 (edito dal Centro Studi storici della resistenza ferrarese): “Si giunse così all’eccidio del 15 novembre 1945 del Castello estense compiuto per l’uccisione del fascista Ghisellini. La notte fra il 14 e il 15 novembre
furono arrestate in vari luoghi della città un’ottantina di persone, fra antifascisti ed ebrei. Fu certo facile per le squadre fasciste individuare quelle persone, tenendo conto che i loro nominativi facevano parte di un nutrito elenco in loro possesso che probabilmente era stato compilato in parte dallo stesso Federale Ghisellini che aveva potuto avere contatti con antifascisti provenienti da ambienti piccolo medio borghesi inviati a discutere una qualche forma di accordo di “pacificazione”. L’incontro era avvenuto nello studio dell’Avv. Mario Zanatta e si era concluso con l’accordo di evitare violenze sia da una parte che dall’altra. Tutti i partecipanti all’incontro furono arrestati immediatamente dopo l’uccisione di Ghisellini. Più guardinghi erano stati i rappresentanti antifascisti del movimento operaio o comunque la componente, che era la maggioranza, comunista che non aveva aderito all’iniziativa. L’episodio spiega la decisione di procedere alla eliminazione del Federale fascista che avvenne, come riferisce con ampi e circostanziati particolari, Ezio Antonioni, sulla base delle testimonianze dei protagonisti, in un noto testo che non ha mai trovato smentita, da parte di un Gap di partigiani comunisti nel timore che la demagogica iniziativa di “pacificazione” del Ghisellini mettesse in pericolo l’unità appena raggiunta dal movimento antifascista”.
E tanto basta per chiarire definitivamente a chi va attribuita la responsabilità morale e politica dell’assassinio di Igino Ghisellini e del bagno di sangue che ne seguì.

L’UCCISIONE DEL FEDERALE DI MILAMO

Il secondo obiettivo fu Milano. La grande città lombarda era diventata, praticamente, la vera capitale della repubblica di Mussolini. Vi avevano posto la loro residenza numerosi ministeri e alti comandi militari. La federazione fascista era giunta a contare oltre 20.000 iscritti; altri 50.000 milanesi si erano arruolati nelle forze armate della RSI. L’intera provincia, superato lo smarrimento e la disperazione dei giorni dell’armistizio, aveva ritrovato una calma forse anormale ma che, in ogni caso, aveva permesso la ripresa di tutte le attività. Gran parte del merito di questa tranquillità spettava ad Aldo Resega, l’uomo che Mussolini aveva messo a capo della federazione fascista milanese.
Resega aveva 45 anni. Valoroso combattente, si era brillantemente affermato anche nella vita civile diventando direttore di una importante industria. Subito dopo l’8 settembre aveva aderito alla RSI impegnando tutte le sue forze per frenare le intemperanze e gli eccessi degli elementi più estremisti del fascismo milanese. Fu questo uno dei motivi che indussero Mussolini a nominarlo commissario federale.
A questo proposito ecco una testimonianza di indiscutibile valore: quella di Carlo Silvestri, il noto uomo politico e storico antifascista, che fu testimone e protagonista di tanti avvenimenti durante la RSI. Scrive Carlo Silvestri nel suo libro Mussolini, Oraziani e l’antifascismo (ediz. Longanesi, 1949) : “Aldo Resega aveva operato contro la guerra civile. Egli aveva accettato il pericoloso posto di federale di Milano solo perché, mi aveva detto, la presenza di Oraziani lo aveva rassicurato che il nuovo governo sarebbe stato al servizio della Patria e non della fazione”.
Sta di fatto che le prime azioni compiute dai comunisti in provincia di Milano non scatenarono rappresaglie proprio perché Aldo Resega si oppose decisamente a qualsiasi ritorsione. Il primo attentato i comunisti lo compirono il novembre 1945: sistemarono una bomba nell’ufficio turistico germanico alla stazione centrale. L’esplosione uccise due soldati tedeschi. Il comando delle SS pretese la fucilazione di venti ostaggi. Aldo Resega rispose che la federazione fascista non avrebbe permesso la strage. I tedeschi recedettero dalla richiesta. Pochi giorni dopo i comunisti uccisero il fascista repubblicano Pietro De Angeli. Poi un altro fascista: Piero Lamperti. Anche in queste due occasioni Aldo Resega si rifiutò di procedere a rappresaglie nonostante le pressioni esercitate su di lui dagli estremisti.
Era evidente che, perdurando Resega a capo della federazione, Milano non si sarebbe mai tramutata in un campo di battaglia. Fu così che i comunisti decisero di eliminarlo.
L’azione, a dire il vero, non presentava eccessiva difficoltà. Resega abitava con la sua famiglia in via Bronzetti, nei pressi di Porta Vittoria.
Trascorreva la mattinata nell’industria di cui era direttore e si recava nel pomeriggio in federazione. Quattro volte al giorno, con puntuale regolarità, usciva o rientrava nella sua abitazione. Non era scortato; non portava armi. Vestiva sempre in borghese ed effettuava i suoi spostamenti in città usando sempre il tram. Tendergli un agguato era estremamente facile. Fu ucciso con otto revolverate la mattina del 18 dicembre 1945, a pochi passi di distanza dalla soglia della sua casa. “L’uccisione del federale repubblicano Resega”, commenta ancora Carlo Silvestri “conseguì gli obiettivi voluti. Resega era un moderatore. Egli voleva la riconciliazione tra gli italiani. Lui abbattuto, prevalsero gli elementi più violenti del fascismo repubblicano”. Il 19 mattina, infatti, otto antifascisti, assolutamente estranei all’uccisione di Resega, pagarono con la vita colpe non loro. Ecco i nomi di queste vittime: Carmine Capolongo, Fedele Cerini, Giovanni Cervi, Luciano Gaban, Alberto Maddalena, Carlo Mendel, Amedeo Rossin, Giuseppe Ottolenghi.
Occorre aggiungere che i comunisti fecero di tutto per esasperare la situazione. Durante i funerali di Aldo Resega, infatti, alcuni comunisti, nascosti in due palazzi prospicienti la piazza del Duomo, aprirono il fuoco sul corteo. Non vi furono morti. Gli attentatori fecero in tempo a fuggire. Ma la tensione si aggravò paurosamente. Subito dopo quelle tragiche ore, e sfruttando il sentimento di indignazione popolare di fronte alla fucilazione degli otto ostaggi i comunisti tentarono, come già avevano fatto a Ferrara, di attribuire la morte di Resega a contrasti interni esistenti nella federazione fascista. Misero in giro la voce, anzi, che a uccidere Resega era stato il comandante della Legione “Muti”, di cui era nota l’opposizione a Resega da lui accusato, a torto, di mancanza di polso. La voce, a dire il vero, non trovò molto credito. A fine guerra, convintisi della inutilità della manovra (altrove invece rivelatasi molto efficace), i comunisti si decisero a raccontare nei particolari la verità sulla morte del federale.
Il racconto apparve sul numero 97 dell’Unità, edizione milanese, del 25 aprile 1948. Era firmato “Giulio”, il nome di copertura di uno degli attentatori. Lo riproduciamo integralmente perché è uno dei documenti più impressionanti e indicativi della mentalità che guidò i comunisti nell’applicare spietatamente le regole della loro “guerra privata”.
“La mattina del 17 dicembre 1943″, si legge in questa relazione “secondo gli ordini ricevuti, ci siamo recati sul posto. Due di noi hanno preso il tram, altri due la bicicletta. Con loro c’era anche la ragazza che doveva indicarci l’uomo. Anche lei era in bicicletta. A una fermata del tram l’abbiamo vista, ferma con i nostri due compagni; lei non poteva vedere noi. C’era molta nebbia e faceva molto freddo. Ma quella mattina lui non è comparso. Lo abbiamo aspettato fino alle 9, come ci era stato ordinato, poi ce ne siamo andati. Noi non sapevamo ancora di chi si trattasse, sapevamo solo che era un’azione molto importante. La mattina dopo siamo ritornati sul posto, io e “Barbison” in tram, gli altri due in bicicletta con la ragazza.
“Siamo scesi dal tram a Porta Vittoria, e alle 7,50 eravamo sul posto. L’uomo doveva uscire da un portone di via Bronzetti per andare a prendere il tram. Davanti al portone la ragazza e il nostro comandante si erano messi a chiacchierare: quando l’uomo usciva, dovevano fare come se si salutassero, e dividersi io e “Barbison” ci mettemmo dietro l’edicola che c’è di faccia al Verziere: lui doveva attraversare la strada davanti a noi. Il quarto compagno stava sull’angolo di corso XXII Marzo, di copertura. Io e “Barbison” abbiamo comperato anche un giornale, lo ho comperato il “Corriere”, però non leggevo: primo perché guardavo il portone, secondo perché non avrei visto nemmeno i titoli più grossi. Pensavo solo all’azione che dovevo fare.
“A poca distanza da noi era fermo un tipo. Io e “Barbison” abbiamo avuto lo stesso pensiero: che fosse un poliziotto in borghese. Il comandante e il compagno di copertura avevano lasciato le loro biciclette vicino all’edicola, appoggiate al marciapiede col pedale; dovevano servire a me e a “Barbison” per la ritirata. Siamo rimasti molto tempo ad aspettare. Alle 8,25 un signore è uscito dal portone. La ragazza ha dato la mano al compagno, che si è tolto il cappello: abbiamo capito che era lui. Mi sono sentito come scattare sull’attenti. Sempre con il giornale in mano ci siamo staccati dall’edicola. “Barbison” aveva la rivoltella sotto il giornale, io ce l’avevo in tasca.
“Il signore si stava infilando i guanti attraversando la strada. Noi siamo scesi dal marciapiede e in pochi passi gli abbiamo tagliato la strada, ci siamo posti uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Aveva finito di infilare un guanto e cominciava a infilare l’altro, quando è giunto sull’angolo del corso. Noi eravamo a un passo da lui. Abbiamo sparato quattro colpi ciascuno; è caduto con le mani in avanti. Un attimo prima di sparare ho dato ancora un’occhiata al tipo che mi era sembrato un poliziotto, ma non si era mosso di un passo. Con due salti siamo stati in sella.
La giornalaia ha poi detto che avevamo rubato due biciclette per scappare. Abbiamo pedalato in fretta per mezzo chilometro. Poi non ce n’era più bisogno, però non abbiamo rallentato molto. Poco dopo le nove eravamo a casa del comandante. Lui e l’altro compagno di copertura erano rimasti qualche minuto a vedere come si mettevano le cose, ma non avevano certo aspettato che arrivasse la polizia. Alle dieci abbiamo saputo il nome del fascista ucciso: era Aldo Resega, il federale dei repubblichini milanesi. Allora ci siamo abbracciati quasi piangendo. L’azione era andata perfettamente”.

L’UCCISIOME DEL FEDERALE DI BOLOGNA

Dopo Ferrara e Milano fu la volta di Bologna. La capitale emiliana era un’altra delle città chiave che i comunisti dovevano assolutamente immergere nel caos della guerra civile. Mettere fascisti e tedeschi in difficoltà a Bologna significava ostacolarli seriamente nel cuore della Valle Padana. Ma la città e la provincia non avevano mostrato, una volta ristabilito l’ordine dopo le giornate dell’armistizio, alcuna velleità di lotta nei confronti dei tedeschi e dei fascisti. La tranquillità imperava ovunque. La chiamata alle armi ordinata dal governo della RSI aveva visto affluire alle caserme il 94 per cento dei coscritti. Anche a Bologna, come a Ferrara e a Milano, questa tranquillità era stata favorita dall’atteggiamento dei dirigenti fascisti e, soprattutto, dalla politica di “non aggressione” instaurata dal segretario della federazione fascista, Eugenio Facchini. Questi aveva 32 anni: laureato in lettere, studioso dei problemi politici e sociali, aveva aderito alla RSI nella convinzione che la “socializzazione” ventilata da Mussolini con la costituzione della nuova repubblica potesse conquistare al fascismo la fiducia delle masse popolari. In questa convinzione aveva voluto incontrarsi con i capi più amati e seguiti del socialismo bolognese. Paolo Fabbri e Giuseppe Bentivogli allo scopo di stringere accordi ed evitare al Bolognese gli orrori della guerra civile. Ed era pienamente riuscito nel suo scopo. I comunisti, naturalmente, non potevano certo accettare una situazione del genere. E passarono all’attacco.
L’organizzazione rossa bolognese era agli ordini di un notissimo capo comunista, Ilio Barontini, detto “Dario”. Ecco la rievocazione delle primissime azioni comuniste nella descrizione che ne fa lo storico antifascista Renato Carli Ballola nel suo libro Storia della Resistenza (Ed. Avanti!, 1957). “Anche Ilio Barontini torna in Italia con l’esperienza di lotta della Spagna e del maquis francese. Giunto a Bologna ai primi di ottobre, egli raccoglie intorno a sé una decina di uomini divisi in due squadre, impianta un’officina clandestina per la confezione di ordigni esplosivi e il 18 dicembre dà il via alla prima azione di sabotaggio: il collocamento di una bomba a scoppio ritardato su una finestra del comando tedesco a villa Spada. Segue, a fine dicembre, il lancio di due bombe in una saletta del ristorante Fagiano, dove si trovava la mensa ufficiali tedesca e, il 25 gennaio 1944, l’eliminazione del federale fascista Eugenio Facchini, giustiziato a colpi di pistola nella stessa sede del GUF (Gruppo Universitario Fascista: M.d.R.) in via Zamboni”.
L’esposizione del Carli Ballola, esattissima per quanto riguarda l’illustrazione della tecnica applicata dai comunisti anche nel Bolognese allo scopo di scatenare la guerra civile, richiede alcune precisazioni. Le indagini da noi compiute ci hanno infatti permesso di appurare determinati particolari e di chiarire i motivi per cui il Facchini venne ucciso.
Per esempio: la prima azione di sabotaggio dei comunisti bolognesi non fu quella del 18 dicembre a villa Spada, ma risale alla fine dell’ottobre precedente. Si trattò di una bomba che esplose nel ristorante “Diana” uccidendo due giovani sposi in viaggio di nozze.
Eugenio Facchini, poi, non venne “giustiziato a colpi di pistola nella stessa sede del GUF in via Zamboni”. Una frase del genere può far credere che gli attentatori siano penetrati, per compiere l’azione, fin nell’interno degli uffici del GUF. Il federale, invece, non aveva occasione, già da molto tempo, di frequentare i locali del GUF: si recava però quotidianamente in via Zamboni per consumare i pasti alla mensa universitaria. Era questa una sua abitudine che tutti conoscevano perfettamente. Facchini, inoltre, come Ghisellini e Resega, non si faceva proteggere da nessuna scorta ed era solitamente disarmato. Gli attentatori lo attesero sul portone della sede del GUF: lasciarono che si avviasse su per la scala che conduceva alla mensa e gli scaricarono alle spalle tutti i colpi delle loro rivoltelle. Eugenio Facchini morì sul colpo. I suoi uccisori non furono mai identificati. E certo comunque che essi dipendevano da un comando che aveva sede a Galliera, alle porte di Bologna, in via Cucco.
Sembra accertato, ma non abbiamo mai raggiunto la prova decisiva, che di lì sia partito anche il terrorista che uccise i lfederale di Ferrara. La morte di Facchini, come i comunisti avevano perfettamente calcolato, scatenò anche a Bologna gli elementi più estremisti della federazione fascista. Si riunì immediatamente un tribunale rivoluzionario che giudicò dieci antifascisti sospettati di attività clandestina contro la RSI. Nessuno di questi era sicuramente responsabile della uccisione di Facchini. Ma nove di essi furono condannati a morte e fucilati: tra le vittime, un giornalista del Resto del Carlino, Ezio Cesarmi.
Ma l’ultima precisazione, la più importante, riguarda i motivi per cui il federale di Bologna venne eliminato. E qui bisogna risalire agli accordi che Facchini aveva stretto con Paolo Fabbri e Giuseppe Bentivogli. Per i comunisti, che volevano a tutti i costi la guerra civile, questo accordo era quanto mai negativo. I rossi, però, non se la sentivano, in quei giorni, di spezzare la tregua esistente nel Bolognese eliminando i due esponenti socialisti: poteva essere molto pericoloso e creare una insanabile frattura in quello schieramento antifascista che volevano giungere a dominare. Fu così che trovarono più sbrigativo e producente uccidere il Facchini. Ma aggiungiamo subito un particolare: nell’imminenza della fine della guerra assassinarono anche Paolo Fabbri e Giuseppe Bentivogli, due galantuomini che avevano imparato troppe verità sui comunisti e sulla loro “guerra privata”.

L’UCCISIONE DEL FEDERALE DI FORLI

L’ultimo federale ucciso nel “periodo d’incubazione” della guerra civile fu quello di Forlì: il maggiore Arturo Capanni. Venne colpito a morte il 10 febbraio 1944 presso la sua abitazione, a San Varano, una frazione di Forlì. L’uccisione di Capanni venne decisa dai comunisti per due motivi: uno di ordine pratico e l’altro di natura politica. Il motivo pratico: Capanni, valoroso soldato, era un elemento moderato, molto stimato anche dai suoi avversari. Era stato messo a capo della federazione solo da dieci giorni, proprio per impedire che gli elementi più giovani e turbolenti del fascio forlivese si abbandonassero nuovamente a delle azioni estremiste che avevano turbato la tranquillità della provincia. Il motivo politico: Forlì era la città di Mussolini. I comunisti avevano quindi la necessità che proprio a Forlì scorresse molto sangue.
Capanni, come Ghisellini, Resega e Facchini, seguiva degli orari molto esatti: tornava a casa a pranzo e a cena.
Anche lui non andava in giro con la scorta armata. Circolava, da solo, in bicicletta. Gli attentatori lo attesero lungo la strada e gli spararono alle spalle. Forlì, e specie gli abitanti della frazione di San Varano, vissero ore di incubo. Tutti erano certi che i fascisti, esasperati, avrebbero vendicato il loro federale. Ma la rappresaglia questa volta, non ci fu. Quando già erano stati scelti i dieci ostaggi da mettere al muro, la vedova di Capanni, signora Carlotta Della Valle, non volle che del sangue innocente andasse ad aggiungersi a quello di suo marito. Venne ascoltata. Dieci persone le dovettero la vita. Ma il furore e l’odio scatenato dai comunisti avevano ormai incendiato animi e coscienze e, dovunque, il sangue chiamava altro sangue.
Questa è la verità sui quattro episodi più clamorosi con i quali nelle settimane che seguirono l’8 settembre e la costituzione della RSI, i comunisti presero l’iniziativa della guerra civile. Ma in quel primo, tragico inverno 1943-’44, furono centinaia i fascisti che caddero sotto il piombo delle squadre terroristiche. Per essere esatti, tra il settembre 1943 e il 10 febbraio 1944, data dell’uccisione di Capanni, vale a dire in quel periodo che abbiamo definito di “incubazione” della lotta fratricida, caddero assassinati in imboscate 296 fascisti repubblicani e appartenenti alle forze armate della RSI. Questa cifra non comprende i militari deceduti in seguito a eventi bellici o in operazioni di rastrellamento.
L’elenco è stato tratto dalla cronaca dei quotidiani dell’epoca, provincia per provincia. Vale la pena di precisare che solo pochissime di queste uccisioni furono seguite da rappresaglia.
Nel 1950, allorché venne chiamato a testimoniare davanti al Tribunale militare che giudicava il Maresciallo Rodolfo Oraziani, il socialista Carlo Silvestri documentò che ricadeva sui comunisti la responsabilità di aver scatenato la guerra civile. Dopo aver elencato le uccisioni compiute dalle squadre terroristiche rosse nell’inverno del 1943, Carlo Silvestri disse: “L’iniziativa della guerra civile non fu di Oraziani e di Mussolini, non fu del fascismo repubblicano. Affinché non vi siano ombre di chiarezza, testimonio, ancora una volta, che tutte queste uccisioni furono volute col criterio di esasperare la situazione e di rendere inevitabile la guerra civile secondo il desiderio di Mosca”.

Tratto da: http://msdfli.wordpress.com/2010/01/14/giorgio-pisano-sangue-chiama-sangue-storie-della-guerra-civile-3/

Nessun commento:

Posta un commento