venerdì 9 luglio 2010
Da Palazzo del Drago a via della scrofa. 60 anni di Msi
di Gabriele Adinolfi
Il 26 dicembre 1946, giorno di Santo Stefano, nello studio di Arturo Michelini, in viale Regina Elena, a Roma, veniva fondato il Movimento Sociale Italiano.
Per la leggenda (e forse anche per la storia) si tratta dell’acronimo di Mussolini Sempre Immortale.
Sessant’anni sono trascorsi da allora e oggi c’è un clima di amarcord piuttosto vivace.
Non si sa bene però cosa si stia festeggiando: se il passato, bello in quanto tale per quelli che invecchiano, se un partito politico di destra, se la spinta ideale che pur contenne ma mai lasciò esplodere o se invece solo una lunga mediocrità senza fine.
Inizi obbligati
Il Msi nacque in piena guerra fredda, anzi alla vigilia di una possibile guerra civile (le elezioni del 1948 potevano anche condurre a tanto).
È dunque certo quello che sostiene Parlato (ma è un po’ la scoperta dell’acqua calda) che il Msi fu foraggiato, protetto e inquadrato dal partito clerico/atlantico.
Il che puzzava tanto di Badoglio e non corrispondeva di certo alle ambizioni e agli ideali della Repubblica Sociale, tant’è che ben 35.000 Reduci, tra i quali il sottosegretario alla Marina della Rsi, Ferruccio Ferrini, voluto da Rodolfo Graziani come primo Presidente dell’Uncrsi malgrado avesse preso la tessera comunista, sostennero attivamente il Pci prima di aderirvi praticamente in blocco seguendo la linea di Stanis Ruinas.
Probabilmente l’idea che più aveva fatto presa presso i “neofascisti” era però quella della terza via, sociale ed anti-atlantista, che perseguivano Massi e Pini e cui occhieggiava, ondulante come sempre, Almirante.
Ma di certo ha ragione Giano Accame quando sostiene che allora non vi era scelta nel posizionamento, perché una vittoria rossa avrebbe significato il massacro dei neofascisti.
Va aggiunto che il quadro a quel tempo era molto complesso, anche perché, in quanto promotori della decolonizzazione (sia pure per preparare il colonialismo multinazionale), gli Usa opponevano agli alleati, Francia e Inghilterra, il sostegno a non poche pulsioni nazionalpopolari, come sarà il caso di Peron e Nasser. È dunque bene contestualizzare e non giudicare con gli occhi del poi.
D’altronde il Msi di allora aveva un’autentica classe dirigente (Gray, De Marsanich, Anfuso) e soprattutto quadri intermedi con competenze d’amministrazione e di ministero e, quindi, un po’ si raccapezzava nelle scelte.
Probabilmente la linea politica definita da Filippo Anfuso (uno dei non numerosissimi dirigenti che provenivano dalla Rsi) rappresentò la grande sintesi fra le pulsioni e le prospettive del neonato partito neofascista.
I Ca-di-si-fe
Se è lecito concedere quantomeno le attenuanti per la sua scelta atlantica alla classe storica del Msi, il gran problema, la cancrena oserei dire, che accompagnò quel partito da quando fu afflitto da una vera e propria democrazite, effetto delle sbornie elettorali, fu la burocratizzazione della sua autorità.
Una burocratizzazione che, venuta meno l’intera classe dirigente storica nella quale è giusto annoverare il pragmatico ma in nessun caso voltagabbana Michelini, finì con l’istituzionalizzare l’utilizzazione costante della spinta della base (alla quale magari si lisciava anche il pelo) per stemperarne immancabilmente le pulsioni. Subentrò insomma, nel giro di pochi anni da quel Santo Stefano del ’46, una logica di sfruttamento, non diversa da quella presente negli altri partiti, una brama di consolidamento delle poltrone, con tanto di esautorazione dei rampanti non-signorsì.
Al punto che, dalla direzione del Msi, venne definita una filosofia di cinico sfruttamento dei militanti. I “Ca-di-si-fe” (ovvero Ca-merati di si-cura fe-de) dovevano essere spremuti come limoni mentre con gli opportunisti si trattava e a loro si concedevano regali, posti, privilegi…
E fu così che la storia del Msi divenne, per migliaia, migliaia e migliaia di ardenti militanti, la storia di un amore tradito, la storia di una costante cornificazione.
Ed è anche per questo che oggi in molti tornano a ripercorrere la traccia del vecchio amore, con un sentimento che è un po’ quello di chi ancor sente sulla propria pelle le ferite del tradimento e rivedendo, attempata, la focosa consorte di un dì si chiede come sarebbe stato diverso se…
La memoria, si sa, è selettiva
Se la storia del Msi la vogliamo però tracciare basandoci sulla sua ufficialità, sui suoi eletti, sui suoi segretari, allora ne ricaviamo quella lineare di un partito subordinato alla Dc, di un partito dalla dirigenza mediocre se non addirittura di scarto.
Un partito che per la propria agiografia, non possedendo niente altro, deve ricorrere oggi a Telese che gli ha scritto la storia dei “suoi” Caduti.
Caduti che, però, non morivano per le elezioni e le pensioni sicure degli onorevoli Almirante e Rauti, né per sostenere i governi democristiani, il codino divieto di divorzio o le richieste gracchianti di pena di morte, ma per un sogno eccelso.
Caduti che, portati a braccia ai funerali, arrecavano voti ed elezioni.
Più Ca-di-si-fe di così!
Se ci fosse un minimo d’onestà dovrebbe allora il signor Telese, dovrebbero allora i mentori di quel Msi “assediato”, raccontare dell’uscita in massa dei G.O. (Gruppi Operativi) che se ne andarono sdegnati dopo aver chiesto per ben tre volte, senza mai ottenere risposta, a quell’Almirante che scortavano ovunque: “ci organizziamo per difenderci o chiudi le sezioni di quartiere e mantieni solo quelle centrali? Perché siamo stanchi di portare a braccia, impotenti, le bare dei camerati!”
Ma la memoria, si sa, è selettiva; sicché quegli uomini, che allora ressero lo scontro con la piazza rossa, che aprirono e difesero Sommacampagna in un clima d’assedio e che infine non tollerarono di lasciare che il partito per il quale avevano dato tutto divenisse un astuto becchino, quegli uomini sono spariti da tutti gli amarcord.
Tanto che via Sommacampagna oggi ce la raccontano come se fosse stata aperta e difesa da quei personaggi che poi divennero onorevoli, se non ministri, grazie agli effetti di Tangentopoli e che allora erano solo dei signorsì.
Dal Msi ad An
Se la storia del Msi fosse quella delle sue dirigenze, delle sue manfrine, degli accordi sottobanco, dell’accettazione a prestarsi alle provocazioni (come il congresso di Genova del 1960 e la spedizione alla Sapienza del 1968) avrebbero ragione quelli come Storace che ne rivendicano la forte impronta democratica, avrebbero ragione quelli come Baldoni che si chiedono: “perché ci accusavano di essere neofascisti?”
Ma avrebbero ragione soprattutto Fini e Gasparri, in quanto AN non rappresenta alcuno strappo, bensì la logica, consequenziale, evoluzione di quella politica dei vertici.
E a chi mi viene a parlare dell’intollerabile clausola resistenziale e antifascista che AN ha fatto propria, non posso che ricordare che già nel 1970 Almirante parlava di superamento di fascismo/antifascismo, per poi aprire, nel 1971 a monarchici e partigiani bianchi.
Io sostengo che, se ci si limita a comparare gli apparati ufficiali, le dirigenze e anche i discorsi tenuti, AN è molto meglio del Msi, quanto meno del Msi di Almirante, in quanto è più chiara, pulita, concreta e meno ambigua e sfruttatrice dei Ca-di-si-fe. Se non altro perché non ne ha più bisogno.
I “cornuti”
La storia del Msi, però, è, come detto, anche la storia di una costante cornificazione.
È la storia dei militanti illusi e delusi, incoraggiati e traditi.
È la storia di decenni di lotta accanita, contro venti e maree, mossa da ragazzi, da giovani, da piccoli borghesi, da artigiani, da uomini di popolo, che si negavano ad accettare le ingiustizie giuridiche e sociali.
Ragazzi e uomini che da soli, a proprie spese, senza mezzi e senza aiuti, misero in subbuglio per decenni la politica conformista e oppressiva democomunista.
Inventando di sana pianta rivolte popolari nel Meridione, compiendo azioni sindacali rivoluzionarie e controcorrente rispetto alla segreteria nazionale, effettuando occupazioni scolastiche e universitarie, apportando innovazioni culturali e prospettive politiche di primo livello.
Se del Msi prendiamo alla lettera il primo termine del nome, ovvero il Movimento e lo contrapponiamo, come sempre avvenne durante la sua vita, alla sclerotizzazione del Partito, allora la storia che si deve scrivere è ben altra.
Di tutt’altro segno.
E se è vero, come è vero, che dal 1950 al 1980 le avanguardie di pensiero si trovarono in massima parte in organizzazioni autonome, a volta addirittura conflittuali rispetto al Msi, è altrettanto vero che le aspirazioni germogliarono e si estesero costantemente fra i mille, mille e mille “cornuti” di ogni epoca, furono tante e interessantissime.
Ed è altrettanto vero che la gente che si avvicinò al Msi lo fece perché attratta dal canto dei “cornuti” e non dal calcolo dei “cornificatori”.
E sarebbe ora che qualcuno, infine, iniziasse a scrivere la storia di quel “movimento”, o meglio dei movimenti di idee che interessarono il neo-fascismo, smettendola di considerare le aspirazioni nazional-popolari, social-rivoluzionarie, anti-occidentaliste e di terza forza come se si trattasse di qualche elucubrazione isolata, ché non fu assolutamente così.
Il grande falso
Contro quel “movimentismo” a favore delle scelte di una dirigenza ingessata e subalterna a tutto, si suole utilizzare un argomento ben preciso.
Ci si viene a raccontare che la differenza esistente fra l’elettorato del Msi e la sua base militante è sempre stato enorme; che l’elettorato del Msi sarebbe codino, ottuso, furbastro, represso e che, dunque, la classe dirigente storica del partito neofascista avrebbe avuto l’intelligenza d’interpretarlo, cosa che la militanza missina non avrebbe mai saputo fare. Ma a parte il fatto che a tale militanza missina si deve ricondurre buona parte della classe dirigente storica, come Massi e Pini, ben due errori si trovano alla base di questa vera e propria mistificazione.
Il primo è che l’elettorato di un partito proveniente dal fascismo non è necessariamente codino e baciapile.
Con un’altra politica il Msi avrebbe perso magari cinque o seicentomila voti da quella parte per recuperarli però in aree laiche e progressiste (dai repubblicani, dai socialisti, dai radicali e, magari, dai sessantottini)
Ma l’errore di fondo sta nella disconoscenza dell’antropologia dell’elettorato missino, il quale non è politico ma sentimentale: è fideista e si convince in trenta secondi della giustezza di quello che dice il suo “capo”.
Gli stessi elettori missini che accettarono tranquillamente di porsi a destra della diga anticomunista, avrebbero votato in gran massa senza alcun problema, convincendosi in pochi secondi dell’opportunità del fatto, per il medesimo partito se avesse fatto alleanze con il Psi o se avesse prospettato terze vie.
La verità è che la classe dirigente del Msi scelse sempre una linea di passivo perbenismo per due ragioni:
perché su quella aveva la certezza di mantenere un numero sufficiente di voti per assicurarsi quel tot di poltrone (e non si tratta di gente che ama rischiare),
la seconda è che la mancanza di carattere e di personalità di chi nella dirigenza del partito subentrò ai fondatori del Msi non tardarono a trasformarsi in cieco ed acritico servilismo verso i più potenti.
Due storie parallele
Sarebbe allora il caso di riscrivere la storia del Msi come la lunga storia ininterrotta della convivenza di un’aspirazione rivoluzionaria e di un tradimento controrivoluzionario; così acquisirebbe un interesse reale.
E ci si potrebbe infine chiedere se nel 1946 non avevano ragione i Far che temendo l’ingessatura di un’idea e di un movimento nelle pastoie di un partito proponevano, anziché creare il Msi, di porsi, come lobby e movimento, in dialettica opportunistica con i diversi partiti democratici.
Nessuno ci potrà fornire la controprova di quello che sarebbe accaduto se avesse prevalso una tale aspirazione.
Limitiamoci quindi ad osservare la storia della convivenza fra movimento e partito, fra idee e incassi, nell’ambito di un organismo che divenne ben presto non solo una piramide rovesciata, ma addirittura il creatore dell’ideologia del rovesciamento della piramide (da cui il parto dei Ca-di-si-fe).
Cerchiamo quindi di leggere quella storia in modo freddo, concreto e senza incorrere in tentazioni agiografiche del tutto prive di fondamento.
E a chi ancora persistesse nel pensare che tra l’apparato Msi e quello An ci siano differenze ideali, ribattiamo che in An, e in tutto il post/neo/fascismo quello che fa difetto è il movimento, sono le idee, sono le innovazioni, sono i fermenti, è l’avanguardia; sono, insomma i “cornuti”.
Le motivazioni di questa carenza sono di certo socioculturali; ma ben poco c’è da sperare in quella direzione se chi si pone alla destra di An oggi è controrivoluzionario e codino per scelta, esattamente come lo fu sempre il Msi ufficiale.
Probabilmente l’opinione espressa sessant’anni fa dai Far è ora la più attuale e praticabile.
Cambiamo sessantennio!
Tratto da: http://it.altermedia.info/storia/da-palazzo-del-drago-a-via-della-scrofa-60-anni-di-msi_3408.html#more-3408
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