sabato 31 luglio 2010

Joseph de Maistre Considerazioni sulla Francia





Tra il 1796 ed il 1797 Joseph de Maistre scrisse le sue Considérations sur la France, pubblicate anonime nel 1797. I rivoluzionari ne vietarono la diffusione, ma il libro circolò clandestinamente e fu ristampato in più edizioni. Il loro impatto in tutta l’Europa fu notevole, Maistre influenzò anche avversari accaniti. Basti citare - tra gli autori legati alla storia delle Due Sicilie - Vincenzo Cuoco, il cui saggio critico sulla Repubblica giacobina del 1799 tenne conto delle critiche demestriane all’astrattezza dei modelli costituzionali partoriti dagli ideologi e calati dall’alto su tradizioni e consuetudini delle Nazioni.



Questo libro demolisce l’origine contrattualistica del potere teorizzata da Rousseau ed il filosofismo di Voltaire, e mette a fuoco con grandissima lucidità, solo pochi anni dopo i tragici avvenimenti del 1789, la reale natura della Rivoluzione francese prevedendone anche gli esiti.



La prima traduzione italiana delle Considerazioni sulla Francia fu pubblicata a Napoli, per la Biblioteca Cattolica, nel 1828.



Con questo grande classico della letteratura politica contro-rivoluzionaria, assente da circa un trentennio, Il Giglio inaugura la nuova collana Figure e opere della Contro-rivoluzione.









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Joseph de Maistre

ritratto di Vogel von Vogelstein (1810)
Il 14 luglio 1789 scoppia la Rivoluzione francese. In realtà, l’episodio del tutto secondario e privo di effetti concreti della presa della Bastiglia non fu che un evento simbolico, fissato poi nell’immaginario collettivo come l’inizio dell’epopea grazie alla quale il popolo avrebbe spezzato le catene della tirannia.

Questo è quanto il comune sapere recita circa la Rivoluzione per eccellenza ma, come spesso accade, non è la verità. La rivoluzione del 1789 fu la realizzazione di un progetto iniziato molti anni prima, nei circoli illuministi dei philosophes e nei salotti degli enciclopedisti, convinti che la perfetta felicità sulla terra fosse alla portata della ragione umana, capace di pianificarla a tavolino e di stabilirla infallibilmente, edificando la società della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità. La sua realizzazione passava necessariamente attraverso il rifiuto e la cancellazione di tutto ciò che l’aveva preceduta, per procedere ad una creazione ex novo dell’uomo e della società, in odio alla precedente creazione divina. Un uomo nuovo la cui natura non è di appartenere ad una famiglia, ad una terra, ad una tradizione, ad un ordine sociale, ad una fede, ma di compiere la volontà generale, che ne sia consapevole o meno. La Rivoluzione, con le sue avanguardie illuminate, avrà il compito di imporre un modello sociale che obblighi tutti a realizzare la volontà generale della quale essa è interprete.

Con la Rivoluzione francese si afferma come dottrina politica la dittatura dell’utopia sulla realtà, dell’opinione sulla verità, e come metodo il totalitarismo ideologico che opprime il popolo in nome del popolo, che saranno le matrici di tutte le successive rivoluzioni e la forma di una mentalità ancora oggi imperante. Resta valido il commento di de Maistre che scrisse: «La generazione attuale è testimone di uno dei più grandi spettacoli che occhio umano abbia mai visto: è la lotta ad oltranza del Cristianesimo e del filosofismo». […] «La Rivoluzione francese [ è ] una grand’epoca (…) le sue conseguenze, in tutti i campi, si faranno sentire molto al di là del tempo della sua esplosione».



Mai come durante gli anni della Rivoluzione francese libertà, uguaglianza, fraternità divennero termini privi di senso e il Terrore, la ghigliottina, il genocidio dei vandeani per mano delle colonne infernali, i martiri di Nantes, di Lione o di Arras, la rivoluzione esportata negli Stati vicini, sono la testimonianza dell’orrore a cui può giungere un potere che ritiene di non avere limiti imposti da Dio o dagli uomini.



Il suo bilancio fu terrificante. Fra il 1789 e il 1815 si contarono 600.000 morti nelle guerre interne, 117.000 nella sola Vandea; 40.000 ghigliottinati, il 28% contadini, il 31% artigiani e operai, il 20% commercianti, il 9% nobili e il 7% consacrati; 400.000 morti nelle guerre in suolo straniero, un milione nelle guerre napoleoniche; più di 100.000 emigrati.



Il commercio, la produzione industriale e quella agricola crollarono insieme al tasso di natalità. Soltanto nel 1825 risalirono ai livelli precedenti la rivoluzione.

In 7 anni il volume della carta moneta circolante aumentò di 20 volte, svalutandosi quasi completamente e provocando la bancarotta dello Stato francese.

Il vandalismo ideologico si accanì anche contro il patrimonio culturale, distruggendo monumenti dell’arte e della cultura; l’analfabetismo aumentò notevolmente e le persone capaci di scrivere passarono dal 37 al 32%.





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Joseph-Marie de Maistre nacque a Chambéry, in Savoia, allora parte del Regno di Sardegna, il 1º aprile 1753, da François-Xavier, magistrato e membro del Senato savoiardo, e dalla nobildonna Christine Demotz. Educato dai Gesuiti, si laureò in giurisprudenza all’Università di Torino. Nel 1786 sposò la nobildonna Françoise-Marguerite de Morand, ed ebbe tre figli.

Allo scoppio della Rivoluzione francese, nel 1789, de Maistre era senatore del Regno. L’astrattezza ideologica dei principi rivoluzionari, espressi particolarmente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, determinarono la decisa opposizione del Maistre e il suo esilio quando nel 1792, la Savoia subì l’invasione francese. Riparò in Svizzera, a Losanna, dove visse in povertà e perseguitato ma, coraggioso e perfino stoico di fronte alle sofferenze, pubblicò opuscoli e pamphlets contro la Rivoluzione francese. Costretto a lasciare la Svizzera, invasa dalle truppe francesi, soltanto nel 1797 riuscì finalmente a rientrare in patria.

Nel 1799, ebbe l’incarico di Reggente della Gran Cancelleria del Regno a Cagliari, e, nel 1802, Vittorio Emanuele I lo nominò ambasciatore a San Pietroburgo, presso la corte dello Zar Alessandro I, dove divenne una delle figure di maggiore influenza, soprattutto durante l’invasione napoleonica. Rientrò a Torino nel 1818 a causa di dissapori con la Corte russa per l’appoggio dato da Maistre ai Gesuiti, riebbe l’incarico di Ministro della Gran Cancelleria del Regno. Si spense il 26 febbraio 1821 ed è sepolto nella Chiesa dei Santi Martiri di Torino.

Tra le sue opere maggiori si ricordano le Considerazioni sulla Francia, il Saggio sul principio generatore della Costituzioni politiche, Sul Papa e Le serate di San Pietroburgo, il capolavoro di teologia e filosofia della storia pubblicato postumo nel 1821.





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Guido Vignelli (Roma, 1954), studioso di etica, politica e scienza delle comunicazioni, è stato tra i fondatori del Centro Culturale Lepanto, del quale è vicepresidente.



Dal 2001 al 2006 è stato componente della Commissione di Studio sulla Famiglia istituita dalla Vicepresidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tenuto corsi di aggiornamento per docenti al Faes e l’Oeffe di Milano, l’I.P.E. e l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, la Scuola di Formazione Sociale dell’Arcidiocesi di Palermo.









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Capitolo V



Sulla rivoluzione francese considerata nel suo carattere antireligioso. Divagazione sul Cristianesimo





C’è nella rivoluzione francese un carattere satanico che la distingue da tutto quanto si è visto finora e forse anche da tutto quanto si vedrà in futuro.

Si rammentino le grandi sessioni!, il discorso di Robespierre contro il sacerdozio, la solenne apostasia dei preti, la profanazione degli oggetti di culto, l’inaugurazione della dea Ragione e quella folla di scene inaudite con cui le province tentarono di superare Parigi: tutto questo esce dalla sfera ordinaria dei crimini e sembra appartenere a un altro mondo.



E anche adesso, che la rivoluzione ha arretrato di molto, i grandi eccessi sono scomparsi ma i princìpi rimangono. I legislatori (per usare il loro termine) non hanno forse pronunciato questa massima senza precedenti storici: “La nazione non finanzia alcun culto”? Alcuni uomini dell’epoca in cui viviamo mi sono parsi in certi momenti elevarsi fino all’odio per la Divinità; ma quest’atroce audacia non è necessaria per far fallire i maggiori sforzi costituenti: non diciamo il disprezzo, ma anche il solo oblìo dell’Essere supremo è un anatema irrevocabile che grava sulle opere umane che se ne macchiano. Tutte le istituzioni immaginabili si basano su una idea religiosa, altrimenti sono destinate a tramontare. Esse sono forti e durevoli nella misura in cui sono divinizzate, per così dire. L’umana ragione (o la cosiddetta filosofia, per usare un termine del quale non si comprende il significato) non solo non può supplire a quelle basi che vengono definite “superstiziose”, ma al contrario è una potenza essenzialmente disgregatrice.

Insomma, l’uomo non può rappresentare il Creatore che mettendosi in rapporto con Lui. Insensati che non siamo altro! Se vogliamo che uno specchio rifletta l’immagine del sole, lo rivolgeremo verso la terra?



Queste riflessioni si rivolgono a tutti, al credente come allo scettico; quello che espongo non è una tesi ma un fatto. Si rida pure di queste idee o le si veneri, non importa: vere o false che siano, esse costituiscono nondimeno l’unica base di tutte le istituzioni durevoli.

Rousseau, l’uomo di mondo che forse è più caduto nell’errore, tuttavia si è imbattuto in questa osservazione, dalla quale non ha voluto trarre le conseguenze. Dice: «La legge giudaica, tuttora sussistente, e quella del figlio d’Ismaele che, dopo dieci secoli, governa la metà del mondo, celebrano ancor oggi i grandi uomini che le hanno dettate. (…) L’orgogliosa filosofia o il cieco spirito di partito non vedono in loro che impostori di successo».

Non gli restava che trarne la conclusione, invece di parlarci di «questo grande e potente genio che presiede alle istituzioni durevoli»: come se questo linguaggio poetico spiegasse qualcosa!


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Quando si riflette sui fatti attestati dalla storia intera, quando si considera che, lungo la serie delle umane istituzioni, dalle più grandi che fanno epoca nel mondo fino alla più piccola organizzazione sociale, dall’impero fino alla confraternita, tutte hanno un divino fondamento, e che l’umana potenza, tutte le volte che se ne è isolata, non ha potuto dare alle proprie opere che una esistenza falsa e passeggera; allora, cosa dobbiamo pensare del nuovo edificio francese e del potere che l’ha prodotto? Per quanto mi riguarda, io non crederò mai alla fecondità del nulla.



Sarebbe interessante approfondire in successione le nostre istituzioni europee e mostrare come esse siano tutte cristianizzate, come la Religione, mescolandosi a tutto, tutto animi e sostenti. Le passioni umane hanno un bel da fare a infangare e perfino snaturare le creazioni primitive: se il principio è divino, ce n’è abbastanza per assicurare ad esse una durata prodigiosa. Tra mille esempi, possiamo citare quello degli ordini militari; certamente non si farà torto ai loro membri, affermando che l’oggetto religioso non può essere quello primario a cui mirano; ma non importa, essi perdurano e questa stessa durata è un prodigio. Quanti spiriti superficiali deridono questo strano amalgama tra un monaco e un soldato! Sarebbe meglio che si estasiassero davanti alla forza nascosta, grazie alla quale tali ordini hanno attraversato i secoli, schiacciato poteri formidabili, resistito a traumi che tuttora ci stupiscono nella storia. Ora, questa forza è il Nome sul quale tali istituzioni si basano, poiché nulla è se non grazie a Colui che è. In mezzo al generale sconvolgimento del quale siamo testimoni, l’occhio inquieto degli amici dell’ordine si fissa soprattutto sulla mancanza di educazione. Più volte li ho uditi dire che bisognerebbe restaurare la Compagnia di Gesù. Non discuto qui i meriti di quest’ordine, ma questo auspicio non rivela pensieri di gran profondità. Non si pretenderà che un sant’Ignazio sia a nostra disposizione, pronto ad assecondare i nostri progetti? Se l’ordine è distrutto, qualche frate cuoco potrà forse ristabilirlo grazie allo stesso spirito che lo creò; ma tutti i sovrani del mondo non potrebbero riuscirci.



C’è una legge divina altrettanto certa e altrettanto tangibile che le leggi del moto.



Ogni volta che un uomo si mette, secondo le proprie forze, in rapporto col Creatore, e produce una qualche istituzione in nome della Divinità, qualunque sia la propria debolezza personale, la propria ignoranza e povertà, l’oscurità della nascita, insomma l’assoluta mancanza di mezzi umani, in qualche modo quell’uomo partecipa di quell’onnipotenza della quale si è reso strumento e produce opere la cui forza e durata stupiscono la ragione.

http://www.editorialeilgiglio.it/articles.php?lng=it&pg=1015

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